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'Emozioni Vs EmAzioni' di Guido Bonvicini

8/7/2025

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Psicologi e neuro scienziati cercano di capire e spiegare cosa sono le emozioni.  Il Dott. Goleman esprime il concetto con queste parole: “Le emozioni sono reazioni psicologiche e  fisiologiche, con cui ognuno risponde alle situazioni in cui si viene a trovare, ma anche alle proprie  elaborazioni mentali cioè ai propri pensieri.” 
Altri ricercatori esprimo il concetto con opinioni e modalità differenti, anche contrapposte, ma  pochi, pochissimi si soffermano su questa differenza: “reazioni con cui ognuno risponde alle  situazioni in cui si viene a trovare, ma anche alle proprie elaborazioni mentali”. Quanta differenza c’è tra un’emozione che percepisco “durante una situazione in cui mi trovo” e  un’emozione che sento “mentre la mia mente elabora un pensiero”?  
A mio avviso non possiamo trattare queste emozioni nello stesso modo: c’è una differenza  “enorme”, sostanziale, per più di una ragione! 
Prima tra tutte, l’emozione elaborata dalla mente “non esiste!”. È un’eresia? 
L’emozione della mente non riguarda la vita che sto vivendo “adesso”, ma sempre e solo la vita che  ho vissuto (o che credo di aver vissuto) o quella che “forse” vivrò nel futuro: l’emozione elaborata  dalla mente non è mai nel presente, quindi “non esiste” in quanto, se riguarda il passato, non c’è più e se è rivolta al futuro, non c’è ancora e forse, non ci sarà mai. 
Eppure è un fatto, queste emozioni le sentiamo eccome, e spesso ci bloccano in quel limbo, in quel  pensiero “parassita”. Allora cosa possiamo fare? Dobbiamo imparare a riconoscerle come  “emozioni energivore”: ci rubano energia e ci restituiscono nulla o poco in cambio, rendendoci  invece difficile la vita reale. 
Un altro tipo di emozione ci riempie la vita e la testa, che non può e non deve avere lo stesso valore:  quella che ci “inducono” gli altri! I registi, gli sceneggiatori, i giornalisti, i politici, i cronisti, gli  scrittori, i musicisti, gli atleti, i pubblicitari, … a volte il datore di lavoro o i colleghi: sono le  emozioni che ci vengono indotte! 
Le emozioni che percepiamo guardando un film, ascoltando il telegiornale, leggendo un articolo,  dando ascolto ad una pubblicità, sono emozioni costruite con certosina abilità per farci sentire  eccitati senza dover far fatica, felici senza dover uscire di casa, arrabbiati senza bisogno di litigare,  soddisfatti per un acquisto inutile o frustrati perché ci hanno guardato male! 
Dobbiamo diventare consapevoli che le emozioni indotte “non sono nostre” e non riguardano la  realtà della nostra vita attuale, dobbiamo saperle riconoscere e sceglierle se è nostro interesse. Quindi cosa conta?  
Contano le emozioni vissute durante l’azione di vivere. Io le chiamo EmAzioni. La gioia mentre gioco, la paura di cadere mentre pedalo, l’eccitazione mentre esploro un bosco, la  frustrazione mentre sbaglio strada, la rabbia mentre sento di aver detto una parola di troppo, l’estasi  mentre suono uno strumento, dipingo, scrivo, … 
Solo le EmAzioni mi permettono di gustare la vita e di imparare a crescere. Solo queste danno  valore alla mia vita. 
Buone EmAzioni a tutti.

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'Il Corpo che rivela l'essere' di Anna Faedda

8/7/2025

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Mi ero appena laureata in fisioterapia: nei tre anni di corso e tirocinio mi insegnarono a vedere il corpo come una specie di macchina che ogni tanto si inceppa o si rompe e che va aggiustata. Purtroppo, non di rado, la persona “proprietaria” di quel corpo non veniva neppure considerata nella sua globalità psicofisica: tante volte avevo sentito il personale sanitario riferirsi al paziente come “la protesi d’anca” e non come il Signor X operato di protesi d’anca; o più facilmente lo si chiamava “letto n…”. Trovavo molto inquietante questa consuetudine mascherata da praticità. La persona veniva identificata con la sua patologia!
Fu allora che conobbi la dott.ssa Laura Bertelè (www.metodobertele.it ), medico fisiatra, iscritta anche all’albo degli psicologi che mi guidò in un cambio di prospettiva importante: lei guardava in primis al malato e non alla malattia e la terapia che proponeva era globale, volta a ripristinare l’equilibrio dell’intero corpo e non solo della singola parte che mostrava il sintomo. Attraverso il lavoro sul corpo la persona aveva la possibilità di entrare in contatto con la parte emozionalmente ferita di sé, a cui non era riuscita a dar voce e che aveva trovato come unica strada di espressione il sintomo fisico. Lavorare col Metodo è stato ed è tuttora un viaggio entusiasmante, fatto di ascolto, presenza, attenzione: entri in punta di piedi nell’ Universo umano e ripercorri un cammino a ritroso alla ricerca del blocco originario, il più delle volte sconosciuto alla persona stessa. 
Negli ultimi anni, in seguito ad una vicenda personale, ho potuto aggiungere un ulteriore tassello a questa visione: la Malattia non più come manifestazione di qualcosa che non va ma come espressione della guarigione che è già avvenuta nell’Essere, per cui sarebbe più opportuno chiamarla “Benattìa”. Questa è la consapevolezza che ho acquisito grazie allo studio delle 5 Leggi Biologiche di Ryke Geerd Hamer, un ulteriore cambio di prospettiva che mi ha condotto da un lato a non avere più paura della “cosiddetta malattia” e dall’altro a comprendere che quando il sintomo si manifesta io non posso far altro che constatarlo, attendere che si completi il suo processo risolutivo( se necessario aiutarlo in questo). La cosa più importante è che il “lavoro” da fare è a monte: diventare pienamente cosciente di quale dinamica interiore mi ha portato a vivere in disarmonia una determinata situazione così da evitare di ripeterla ancora. A questo scopo ho conosciuto diversi strumenti che mi hanno aiutato ad entrare in contatto col mio Essere Autentico, ben diverso da quello che mi ero costruita fin da piccola per “sopravvivere” alle richieste esterne. In modo particolare ho approfondito la Mappa dei Bisogni di Jean Claude Badard, grazie alla quale ho potuto riconoscere il potenziale ancora inespresso ma che sentivo molto vivo in me ed è stato come tornare a casa dopo un lungo viaggio, ricordare qualcosa che avevo sempre percepito ma a cui non ero riuscita a dare un senso. Questo ha segnato un nuovo importante cambio di prospettiva: se io seguo la mia vera Essenza e mi assumo la responsabilità della mia storia, non avrò più richieste verso gli altri , uscirò dal giudizio perché avrò compreso che ognuno è qui per vivere e seguire la propria Chiamata. Così come il benessere delle singole parti di un corpo determina la sua Integrità e Salute, così tanti Individui in Ascolto di sé stessi possono generare un Collettivo Armonico e Sano.  ​
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'Caro Respiro' di Sara Santinon

8/7/2025

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Ti sei fatto conoscere quando avevo sedici anni, all'improvviso, dopo il mio primo attacco di panico. Da allora non ti ho più dato per scontato: sei diventato presenza costante, e talvolta inquietante.
Dopo quel primo episodio, hai continuato a bussare, soprattutto nei momenti in cui pensavo di averti finalmente “domato”. L’iperventilazione accompagnava spesso le mie giornate, respirare, da un momento all'altro, era diventato qualcosa di incontrollabile e temibile.
Sei tornato anche sotto forme diverse, prima, con l’ossessione di "dover pensare attivamente al respiro per continuare a respirare”, e poi con la sensazione di non riuscire a respirare "fino in fondo”. I controlli medici escludevano cause organiche, il problema era l’ansia.
È stato dopo essermi trasferita che ho deciso di affrontarti davvero. Grazie alla psicoterapia, allo sport, alle corse, ho iniziato a calmare il corpo e, indirettamente, anche te. Ma ancora non ti ascoltavo del tutto. Ti osservavo da fuori, ti trattavo come un sintomo e mai come una guida.
Di recente, grazie a questo Master, ad alcuni libri, come l’arte di respirare di James Nestor, e a nuove osservazioni su me stessa — il corpo in apnea, le spalle rigide — ti ho guardato con occhi diversi. Ho iniziato a dedicarti tempo e attenzione, a conoscerti con più curiosità.
Adesso so che non eri un nemico. Sei sempre stato lì per aiutarmi a portare in superficie ciò che cerco di ignorare. Non sono più arrabbiata con te. Anzi, ti ringrazio.
Mi hai insegnato che non posso conoscermi davvero se non ascolto il corpo. Non ti capisco del tutto, ma so che ora siamo una squadra.

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'Al Timone della mia vita' di Sara Santinon

8/7/2025

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It’s okay to be scared. Being scared means you’re about to do something really, really brave.
[Va bene avere paura. Avere paura significa che stai per fare qualcosa di veramente, veramente coraggioso.]
Mandy Hale

Ecco come il coaching mi ha aiutato a prendere la decisione di cui oggi più sono orgogliosa.
All'inizio di quest'anno, mi sentivo decisamente confusa. Mi si erano chiuse diverse strade e sentivo di dover trovare un modo per ritrovare la mia direzione.
Ho pensato al famoso detto "quando si chiude una porta di apre un portone", e ho cercato di non buttarmi giù ma di rispolverare vecchi sogni che avevo rimesso nel cassetto.
Senza troppe difficoltà si è ripresentata la voglia di viaggiare e fare volontariato, ora che non avevo lavoro o obiettivi di studio che mi tenessero ferma.
Ho pensato più volte che mi sarebbe piaciuto fare il servizio civile all'estero quando ero più piccola, ma anno dopo anno non trovavo mai il momento giusto. "Devo finire gli studi",  "Dove voglio andare con il Covid", "Non ho soldi".
Ora non avevo più scuse, e seguendo "la testa", ho iniziato a guardare le opportunità in Sud America, ma ascoltando meglio "la mia pancia" ho sentito che volevo andare in India, e mi sono innamorata di un progetto di volontariato a Kolkata, con donne e bambini.
Quindi perfetto! Guarda il bando e via, parti!
Ma non appena ho iniziato a immaginarmi concretamente un anno a fare il servizio civile all'estero, sono uscite allo scoperto tantissime paure, che hanno provato a farmi cambiare idea e non partire.
Grazie alle sedute di coaching ho deciso di affrontare queste paure parlandone e provando a capire come aggirarle.
Ho potuto ascoltare le parole di quella parte di me del passato coraggiosa, che non aveva paura di niente e sognava di scoprire il mondo. Quella parte mi diceva senza esitare di partire e di vivere.
Le obiezioni della me di oggi erano dolci, perchè cercavano di proteggermi, ma non erano nella direzione giusta.

C'è una meta comune a tutte le parti, anche a quelle più timorose, che si basa sulle aspirazioni e sui valori più radicati e profondi. A volte l'unico modo per non far prendere il comando alle nostre paure è dare loro il giusto spazio, non solo di esprimersi, ma di confrontarsi con le altre parti.
La scelta di aderire al bando ha avuto delle conseguenze che non mi sarei mai aspettata, non solo la paura di partire era scomparsa, ma ne era nata una nuova, opposta: la paura di non andare in India.
Questa nuova consapevolezza mi ha fatto sentire davvero felice e di nuovo al timone della mia vita.

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'Un Anno di Crescita Reciproca' di Sara Santinon

8/7/2025

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Quest’anno ho avuto la fortuna di affiancare una ragazza del liceo musicale con ipoacusia come assistente alla comunicazione.
Non si è trattato solo di tradurre parole o facilitare la comprensione: è stato un percorso di fiducia, motivazione e piccole conquiste quotidiane.

Due obiettivi principali
Abbiamo lavorato su due fronti:
  • Autostima e timidezza, perché credeva poco in sé stessa e faticava a esporsi davanti agli altri.
  • Difficoltà nelle materie linguistiche, in particolare inglese e italiano, materie in cui si sentiva meno capace, anche a causa della sua ipoacusia che rende più complessa la comprensione e l’acquisizione del linguaggio scritto e orale.
Pur essendo brillante nelle materie scientifiche, la lettura e la scrittura erano per lei una montagna da scalare.
Gli strumenti di coaching che ho usato
Ascolto attivo ed empatia
Per costruire una relazione autentica basata sulla fiducia.
Ho imparato a rispettare i suoi tempi, senza forzare: dopo le prime pressioni iniziali ho capito che ogni spinta eccessiva la faceva bloccare e tornare indietro. Condividere questa osservazione con l’insegnante di sostegno è stato fondamentale per trovare insieme un approccio più delicato e sostenibile.

Spazio sicuro e non giudicante
Ho creato uno spazio dove potesse sentirsi libera di provare e sbagliare senza il timore di essere giudicata e di avere una valutazione costante.
Un esempio: durante la lettura in inglese, evitavo di interromperla o correggerla. La correzione arrivava solo quando lei lo richiedeva. In questo modo non interrompevo la sua motivazione.

Modello positivo e condivisione
Ho scelto di condividere parti di me: le ho raccontato di quando ero timida e di come sono cambiata a piccoli passi. Questo le ha fatto capire che non era sola, e che anche la timidezza si può trasformare.
Sviluppo dell’autonomia
L’ho incoraggiata a prendere decisioni, anche a costo di sbagliare: era lei a scegliere cosa studiare e a parlare con i professori su quando e su cosa farsi interrogare.
Alla fine dell’anno, con mia enorme soddisfazione, ha iniziato anche a realizzare schemi personali in completa autonomia. Questo è stato un traguardo significativo, considerando che, da quando l'avevo conosciuta, ero sempre stata io a prepararle gli schemi.

Rinforzo positivo e feedback costruttivo
Ho cercato di valorizzare i dettagli, cosa aveva fatto bene: non solo “brava”, ma "Mi piace come hai scelto queste immagini che esprimono bene il concetto", o "Hai fatto un ottimo lavoro nel sintetizzare le informazioni, anche in inglese!".
Focus sui punti di forza
L’aspetto più potente: partire da ciò che le piaceva fare.
Scoprire che le piaceva usare Canva per creare loghi e presentazioni è stato il gancio perfetto per motivarla.
Abbiamo creato insieme un diario visivo: per vari temi, lei cercava informazioni (anche tramite video), selezionava immagini, curava l’impaginazione e scriveva un riassunto con parole chiave, anche in inglese.
Così la scrittura diventava un mezzo per realizzare qualcosa di bello e concreto.

Il risultato
Ogni pagina completata era una prova tangibile di ciò che poteva fare, nonostante le sue difficoltà.
Vedere crescere la sua sicurezza, la sua autonomia e il suo desiderio di mettersi in gioco è stata per me la conferma più grande: credere nelle persone è già un atto di coaching.


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'Ciak, si gira!' di Anna Faedda

8/7/2025

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Negli ultimi anni ho iniziato ad apprezzare lo stare da sola con me stessa e il silenzio: entrambe situazioni che cerco di creare il più possibile, con l’idea di entrare in contatto con la mia parte più autentica ma mi sono accorta di quanto il silenzio sia difficile da raggiungere, c’è una parte di me che fatica a staccare la spina…la Mente con i suoi infiniti pensieri e dialoghi. 
Secondo la tradizione Tolteca trasmessa da Don Juan a Castaneda ci sono delle entità chiamate Voladores che hanno instillato nella nostra mente la loro stessa mente, fatta di sistemi di credenze, abitudini, consuetudini sociali, e sono loro a definire le nostre paure, le nostre speranze, sono loro ad alimentare in continuazione il nostro Ego. Benchè questa visione possa apparire bizzarra, mi ha da sempre affascinato perché il più delle volte non mi sento padrona di me stessa, dei miei pensieri, come se questi accadessero senza il mio consenso e volontà. È così che mentre cammino nel bosco mi ritrovo a sentire una canzone che viene cantata nella mia testa e allora mi fermo, la osservo e si placa ma poi, riparto a camminare, e la musica si riavvia. In certi momenti rido di questo ma altre volte la canzone si trasforma in pensiero limitante e autodistruttivo, corre veloce, è in grado di creare immagini di possibili scenari, di cui io sono la protagonista, spesso nel ruolo di vittima. Accade tutto in pochi attimi e mi ritrovo in un vortice energivoro che mi trascina verso il basso, dove è difficile trovare soluzioni e la parte creativa è spenta, assente.
Come fare quindi a uscire da questi loop mentali? 
Credo che il primo passo sia Essere Coscienti che questi esistono e hanno delle caratteristiche precise: si sente spesso dire “La Mente mente” ed è proprio così. Lo fa ogni volta che giudica (sé stessa o gli altri), che ha paura, che dubita, quando genera pensieri limitanti e svalutanti: quello che accomuna tutte queste situazioni è che si ha una riduzione dell’energia, della capacità di concentrazione e attenzione, si vedono solo i problemi ma non le soluzioni. È come se il nostro Essere fosse frammentato in tante personalità, ognuna delle quali trova il suo momento per entrare in scena e farla da padrona su tutte le altre. 
In secondo luogo è fondamentale ascoltare le voci senza però identificarsi con esse, come se in noi ci fosse un Osservatore esterno che assiste curioso allo spettacolo: allora si potrà vedere emergere il Critico interiore che non è mai soddisfatto di quello che facciamo o il Bambino ferito che ha paura e dubita nel fare dei passi, o ancora il Ribelle che vorrebbe sovvertire tutti i sistemi o il Protettore che predilige la via conservativa, senza rischio alcuno.
A questo punto, una volta individuati i protagonisti, li si può far dialogare tra loro, in modo costruttivo, andando a scoprire qual è il bisogno nascosto dietro ognuno di essi, facilitando così l’integrazione e l’armonizzazione delle parti.
Che ruolo ha il Counselor in tutto questo? Può facilitare il processo che dalla confusione porta alla chiarezza: si avvale di tecniche che aiutano la persona a riconoscere gli “attori” che stanno partecipando allo “Spettacolo Interiore”, a osservarli e armonizzarli. Ascolta senza correggere, lasciando all’altro la possibilità di comprendere da solo dov’è il blocco, diventando così finalmente Regista e non più marionetta della sua stessa storia.
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'Quando è il corpo che parla!' di Guido Bonvicini

3/7/2025

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​Ricordo in modo particolare alcune prime volte: un uomo di 60 anni alla sua prima esperienza di arrampicata: non riusciva a dire una parola, ma saltava di gioia in cima a quella stretta vetta dolomitica come un adolescente al suo primo motorino. La prima volta in vetta al Cervino con un cliente, ci siamo abbracciati, entrambi con il nodo alla gola e gli occhi lucidi; le parole: inutili!
Gli adulti come i bambini, appena sentono di aver superato “quella paura” o di aver percepito “quel momentum” di gioia, esultano dentro, a volte non ne sono consapevoli e non esprimono parole, ma il corpo lo dice!
Studi di psicologia teorizzano che con la parola si comunica solo il 7%, con il tono di voce il 38% ma il linguaggio del corpo può comunicare il 55%.
L’ho sperimentato in molte occasioni, ma un’esperienza è stata molto forte: ho accompagnato quattro ragazzini in un corso di arrampicata, e con loro ho avuto importanti difficoltà di comunicazione; parlavamo lingue diverse, la loro per me era incomprensibile, poteva essere arabo, cinese, o marziano!
Esternavano le loro emozioni e desideri con modalità non convenzionali, non solo la lingua ma la cultura, lo standard comunicativo. Solo il corpo parlava con messaggi coerenti con il mio percepire.
Il timore, la curiosità dei primi giorni, delle prime prove, hanno presto trovato pace. Un poco alla volta, pur non conoscendo le nostre lingue, abbiamo cominciato a capirci. Interpretando i suoni, l’intercalare, leggendo la mimica facciale e i segnali del corpo affinavo la mia comprensione. Un po' alla volta la comunicazione non verbale, la comunicazione emotiva ed empatica prese piede, fino a capirci totalmente.
 
Edoardo era troppo giovane e poco interessato, voleva solo giocare. Paolo non era un tipo atletico, preferiva la riflessione ed aveva paura del vuoto. Isacco era portato per le attività atletiche, era forte, leggero, volitivo, non mollava mai, ma l’altezza non gli piaceva molto. Francesco era uomo di montagna, serio, deciso, senza paura, convinto, quando era il suo turno partiva e andava avanti senza indugi.
 
Al di la di tutte le incomprensioni linguistiche, le difficoltà peculiari dell’arrampicata e le caratteristiche dei ragazzi, dopo un breve percorso formativo i due ragazzi più portati scalarono una parete rocciosa di 25 m di altezza; vi assicuro che anche un perfetto estraneo come me poteva percepire in questi due ragazzi la gioia, l’entusiasmo e l’orgoglio di essere riusciti, forse anche l’affetto nei miei confronti e noi confronti dei loro accompagnatori per averli portati fino li.
L’autismo di cui erano affetti non era stato un limite! Le loro emozioni vennero espresse come quelle di qualunque coetaneo, con un linguaggio del corpo da imparare a leggere. Quella fu la chiave di lettura, attraverso il tono della voce, la mimica facciale e i movimenti del corpo. Le parole non c’erano e in effetti non sarebbero state essenziali.
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'I Conflitti Interiori' di Anna Fracasso

3/7/2025

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Per conflitto interiore si intende quell'esperienza in cui si hanno credenze psicologiche, desideri, o sentimenti opposti tra loro, dove in psicologia si utilizza il termine "dissonanza cognitiva". Questo è un tema che riguarda tutti noi, cioè i conflitti interiori in cui ci troviamo di fronte a una scelta o ad un argomento e la tua mente si riempie di voci contrastanti lasciandoti confuso e incapace di prendere una decisione. I conflitti interiori possono essere una grande fonte di stress e ansia, ma rappresentano anche un segnale prezioso della complessità della nostra mente e della ricchezza delle nostre emozioni. Immaginiamo una camera parlamentare mentale di tanti "io" dove c'è quello buono o cattivo, coraggioso o spaventato, razionale o irrazionale, dove ognuno di questi ha le proprie idee, strategie e sentimenti da realizzare. Quando arriva il momento di affrontare un evento della nostra vita, il parlamento inizia il dibattito in cui ogni "io" cerca di convincere gli altri che le sue proposte sono le migliori. Avere questi conflitti è anche un bene per la nostra flessibilità mentale, immaginando di trasformare il parlamento in una dittatura con un "io" alla Kim Jong, non più tante voci a confronto, ma con una sola persona a decidere per tutti. Allo stesso modo se nella nostra vita non esistessero conflitti, dubbi o incertezze, potrebbe essere il segno di una dittatura psicologica che rappresenta una rigidità mentale. Per gestire questi conflitti interiori, si deve imparare ad accettare i contrasti dentro di noi, piuttosto di sopprimerli e se cerchi di mettere a tacere una parte di te stesso, in realtà stai lottando contro te stesso. Si deve imparare a normalizzare le differenze e riconoscere che siamo degli esseri umani complessi, cercando di restare dentro a quel conflitto senza eliminarlo. Fare ordine alle diverse voci che convivono nella nostra mente, facendole dialogare e facendo pratica a visualizzare chiaramente le sfaccettature della nostra personalità, trovando punti di meditazione tra le diverse voci. Posso dire che con i video del mio docente Lorenzo Manfredini questo approfondimento e aiuto l'ho trovato molto utile per capire tante cose e ai continui sussurri interiori che ti portano alla confusione totale, ma avendo la consapevolezza di poter gestire e capire tutto questo condominio, hai la possibilità di affrontare le diverse situazioni che si presentano.
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'Altrove' di Nancy Baston

3/7/2025

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​La mattina del 22 giugno 2025 tre siti nucleari iraniani: Fordow (impianto sotterraneo), Natanz (principale centro di arricchimento), Isfahan (centro tecnologico nucleare) furono colpiti dalle forze armate Americane, mediante le seguenti armi: Quattordici bombe bunker-buster GBU-57 “Massive Ordnance Penetrator”, sganciate da bombardieri stealth B‑2 Spirit. Missili Tomahawk lanciati da sottomarini nel Golfo Persico.
…….
DEDICATO ALLE MAMME ISRAELIANE PALESTINESI E IRANIANE:
Sono al mare e dall’altra parte del mondo succede il finimondo.
Sono al mare e dall’altra parte del mondo una mamma come me ha paura.
Sono al mare e dall’altra parte del mondo figli di altre mamme devono crescere troppo in fretta.
Sono al mare e dall’altra parte del mondo andare a comperare il pane è uno slalom tra le bombe.
Sono al mare e dall’altra parte del mondo una notte di sonno profondo perde completamente il suo significato.
Sono al mare e dall’altra parte del mondo il valore della vita ….
Non sono un’esperta di storia ma se anche lo fossi troverei assurdo entrare nel merito delle più o meno motivazioni che spingono ambo le parti a rivendicare mediante la guerra i propri diritti, se così si possono definire, perché di fronte ad una vita spezzata tutto diventa banale e infondato, o perlomeno dovrebbe esserlo! Cosa spinge i “potenti” - prepotenti della terra a invertire le priorità dell’esistenza? Il potere, gli interessi economici, ma c’è dell’altro, qualcosa di più profondo, radicato e nascosto:
uno sguardo rivolto ALTROVE, poca attenzione vera al sé, produce come risultato poco o nessun rispetto dell’altro.
Non comprendo perché non si riesca a fare nulla per tutelare i più deboli e i bambini, nonostante le innumerevoli organizzazioni esistenti a tutela dei diritti umani.
La prima organizzazione per i diritti umani nasce nel XIX secolo, anche se le idee sui diritti umani hanno radici più antiche (Illuminismo, Rivoluzione Francese, ecc.).
 Prima organizzazione ufficiale: Anti-Slavery Society (1823, Regno Unito)
  • Nome completo: Society for the Mitigation and Gradual Abolition of Slavery Throughout the British Dominions Fondata: nel 1823 a Londra
  • 1961: Fondazione di Amnesty International
OGGI alcune organizzazioni:
      Organismi intergovernativi / multilaterali
  • Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani (OHCHR)
    Coordina monitoraggio, educazione e azione a sostegno dei diritti umani su scala globale.
  • Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite (UNHRC)
    Ente che indaga e raccomanda soluzioni per violazioni gravi in vari paesi
  • Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)
    Applicazione della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo.
Alla luce di queste informazioni mi chiedo perché queste intelligenze reali non siamo sufficienti per fare quello per cui sono nate!
ChatGPT mi corregge scrivendo che non può essere definito conflitto, perché non è stata dichiarata guerra formalmente, come se incursioni armate non fossero abbastanza esplicite o sufficienti, stati e diplomazia non servono e attualmente non sono incisivi, le mie domande, definite interessanti da A.I . ricevono risposte fiacche e senza senso per me, che non conoscendo tutta la storia nel dettaglio rivolgo lo sguardo ad una auspicabile soluzione reale, efficace e pacifica.  
Cosa possiamo fare quando nulla sembra bastare? Quando gli inesauribili, instancabili oserei dire insaziabili interessi economici non cedono il passo, mai! Nemmeno se si tratta di salvare vite innocenti!
Per quanto mi riguarda sento di dover fare i conti con la mia parte di colpa per omissione: per essermi permessa di continuare le mie giornate come se nulla fosse, di uscire a bere l’aperitivo, quando in quell’altrove vivono nella paura e semplicemente uscire per fare la spesa diventa un lusso, le necessità primarie sono sovvertite da una dimostrazione di forza, fasulla perché sostenuta solo da armi.
L’indifferenza generale mi tocca e mi condiziona. Mi sale una profonda sfiducia nella poca parvenza di controllo che credo di avere della mia quotidianità, confort zone. Mi domando come posso rendere sensibili e consce le mie figlie riguardo queste situazioni che ci investono ma ci sembrano lontane, e se ci riuscissi a trasmettere loro un elevato senso di giustizia e solidarietà, servirebbe a cambiare le cose?  Probabilmente lasceranno al modo meno scie di dolore, ma ci saranno altri a farlo al posto loro!
Cerco nel web come potrei essere utile in qualche modo, ma tutte le risposte che leggo mi sembrano inconcludenti. In una società oramai anestetizzata, sono senza alleati in questa lotta. La mia mente vaga in cerca di consigli e purtroppo dal passato affiora un ricordo che non mi aspettavo, una frase, l’ho sentita molte volte, da molteplici fonti, mi è stata insegnata e io l’ho imparata:
“Noi non possiamo farci nulla” tradotto: non è affar nostro sono altre culture, diverse, altrove.
Io sono al mare. 
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'Giuseppe: il coraggio di aspettare un abbraccio e il sorriso ritrovato' di Giusy Galipo'

3/7/2025

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​Le case di riposo sono spesso percepite come luoghi tristi, quasi fossero “lager” dove gli anziani vivono nell’isolamento e nella sofferenza. Questo pregiudizio nasce da esperienze negative che finiscono per oscurare il vero significato di un luogo dedicato alla cura. La verità è che dietro una casa protetta c’è molto di più: c’è l’idea di creare un ambiente dove le persone più fragili possano ritrovare il sorriso, la serenità e, soprattutto, la dignità. Non si tratta solo di fornire assistenza, ma di accompagnare ciascuno nel suo percorso di vita, con il rispetto e la cura che ogni persona merita. Oggi vogliamo raccontarvi la storia di Giuseppe, uno degli ospiti che vive con noi da tanti anni e che ci insegna ogni giorno il valore della dignità anche nelle situazioni più difficili.
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La storia di Giuseppe: Giuseppe è con noi dal 2007. La sua vita è cambiata all’improvviso quando, ancora relativamente giovane, è stato colpito da sclerosi multipla. La malattia ha compromesso la sua autonomia, e vivere a casa con la madre anziana è diventato impossibile. Così sono arrivati insieme nella nostra struttura, cercando un luogo sicuro dove affrontare la malattia senza perdere se stessi. Con il passare del tempo, la situazione è cambiata. La madre di Giuseppe è venuta a mancare, e da allora la nostra casa protetta è diventata la sua unica famiglia. La malattia, però, non ha smesso di avanzare, portandolo a perdere gradualmente ogni gesto quotidiano: mangiare, lavarsi, persino parlare. Spesso, nel tentativo di comunicare, rischia di soffocare, e ogni giorno è una lotta per mantenere la dignità nonostante le difficoltà.
 
Un momento di gioia: la festa in casa protetta: Nonostante tutto, ci sono anche momenti in cui Giuseppe ritrova un po’ di quella leggerezza che la malattia gli ha portato via. Uno di questi è quando organizziamo feste e momenti di socialità per gli ospiti. Di recente abbiamo organizzato una festa con musica e balli. Molti anziani si sono alzati, hanno danzato insieme, sorridendo e godendo di un momento di allegria. E Giuseppe? Era lì, come sempre, a guardare dalla sua sedia, con lo sguardo luminoso e un’espressione che parlava da sola: quell’armonia spezzava la routine della sua malattia, lo faceva sentire parte di qualcosa di vivo, vero, pieno di energia positiva. Vederlo così ci ha fatto capire quanto sia importante creare momenti di spensieratezza, perché non sono solo una pausa dalla routine, ma una vera e propria cura per l’anima.

Conclusione: La dignità non è garantita solo da una buona assistenza sanitaria, ma dalla capacità di essere vicini e di far sentire le persone parte di una famiglia. Giuseppe ci insegna ogni giorno che vivere con dignità non significa solo essere accuditi, ma essere riconosciuti come persone.
Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo fare in modo che il presente sia meno duro. Ogni giorno cerchiamo di far sentire Giuseppe vivo e importante, anche quando le sue giornate sono fatte di attese e silenzi. Perché nessuno dovrebbe mai sentirsi abbandonato, soprattutto quando la vita è già così complicata.
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'Un pomeriggio a casa della nonna' di Giusy Galipo'

3/7/2025

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Doveva essere solo un pranzo come tanti. Invece è diventato un insegnamento silenzioso, profondo.
Sono rimasta sulla soglia della cucina, in silenzio. Le ho guardate: mia mamma e mia figlia. Due generazioni a confronto, con lo stesso sorriso. Mi ha investito il profumo inconfondibile delle polpette in agrodolce.
“Nonnina, ti ha fatto le polpette”, le ha detto mia madre a Flavia, con quella voce che è carezza pura.
Non era un invito. Era amore. Amore in formato nonna.
Tra un taglio di provola e un battibecco col nonno, ha iniziato a raccontarle frammenti della sua infanzia.
Ha detto a Flavia che, alla sua età, lei lavorava già nei campi: piantava, raccoglieva, dava da mangiare alle galline. E quando sua madre non le permetteva di prendere le uova, lei si arrangiava a modo suo: infilava la mano direttamente dentro la gallina.
“Facevo prima”, ha detto ridendo, mentre Flavia la guardava a bocca aperta, metà shock e metà ammirazione.
Poi è arrivato il racconto d’amore. Quello che, da piccola, ascoltavo anch’io con gli occhi lucidi.
La mamma era promessa a un altro, ma quando vide il papà – il mio papà – le tremarono le gambe. Capì subito che la sua felicità era da un’altra parte.
E così, con un pizzico di follia e tanto coraggio, cominciò a scrivere lettere anonime al fidanzato dell’epoca:
“Lina non è la ragazza giusta per te.”
“Lina non ha le qualità che ti servono.”
Missione compiuta: matrimonio annullato e nozze con il nonno.
Lui aveva 23 anni, lei 22.
E da lì è nata una famiglia che, se ve la raccontassi tutta, sembrerebbe un film.
Siamo rumorosi, imperfetti, intensi… ma veri. E in quel momento, mentre le guardavo insieme, ho capito di non avere bisogno di altro.
Mia madre insegna ogni giorno, senza farlo apposta.

A me. A Flavia.
– Che la famiglia è sacra
– Che l’amore si dona, non si misura
– Che cucinare per qualcuno è un modo per dirgli: “ti voglio bene”.
Dopo pranzo, mentre lavava i piatti (perché “lei lo fa meglio di tutti noi messi insieme”), ha guardato Flavia e le ha detto:
“Tu hai una vita davanti. Io non ho avuto le stesse possibilità. Sfruttale. Vivile tutte, fino in fondo.
La vita è una sola. Non sprecarla. Non farti mai contagiare dalla rabbia di chi urla. La violenza è solo una scorciatoia per chi non sa amare.
A noi, invece, piace la lentezza.”
Poi si sono messe sul divano, a guardare un po’ di tv.
Hanno aspettato che il nonno si addormentasse… e gli hanno messo il rossetto.
(Tanto non se ne accorge mai.)
Io le ho guardate da lontano. Ho sorriso.
Non ho fatto foto. Non si può. Non renderebbero.
Ma quella scena – mia madre, mia figlia, un nonno con il rossetto – è incisa nella mia memoria.
E certe memorie valgono più di mille scatti.
Morale?
Non bisogna fare il giro del mondo per imparare qualcosa sulla vita.
Basta stare in cucina.
Con una nonna, una figlia…
Un piatto di polpette, e tanto amore intorno.

Perché il tempo passato con chi ci ama davvero è l’unica eredità che conta.
E i ricordi più belli, quelli veri… non hanno bisogno di filtri.
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'L’arte di ridare al dolore la sua giusta dimensione' di Giusy Galipo'

3/7/2025

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A volte ci sembra che tutto ci crolli addosso. Un imprevisto, una parola detta male, un ostacolo che non avevamo previsto. E all’improvviso, un singolo problema prende spazio… troppo spazio. Si gonfia nella mente, ruba energia, diventa una montagna insormontabile. Eppure, depotenziare i problemi è possibile. Non serve negare le difficoltà, ma ridare loro le giuste proporzioni, evitando di trattare ogni ritardo, errore o imprevisto come l’anticamera dell’apocalisse personale.
Un problema è un nodo da sciogliere, non una condanna. E a volte, cambiare il modo in cui lo guardiamo è già un primo passo per superarlo.
Chiedersi:
“È davvero così grave?”
“Mi sembrerà ancora così pesante tra una settimana?”
“Cosa posso imparare da questo?”

sono domande semplici ma potenti.

​Depotenziare i problemi significa anche non confondere il disagio con il destino.
E imparare a rispondere con lucidità (magari con un pizzico di autoironia), anziché con allarmismo teatrale. In fondo, non si tratta di ignorare le sfide, ma di trattarle per quello che sono: capitoli, non il finale del libro.
Morale della favola: meno amplificazione, più azione. Perché sì, possiamo anche prendere la vita   sul serio. Ma non è detto che dobbiamo prenderla sul tragico.

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'Coaching per la Ristorazione: Guidare il Successo tra Cucina e Sala' di Giada Ragone

3/7/2025

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Nel mondo della ristorazione passione, competenza e collaborazione si manifestano dal primo giorno nei membri nuovi dello staff. Come mai allora il ristoratore si trova a schivare sempre più colpi di padelle e grembiuli abbandonati al suolo?
Si entra nel terreno inesplorato della gestione delle relazioni! La gestione di un ristorante richiede oggi visione strategica, leadership, comunicazione efficace e soprattutto una squadra motivata.
Cos’è il Coaching per la Ristorazione?
È un percorso personalizzato di sviluppo rivolto a titolari, chef, manager, team di sala e cucina. L’obiettivo è potenziare le competenze relazionali, spesso trascurate nella frenesia del lavoro quotidiano, al fine di ottimizzare le competenze organizzative e decisionali.
I Benefici per il Ristoratore:
  • Il coaching agevola il lavoro di squadra aprendo alla consapevolezza che la soddisfazione del cliente nasce dal contributo di tutti i membri dello staff in egual misura;
  • Scoperta delle risorse individuali del professionista: come metterle in campo per aumentare le performance individuali e del team;
  • Condivisione di valori comuni nei team: obiettivo comune, mente aperta, accettazione che esistono personalità differenti senza giudizio;
  • Potenziamento della comunicazione efficace tra reparti: prevenire conflitti, rafforzare la collaborazione tra cucina e sala;
  • Agevolazione del coordinamento e dell’intesa senza parole: migliori prestazioni operative;
  • Miglioramento della leadership: imparare a guidare il team con chiarezza, empatia e assertività;
  • Gestione efficace dello stress: trovare equilibrio tra ritmi intensi, responsabilità e vita personale;
  • Orientamento al cliente: migliorare l’esperienza dell’ospite partendo dal sorriso dello staff.
Per fare un salto di qualità e ottenere un risultato differente, dobbiamo attuare in modo differente. Il coaching è l’antidoto al turnover. Curiamo le relazioni e coltiviamo la motivazione.
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'Dal Giudizio alla Scoperta del Talento: Il recruiter coaching-oriented' di Giada Ragone

3/7/2025

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​Oggi il ruolo del recruiter non si limita più a valutare competenze tecniche e a spuntare check-list di requisiti. Le esigenze delle aziende in un contesto lavorativo in continua evoluzione non vengono esaudite nella lettura di un cv.
I colloqui sono conversazioni complesse in cui emergono potenziale, valori e soft skill. Come fa il recruiter a portarli alla luce?

Ecco dove entra in gioco il coaching. Integrare l’approccio del coaching nei colloqui di selezione permette al recruiter di andare oltre il profilo in superficie e le risposte “preparate” dei candidati, creando uno spazio di dialogo autentico dove il candidato può esprimersi al meglio e il selezionatore può cogliere elementi più profondi e strategici.

Un recruiter che adotta un approccio coaching-oriented non si limita a “valutare”, ma ascolta in profondità, pone domande esplorative e lascia spazio al racconto individuale. Questo tipo di colloquio non è solo più umano: è anche più efficace. Le persone si aprono di più quando si sentono ascoltate senza giudizio, e ciò consente di rilevare attitudini, valori, flessibilità, capacità di adattamento e di apprendere.

Adottare strumenti tipici del coaching, affinando le proprie competenze relazionali – come l’ascolto attivo, la riformulazione, l’uso del silenzio, le domande aperte – trasforma il colloquio in un vero momento di esplorazione reciproca. Inoltre, permette di ridurre il peso dei bias cognitivi, favorendo decisioni più obiettive e inclusive.
Dal lato azienda abbiamo decisioni di selezione più consapevoli: la personalità per inserimenti mirati all’interno del team, conoscenza delle aree di miglioramento e di debolezza sulla quale andare a costruire un percorso ad hoc di aumento del potenziale. E’ un segnale di cura, sviluppo e attenzione che distingue l’organizzazione nel panorama competitivo.

Un altro vantaggio importante? La candidate experience. Un colloquio condotto con approccio coaching viene vissuto dal candidato come un’esperienza di crescita, non solo come un passaggio obbligato. Questo rafforza il branding dell’azienda e contribuisce a costruire relazioni solide fin dal primo contatto.

In un mondo del lavoro dove le competenze tecniche si aggiornano continuamente, il vero valore sta nella capacità di apprendere, relazionarsi e affrontare il cambiamento. E questo il cv da solo non lo racconta.

Integrare il coaching nella selezione non significa perdere rigore, ma bensì fare scouting di potenziale, non solo di performance passate. È un invito a scoprire le persone, non solo i loro profili, e a scegliere con maggiore consapevolezza, visione e umanità.
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'Disturbo Bipolare e Counseling: Qui e Ora delle Famiglie' di Giada Ragone

3/7/2025

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Il disturbo bipolare si manifesta con oscillazioni dell’umore che vanno dalla fase depressiva a quella maniacale o ipomaniacale. Questi cambiamenti non riguardano solo l’umore, ma anche energia, pensieri, comportamenti e relazioni. Comprendere questo disturbo è il primo passo per fornire supporto concreto.
Affrontare il disturbo bipolare non è facile, né per chi ne soffre né per chi gli sta accanto. La diagnosi può portare sollievo, ma anche confusione e paura.
Vivere accanto a una persona con disturbo bipolare è un'esperienza intensa, una vera e propria altalena emotiva: da una parte il desiderio di aiutare una persona cara, dall’altra la frustrazione per non sapere come farlo nel modo giusto ricaduta dopo ricaduta. Amore, preoccupazione, senso di impotenza, frustrazione.
Chi ama tende istintivamente ad “assumersi tutto”, a voler proteggere, aggiustare, controllare. Ma questo carico emotivo può diventare insostenibile, soprattutto quando si perde di vista un aspetto fondamentale: dove finisce la responsabilità della famiglia e inizia quella del familiare affetto dal disturbo?
Cosa si può fare in prevenzione?
Il counseling può intervenire a supporto del disagio dei familiari, in prevenzione al possibile manifestarsi di disturbi psicologici strutturati o di carico emotivo cronico e opprimente.
Il counseling non tratta il disturbo, ma accompagna i familiari nel percorso di consapevolezza, gestione delle emozioni e sviluppo di confini sani. Per le famiglie, questo significa imparare a riconoscere ciò che è davvero nelle proprie possibilità – come il supporto affettivo, il dialogo costruttivo, l’invito alla cura – e ciò che invece appartiene all’altro: la responsabilità della terapia, delle scelte di vita, del percorso personale.
Un percorso con un counselor può aiutare i membri della famiglia a:
liberarsi dal senso di colpa per non poter “salvare” il proprio caro;
imparare a dire no senza sentirsi egoisti;
comunicare in modo più chiaro e rispettoso;
proteggere il proprio equilibrio emotivo;
sostenere senza sostituirsi.
Questa distinzione non è solo teorica: è un passaggio essenziale per evitare il logoramento emotivo, per non entrare in dinamiche disfunzionali e per poter essere un vero punto di riferimento, stabile e presente, senza perdersi.
In definitiva, il counseling offre alle famiglie uno spazio sicuro per fermarsi, riflettere, ricentrarsi. Perché aiutare davvero qualcuno significa anche sapersi prendere cura di sé.
Ricorda: non sei solo, e non sei sbagliato se ti senti stanco, confuso o sopraffatto. Stai facendo del tuo meglio, con il cuore pieno d’amore e la volontà di aiutare. Ma per sostenere qualcuno in difficoltà, è fondamentale essere radicati, lucidi e presenti.
Il counseling può essere il tuo alleato in questo cammino. Un sostegno concreto per ritrovare equilibrio, chiarezza e forza interiore. Perché prendersi cura di sé non è un lusso, è un atto d’amore, anche verso chi ti sta accanto.
Solo quando impariamo a riconoscere i nostri limiti, possiamo essere davvero di aiuto. E da quel punto in poi, il percorso si fa più leggero. Non facile, ma possibile.
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'La Ruota del Desiderio' di Marzia De Franceschi

9/6/2025

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 “Ci sono milioni di strade. Un guerriero, di conseguenza, deve tenere sempre presente che una strada è soltanto una strada; se sente di non doverla seguire, per nulla al mondo dovrà indulgervi. La decisione di proseguire su di essa o di abbandonarla deve essere presa indipendentemente dalla paura o dall’ambizione. Un guerriero deve considerare ogni strada con attenzione e determinazione, e c’è una domanda che un guerriero non deve fare a meno di porsi: ‘questa strada ha un cuore?’. (Don Juan)
Il concetto di MEDICINA, per i nativi americani non significava solo un medicinale o un modo di curare, ma comprendeva i talenti di tutte le relazioni che abitano con noi Madre terra. Le piante, gli animali, le rocce, il vento, l’acqua esibiscono e donano messaggi di guarigione a chiunque sia così astuto da osservare i loro comportamenti e le loro lezioni e viverle. 
La RUOTA DI MEDICINA rappresenta la capacità di connettersi e percepire consapevolmente che possiamo attingere a questi talenti, e che ognuno di noi, quando esprime i suoi talenti, può diventare una buona medicina.

​Il Sud nella ruota di medicina: emozioni, crescita e connessione con il bambino interiore

È il luogo dove siedono le emozioni, il luogo della fiducia e dell’innocenza, il luogo dove si manifesta la vita fisica. È il luogo del bambino, del nostro bambino interiore che ancora ci dà curiosità e meraviglia per il mondo. È il luogo della paura, delle paure e ferite legate all’infanzia che condizionano a volte la nostra esistenza. La forza elementale del Sud è l’acqua, quindi è legato al movimento e all’azione, perché l’acqua ferma marcisce. Così dovrebbero essere le nostre emozioni, fluenti come l’acqua limpida di un fiume e mai trattenute, poiché potrebbero fissarsi in qualche parte del nostro corpo e creare disarmonie. 
L’Ovest nella ruota di medicina: introspezione, morte e rinascita
È il luogo dove risiede il corpo fisico e la sua forza elementale è la terra, è il luogo dell’intuizione e dell’introspezione, della morte e della rinascita. La morte non era esorcizzata come oggi in occidente, ma era considerata una compagna, un’entità consigliera delle proprie azioni. Ogni rito di passaggio e ogni cambiamento indotto o volontario nella vita erano considerati una morte e rinascita.
L’introspezione è la capacità di guardarsi dentro, di trarre lezioni dalle azioni del passato, è la capacità di sondare il cuore per esaminare quali sono le vere intenzioni. L’intuizione è quel lampo di consapevolezza percepito con tutto il corpo intero, quel lampo che oggi non siamo più abituati ad ascoltare, quel lampo che in alcuni momenti si palesa come serena chiarezza.
L’Ovest è il luogo dell’energia femminile intesa come forza creativa.
Il Nord nella ruota di medicina: mente, saggezza, strategia
È il luogo dove siede la mente, casa della conoscenza, della strategia e della saggezza. La sua forza elementale è l’aria. La mente non è né fisica né materiale e la sua funzione è quella di dirigere la nostra vita. Non ha limiti, può spostarsi ovunque e non è misurabile, può essere esperita come coscienza e si sposta con essa. Ha un’attinenza diretta con la saggezza che per i nativi era la conoscenza derivata dall’esperienza applicata con amore. 
 Se chiarezza, conoscenza, saggezza e raziocinio sono poteri del Nord, questi devono però essere accompagnati e completati dal nostro bambino interiore, che sta a Sud, pena la possibilità di diventare prigionieri di schemi mentali, comportamenti ripetitivi, repressione delle proprie emozioni, creando rigidità che si possono fissare sia a livello fisico che spirituale. 
L’Est nella ruota di medicina: illuminazione, potere e il ruolo dello Spirito
È il luogo dove siede lo spirito, è la direzione da cui nonno sole ci accoglie tutte le mattine, è il luogo dell’illuminazione, della rivelazione, del potere in senso lato. È il luogo della chiarezza, della creazione e del concepimento, la sua forza elementale è il fuoco simboleggiato dal sole. L’Est è il luogo dell’energia maschile intesa come forza di esplorare nuove possibilità, di ricavare nuove idee e di proteggere. 

LA RUOTA MEDICINA NEL COACHING
Vi è una ruota medicina chiamata Ruota del Desiderio che può essere vista come uno strumento per fare coaching: nel mio lavoro la uso con le donne che per natura sono cicliche e il cerchio è il simbolo che maggiormente ci rappresenta
Al centro del cerchio si pone il desiderio, l’obiettivo, e ai punti cardinali le 4 D: disciplina, devozione, dedizione, determinazione
CENTRO: il DESIDERIO in tutte l sue forme. Il desiderio è un carburante, una corrente di energia che ci alimenta e proietta nella vita
NORD: DISCIPLINA
Qui  risiede l’elemento ARIA che rappresenta il PIANO MENTALE
Il nord chiede di  fare chiarezza su dove voglio andare, cosa voglio raggiungere. E’ necessario aprire la mente a nuovi schemi, nuove possibilità per evitare eventuali blocchi
EST: DETERMINAZIONE
A est vi è l’elemento FUOCO che rappresenta lo SPIRITO
Lo spirito rappresenta gli ideali, i valori, il credo profondo ed è lo spirito che alimenta il desiderio e dona determinazione 
Per nutrire lo spirito si possono creare rituali, andare in natura, allestire degli angoli dove porre simboli che ci ricordino l’intento, l’obiettivo e dove rinnovare il nostro impegno
SUD: DEVOZIONE
Il sud è il punto dove risiedono le EMOZIONI rappresentate dall’elemento ACQUA
Qui vi è lo spazio del cuore. Quando il cuore è dedicato al desiderio, mente, corpo e spirito assecondano, rispondono. Non sono previsti dubbi o sensi di colpa
OVEST: DEDIZIONE
L’ovest è il luogo della concretezza, il CORPO, l’elemento infatti è la TERRA
E’ necessario darsi “fisicamente”, “concretamente” affinchè il desiderio si realizzi, in termini di tempo, energie, risorse economiche ( quando necessarie)
La dedizione chiede passi concreti, è necessario fare un’azione!
E se non sai da dove cominciare, non importa, muovi un passo, ma inizia!
“se puoi sognarlo puoi farlo”

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'Sapere, Saper Fare, Saper Essere' di Marzia De Franceschi

9/6/2025

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“Sapere, saper fare, saper essere” è stato uno dei primi insegnamenti che ho appreso da Verena Schmid tanti anni fa alla scuola di Arte Ostetrica di Firenze
Mi sono avvicinata al coaching con un fine personale, anche se con un certo scetticismo perché l’ho sempre percepito troppo freddo, meccanico, distaccato. Scoprire invece che può essere praticato non in modo asettico ma olistico mi ha piacevolmente sorpreso e me l’ha fatto sentire in una misura più vicina a me.
 “Sapere, saper fare, saper essere” In questa frase sono racchiusi i vari aspetti delle competenze di un professionista: la parte nozionistico-teorica, la parte pratica, ma anche la parte emotiva, relazionale, di consapevolezza.
SAPERE: è l’insieme delle conoscenze, delle nozioni, rappresenta quindi la parte teorica acquisita attraverso la ricerca, lo studio nel campo specifico, gli aggiornamenti, gli approfondimenti, l’esperienza
SAPER FARE: è la capacità di mettere in pratica ciò che si è appreso con la teoria e di sviluppare strumenti concreti per realizzare le informazioni acquisite
SAPER ESSERE: esprime la coerenza di ciò che si dice e fa, è capacità di creare relazione, fiducia, credibilità
Scorrendo in ordine questi 3 aspetti si passa da un piano puramente mentale, ad uno concreto-corporeo per arrivare ad una dimensione più profonda che è quella del sentire per essere.
Per un coach sentire cosa si muove nella relazione permette di creare un ponte, uno spazio all’intero del quale  il coachee può ascoltarsi, scoprire le proprie risorse, focalizzare gli obiettivi vedendoli  non come semplici mete da raggiungere ma come tappa di un viaggio attraverso cui poter conoscere maggiormente se stesso/a.
Ma per poter sentire l’altro è necessario essere in contatto con il proprio mondo interiore, con i propri confini, per ascoltare senza giudicare, perché le proprie parole non siano solo parole ma arrivino al coachee con un senso profondo. Se il coach sa, sa fare, sa essere, potrà trasmetterli al coachee.
Ecco allora che il coaching non mi appare più come uno strumento che mira solo al fine senza preoccuparsi dei mezzi, ma può diventare al contempo uno strumento esplorativo e di crescita personale immerso in una dimensione umana dove coach e coachee non vestono solo ruoli, ma mettono in gioco ciò che sono nel profondo permettendo l’integrazione dei piani mentale, emotivo e spirituale.
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'Il Modello GROW della Nascita' di Marzia De Franceschi

23/5/2025

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Se il coaching nasce come sistema di supporto e motivazione in ambito sportivo , si è poi allargato a vari settori mantenendo la peculiarità di utilizzare strumenti e risorse pratiche per raggiungere i propri obiettivi.
Nell’esplorare il mondo del coaching mi sono resa conto di come in realtà  abbia spesso applicato i suoi principi nel mio lavoro con le donne, anche se con declinazioni diverse, e di come possa integrarlo per sostenere l’empowerment femminile. 
Una di queste situazioni è rappresentata dalla nascita, il cui vissuto lascia un imprinting fondamentale nel vissuto della donna.
La donna che si prepara alla nascita ha molte paure, cerca informazioni, spesso teme di non riuscire a partorire, di non riuscire a sostenere il dolore, viaggia tra la delega  agli operatori e il timore di non essere rispettata nel suo sentire.
Il mio compito è quello di coltivare la fiducia della donna in se stessa, nel bambino, nel proprio corpo, e di individuare le risorse rimanendo focalizzata sul proprio obiettivo anche quando fattori esterni o interni minano la sua determinazione.
Ho potuto riflettere su come i principi del modello GROW possa essere trasferito nelle consulenze che accompagnano la preparazione alla nascita fisiologica.
Goal: obiettivo. E’ importante che la donna focalizzi chiaramente il parto che si aspetta. Non è sufficiente che desideri un parto per via vaginale per esempio ma che si immagini nel momento della nascita: dov’è, com’è l’ambiente, con chi e cosa fa. Nella manifestazione dell’obiettivo è importante comprendere la motivazione che aiuterà poi ad attivare le risorse.
Reality: quando la futura mamma ha descritto nei dettagli il suo obiettivo lo si confronta con la situazione reale. Se il bimbo è podalico per esempio sarà necessario attivarsi per farlo girare affinchè il parto possa avvenire per  via vaginale.
Option: opzioni. In questa fase individueremo le risorse e gli alleati. Qui le visualizzazioni sono di estremo aiuto. Portando la mamma a immaginarsi nel momento del travaglio e del dolore sarà lei ad individuare le risorse che possono sostenerla: il movimento, l’acqua, la musica, il massaggio, la vicinanza di una persona fidata ecc
Will: volontà. A questo punto con la donna si valutano i fattori concreti per supportare le proprie aspettative. Cosa è disposta a fare per promuovere una nascita fisiologica? cosa può fare per prepararsi al meglio alla nascita? quante volte si dedicherà tempo per il movimento dolce e il rilassamento? che luoghi del parto contatterà per raccogliere informazioni sul tipo di assistenza offerta?
Se il modello GROW offre spunti pratici, questi dovranno essere immersi in uno spazio di ascolto profondo che permetta alla donna di coltivare fiducia nel proprio sentire e permettendo ad esso di manifestarsi  in azioni concrete.

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'Crederci è Già Essere in Corsa per Raggiungere Un Traguardo!' di Silvia Buongiovanni

12/5/2025

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Condivido con voi questa esperienza di crescita e trasformazione: la mia prima mezza maratona di Fano, la Colle-Mar-athon 4 maggio 2025.

All’inizio, non avevo analizzato bene il significato della parola "Colle-Mar-athon", ma prima di partire ho capito che si trattava di una vera e propria sfida: 10 km tra salite e discese in collina, e poi altri 10 lungo la riva del mare. Un percorso che richiede determinazione, resistenza e tanta motivazione.

Voglio condividere questa avventura con voi perché, un anno fa, non avrei mai immaginato di parteciparvi. Non facevo sport e, in un colloquio di coaching simulato, ho portato proprio questa difficoltà: il sentirsi pigri, le scuse per non muoversi, tra casa, figli e lavoro.
Ma grazie a un coach che mi ha aiutato a riflettere, ho iniziato a capire le ragioni profonde di questa resistenza e a trovare le risorse dentro di me per cambiare. Ho iniziato con la camminata, e poi, passo dopo passo, la mia energia è cresciuta. Ho trovato alleati, un gruppo di corsa, e la mia motivazione si è rafforzata.

Il cambiamento è stato sorprendente: da 10 km a settimana, sono arrivata a correre circa 10 km due volte a settimana, e ho iniziato a credere che potevo farcela anche con i 21 km della mezza maratona.

Un momento chiave è stato ascoltare un’intervista al campione olimpico dei 100 metri “Marcell Jacobs”, che raccontava di aver vinto le Olimpiadi grazie alla forza della mente e all’aiuto di una mental coach. La sua storia mi ha ispirato: tutto parte dalla convinzione, dal credere in sé stessi. Quando decidi di raggiungere un obiettivo, è come se avessi già iniziato il percorso, e niente può fermarti.

Ho iniziato a credere anche io, usando la testa e la positività come strumenti potenti. Ho messo in campo strategie di respirazione e pianificazione, calibrando i tempi e le energie, e con il supporto di Sonia, la mia compagna di corsa un po’ pazzerella, abbiamo affrontato le salite con ritmo costante, godendo del panorama, delle persone che tifavano, delle sorprese lungo il percorso: una banda di cornamuse, una benedizione dei nostri piedi fatta da un parroco, coriandoli e gavettoni ai ristori!

È stato tutto divertente e, quasi senza accorgermene, ho percorso quei km in collina. La vera sfida è arrivata tra il 15° e il 18° km, quando il caldo e la fatica si sono fatti sentire. In quei momenti, ho cercato di visualizzare me stessa all’arrivo, con la medaglia al collo, e questa immagine mi ha dato la forza di proseguire.

Ogni 5 km, i ristori con frutta e bibite mi hanno caricata, e con l’energia ritrovata, sono arrivata all’ultimo km, con i piedi che correvano da soli e il cuore pieno di emozione. Lacrime di gioia e soddisfazione: un traguardo che avevo solo immaginato, ora diventava realtà.
Questa esperienza mi ha insegnato che, con la giusta mentalità, si può superare qualsiasi ostacolo o difficoltà. È importante credere nelle proprie capacità e mantenere un atteggiamento positivo, perché questo può fare davvero la differenza nel superare le sfide della vita. 

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'Protocollo Gaia: Un Nuovo Paradigma Educativo' di Roberta Coco

12/5/2025

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Il “Progetto Gaia” è un programma di educazione alla consapevolezza e al benessere di sé e del pianeta, impostato su basi scientifiche, etiche ed umane, per essere cittadini attivi e creativi della società in cui viviamo. Il Progetto Gaia è stato sviluppato per rispondere alle necessità educative di una società in via di globalizzazione, espresse nelle direttive dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, in accordo con le direttive dell’OMS per la promozione della salute e del benessere per tutti e per tutte le età; con le direttive dall’UNESCO per diffondere valori, consapevolezze, stili di vita orientati al rispetto per il prossimo e per il pianeta. Il Progetto trasmette le conoscenze e le esperienze “seme” del “nuovo paradigma” della sostenibilità che si sta sviluppando in ogni parte del mondo e in ogni campo del sapere ad opera di un numero sempre maggiore di personalità della comunità scientifica, etica, medica, psicologica e culturale internazionale. Il Progetto Gaia è stato sviluppato da un comitato scientifico di docenti universitari, psicologi e medici, tra cui i neuroscienziati Candace Pert e Jaak Panksepp, il filosofo Ervin Laszlo candidato al Nobel per la Pace, Jane Goodall, Fritjof Capra, Hans Kung, Tara Gandhi, Deepak Chopra, Vandana Shiva ed altre personalità internazionali.
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 Il Progetto Gaia è basato sull’innovativo Protocollo Mindfulness Psicosomatica (PMP) che applica le conoscenze derivate dalle neuroscienze con un approccio educativo “integrale” e multidimensionale alla persona (Global Teaching/Learning Approach). Il Protocollo PMP utilizza solo pratiche validate scientificamente per la loro efficacia: la mindfulness come principale pratica di consapevolezza di sé, insieme a pratiche di benessere psicofisico e di intelligenza emotiva, per sviluppare le Life Skills, le “competenze della vita” raccomandate dall’OMS. Oltre 5.000 ricerche scientifiche internazionali dimostrano che la pratica dell’autoconsapevolezza (mindfulness) riduce stress e depressione, migliora la salute mentale e fisica, l’autostima, la gentilezza, l’empatia, la cooperazione e le prestazioni scolastiche. Il progetto si rivolge a tutti, giovani e adulti, e in particolare donne e ragazze, anche in condizioni di grave disagio sociale e culturale, per attivare le risorse personali e migliorare la fiducia in se stessi, per poterli aiutare in una maggior relazione positiva con gli altri e con la società che li circonda. E’ già stato realizzato a livello nazionale in tutte le venti regioni italiane con grandi risultati scientifici su oltre 20.000 giovani e adulti in centri, scuole di differenti ordini, ospedali, Usl, portando le differenti necessità in particolare in scuole difficili, quartieri degradati, centri di assistenza per disabili, migranti, pazienti psichiatrici, anziani, tossicodipendenti, carcerati. I numerosi dati scientifici di validazione del Progetto evidenziano un eccellente efficacia nel miglioramento dei repertori emotivo- comportamentali che sono alla base dei gravi problemi scolastici dei giovani, come la riduzione dell’ansia/depressione, comportamenti aggressivi, iperattività e disattenzione. I dati mostrano l’efficacia nella prevenzione di situazioni scolastiche e sociali molto critiche come violenza, discriminazione, bullismo e intolleranza di genere. Le finalità del “Progetto Gaia” sono di proporre delle pratiche di consapevolezza psicosomatica che possano aiutare a sviluppare una più profonda conoscenza di sé stessi, un migliore benessere psicofisico ed una più matura relazione con gli altri e con la società globalizzata in cui viviamo. Le tecniche di consapevolezza di sé, di meditazione e di mindfulness, sono tecniche “laiche” che stanno ricevendo un enorme interesse e validazione da parte della comunità scientifica internazionale.

Fino a qualche decennio fa il termine “meditazione” era praticamente assente sia nei libri di testo di medicina o di psicologia che negli articoli di ricerca scientifica. Oggi su “PubMed”, il più vasto e potente motore di ricerca di articoli scientifici del mondo, il termine meditation è presente in più di 5.500 pubblicazioni scientifiche. E’ indiscutibile efficacia delle tecniche di meditazione anche quando vengono proposte in modo “laico”, come pure tecniche di consapevolezza senza la componente filosofica, ideologica e teologica che da secoli le accompagnava. I consistenti risultati delle ricerche hanno stimolato centinaia di Università, Istituti e Centri di ricerca a studiare il fenomeno. Dopo le prime ricerche sugli effetti neurofisiologici e cognitivi dello Yoga, del Tai Chi e della MT, ora vi è l’interesse per la cognitivo della vipassana buddhista proposto da Kabat Zin, Segal, Williams e Teasdale come Mindfulness Based Cognitive Therapy. Questa semplicissima tecnica di respirazione consapevole, che rappresenta il cuore del nostro progetto, è diventata in pochi anni una delle più studiate ed efficaci pratiche di consapevolezza corporea, emozionale e psicologica.

Molti studi evidenziano la sensibile differenza della meditazione che mostra una superiore efficacia e durata nel tempo rispetto alle tecniche di rilassamento, antistress e training autogeno. La meditazione agisce risvegliando la coscienza di sé, il senso profondo della nostra individualità, che si ripercuote simultaneamente su tutti i livelli: fisico, emotivo e psicologico. Le ricerche cliniche sulla meditazione evidenziano anche notevoli risultati nella cura delle patologie psicologiche come crisi di panico, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo post traumatico da stress e disturbi dell’umore.

In particolare nello stress si è dimostrata l’efficacia della meditazione nella riduzione del cortisolo (l’ormone dello stress e dell’ansia) e del testosterone (aggressività e violenza), nella riduzione dell’ansia, della tensione muscolare e della tensione psichica (diminuzione del nervosismo, insonnia, ipereccitazione, ecc.).

Ricordiamo che con il termine meditazione intendiamo uno stato di consapevolezza vigile, nel presente e non mentale. Uno stato di consapevolezza globale di sé, silenziosa e naturalmente integra, non disturbata dal consueto chiacchiericcio mentale di parole, immagini, giudizi, concetti, distrazioni che ci riportano o alle memorie del passato o alle fantasie e alle aspettative sul futuro. La meditazione è uno stato di presenza, di consapevolezza del momento presente. La meditazione può aumentare il benessere grazie ad un miglioramento delle risorse personali. Barbara Fredrickson nel 2008 ha studiato e valutato statisticamente una meditazione orientata alla gentilezza e all’amorevolezza e ha trovato un aumento di emozioni positive e di soddisfazione di vita per le risorse personali.  Questi risultati indicano che le attività quotidiane, come specifiche forme di meditazione, possono solo aumentare la soddisfazione di vita e anche sviluppare le risorse personali, risorse che possono essere migliorate con la meditazione (Fredrickson, 2008) preparando le persone ad affrontare situazioni pericolose e stressanti. La meditazione può fortemente influenzare benessere futuro e migliorare le risorse personali. E’ quindi una pratica importante da intraprendere. Cohen et al. (1983) sostengono che le persone valutano immediatamente le proprie risorse personali prima di rispondere a situazioni di minaccia. Pertanto, un praticante di meditazione si comporterà in modo più efficace in caso di crisi grazie alla consapevolezza delle sue maggiori risorse personali, aumentando potenzialmente la sua felicità futura. Per quanto riguarda la letteratura, l’essere umano aumenta le proprie risorse personali attraverso la meditazione o altre attività che possono sperimentare livelli più elevati di soddisfazione.

Il Progetto Gaia ha già formato oltre 1800 psicologi, medici, docenti e operatori e ha raggiunto oltre 36.000 giovani e adulti in tutte le 20 regioni d’Italia, incluse scuole di ogni ordine e grado, università, ospedali e centri per disabili, donne in gravidanza, pazienti psichiatrici, immigrati e anziani, con eccellenti risultati statistici. Per queste sue valenze scientifiche, etiche ed educative il Progetto Gaia è stato accreditato dal MIUR: il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca; inoltre stato approvato e finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e sostenuto dal Club per l’UNESCO di Lucca. 
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'Lo Psicologo che Viene: 8 metamorfosi per abitare il futuro della cura' di Lorenzo Manfredini

6/5/2025

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Otto metamorfosi necessarie per non restare indietro nella cura dell’umano.

​Non basta più sapere. Serve cambiare forma.

Cosa significa oggi essere psicologi?
Non è una questione di tecniche.
Non bastano più i titoli, né le scuole di pensiero.
Non basta un protocollo se il mondo non ha più parole.
Oggi la psicologia è chiamata a scegliere:
- restare nella sicurezza del conosciuto
oppure
- attraversare la soglia e mutare forma.
Chi sceglie la prima via, rischia:
– di spegnere la voce di chi soffre
– di diventare sterile
– di curare solo i sintomi, ma perdere il senso.
Chi sceglie la seconda, invece… apre uno spazio nuovo.
E lì, qualcosa può rinascere.

1. Il Diagnostico – Quando le griglie diventano gabbie

“Dimmi cosa non funziona, e ti dirò chi sei.”
Un tempo bastava una diagnosi.
Ora, se ti fermi lì, condanni le persone a una definizione.
La sofferenza non si lascia chiudere in una casella.
Se lo psicologo si aggrappa ai vecchi manuali,
rischia di diventare un guardiano della gabbia.
Ma se lascia spazio alla complessità,
diventa ascoltatore del non ancora detto.

2. Il Compagno di Sentiero – Se non cammini con me, mi perdo

Lo psicologo che resta tecnico, che interpreta a distanza,
può sembrare preciso…
ma resta solo.
E chi soffre, si sente studiato, non accompagnato.
La trasformazione nasce nella relazione viva.
Se non cammini con me, non mi trovo.
Ma se siedi accanto, anche il silenzio diventa un sentiero.

3. Il Tessitore – Se ignori il contesto, spezzi il filo

“Tu non sei solo tu.”
Se lo psicologo ignora il sistema — famiglia, scuola, società --
rischia di curare una parte… mentre tutto il resto resta ferito.
Un intervento che non vede il campo,
è un cerotto su una ferita collettiva.
Ma chi tesse le relazioni, chi ricompone le reti,
diventa guaritore di sistemi, non solo di individui.

4. Il Navigatore Digitale – Se non sai ascoltare uno schermo, resti cieco

L’identità oggi vive nei telefoni.
Le crisi arrivano da notifiche, messaggi, like.
Se lo psicologo rifiuta lo spazio digitale,
rischia di non vedere più i suoi pazienti.
Serve uno sguardo che attraversa lo schermo.
Che riconosce l’umano anche dietro un avatar.
Altrimenti, la cura si scollega dal presente.

5. Il Custode del Dolore Comune – Se pensi che “sia solo un periodo”, tradisci

Non è più “il paziente” che soffre.
Siamo tutti attraversati dal dolore del mondo.
Se lo psicologo minimizza, normalizza, accelera,
rischia di tradire la profondità del trauma.
Ma se si fa testimone,
se crea uno spazio sacro dove piangere insieme,
diventa custode di una guarigione collettiva.

6. Il Traduttore di Linguaggi – Se usi solo parole, non curi tutto

La cura non è solo mentale.
È corpo, simbolo, sogno.
Se lo psicologo resta razionale,
se non integra il gesto, il respiro, l’immaginazione,
cura a metà.
Ma se traduce emozioni in simboli,
sogni in alleanze interiori,
diventa ponte tra i mondi.

7. L’Alchimista Sociale – Se chiudi la cura in uno studio, la rendi invisibile

La cura non è proprietà privata.
È bisogno pubblico.
Se lo psicologo resta nel suo setting,
chi non ha voce resta fuori.
Ma se porta la cura in un podcast,
in una scuola, in una piazza,
trasforma il mondo in uno spazio terapeutico.

8. L’Oracolo Affettivo – Se prepari le persone alla realtà, ma non prepari la realtà a loro…

…allora le stai adattando a un mondo che le farà soffrire di nuovo.
Lo psicologo di oggi deve anche interrogare il futuro.
Altrimenti diventa un ingranaggio che riporta tutto “alla normalità”.
Ma chi sa ascoltare le identità fluide,
chi sa parlare con filosofi, artisti, AI,
diventa visionario dell’umano possibile.

Epilogo: Lo Psicologo che Viene

Non basta sapere.
Non basta essere “bravi”.
Se oggi non cambi… ti perdi.
E rischi di ferire chi vorresti curare.
Lo psicologo che viene è:
  •  Ibrido: integra mente, corpo, simbolo
  •  Simbolico: ascolta l’invisibile
  • Radicalmente umano: non cura per normalizzare, ma per liberare
Ricuce le storie spezzate.
Resta con chi non ha più parole.
E porta nel cuore una domanda urgente:
“Chi potresti diventare, se avessi finalmente uno spazio dove essere interamente visto?”
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'Quando il counseling incontra il coaching: la nuova soglia del cambiamento' di Lorenzo Manfredini

6/5/2025

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Due modi di accompagnare che diventano uno, solo se trovano il coraggio di trasformarsi.

​Quando non sai più chi sei… e chi dovrebbe aiutarti resta lo stesso

Succede.
Ti svegli, ti guardi, e non ti riconosci.
Senti che qualcosa dentro si muove.
Ma intorno a te, tutto sembra chiederti di restare come sei.
In quei momenti, il peggio che può capitare
è incontrare qualcuno che dice:
“Torniamo alla normalità.”
“Facciamo un esercizio.”
“Ti spiego cosa fare.”
Se il coach o il counselor non cambiano,
se si fermano al metodo e dimenticano il mistero,
ecco cosa accade:
  •  Le persone si chiudono.
  • Il cambiamento si blocca.
  • E il dolore resta… ma senza più parole.

1. Se sai tutto, non ascolti più

Il counselor che crede di avere tutte le risposte,
che si rifugia dietro frasi tecniche o esercizi automatici,
non lascia spazio a chi ha davanti.
Rischia di diventare freddo.
Di dire “ti capisco” senza sentire davvero.
E chi cerca aiuto si sente più solo di prima.
Ma se il counselor si fa specchio,
se sa stare anche senza sapere,
nasce qualcosa di vero.
Qualcosa che cambia davvero.

2. Se hai fretta, fai cadere chi sta attraversando

Quando cresci, sei in mezzo.
Non sei più quello di ieri,
non sei ancora quello che sarai domani.
Se chi ti accompagna ha fretta,
rischia di spingerti troppo, troppo presto.
E tu, che sei già fragile, puoi cadere.
Un buon counselor non ha fretta.
Si siede accanto all’incrinatura.
Non per sistemarti…
ma per restare con te finché sei pronto.

3. Se cerchi solo il problema, perdi la bellezza della storia

Un counselor rigido cerca il “nodo”.
Vuole risolvere.
Ma così perde i dettagli. I simboli. I silenzi.
Ogni storia è una mappa misteriosa.
Ogni parola è un indizio.
Ogni pausa, una porta segreta.
Se guardi solo il problema, perdi il viaggio.

4. Se non sai evocare, il dolore resta muto

A volte le persone non sanno dire cosa sentono.
Il malessere è come una nebbia.
Un counselor che si limita a “contenere”
rischia di rinchiudere il dolore in una scatola.
Ma se sa evocare — con un gesto, una metafora, un piccolo rito --
può accendere una scintilla.
E quella scintilla… può diventare guarigione.

5. Se non ascolti il corpo, perdi metà del linguaggio

Hai mai parlato con qualcuno che ti dice “sto bene”
ma tutto in lui dice il contrario?
Se un counselor ascolta solo le parole,
si perde i segnali del corpo:
un sospiro, una tensione, uno sguardo.
E chi ha davanti non si sente davvero visto.
Un counselor attento ascolta anche quello che il corpo sussurra.

6. Se vedi il sintomo come errore, perdi il suo messaggio

Un dolore non è sempre un problema da risolvere.
A volte è una porta.
Un counselor che vuole solo “aggiustare”
rischia di spegnere la voce del sintomo.
Ma se sa dialogare con lui,
può trasformarlo in senso,
in un gesto, in un oggetto, in un piccolo rito
che cambia tutto.

7. Se resta chiuso in studio, non incontra il mondo

Il counseling non può più vivere solo tra quattro pareti.
Se lo fa, si isola. E perde la vita vera.
Oggi serve nelle scuole, nei parchi, nei gruppi, nelle piazze.
Serve dove le persone vivono, litigano, amano, si cercano.
Un counselor che non esce… scompare.

8. Se chiede solo “obiettivi”, dimentica la vocazione

C’è una domanda che non tutti osano fare:
“Chi potresti diventare, se ti dessi il permesso?”
Il counselor che parla solo di obiettivi,
che misura tutto in risultati,
rischia di perdere l’anima del lavoro.
Ma chi sa custodire i sogni silenziosi,
chi ascolta i desideri che non hanno ancora parole,
diventa spazio possibile.
E quello spazio può cambiare una vita.

Quando Counseling e Coaching si incontrano

Se il counseling resta troppo chiuso, si svuota.
Se il coaching resta troppo veloce, si spezza.
Ma quando si incontrano davvero --
quando si contaminano, si ascoltano, si evolvono --
diventano una soglia viva.

Un posto dove puoi camminare,
cercare, piangere, ridere,
e un giorno dire:
“Ora so chi sto diventando.”
Ma questo è possibile solo se anche il coach e il counselor
hanno il coraggio di cambiare pelle.
Hai voglia di farlo anche tu?
Perché il mondo ha bisogno di chi non ha paura
di diventare ciò che serve,
quando gli altri non sanno ancora chi saranno
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'Il coach che viene: perché oggi il coaching è chiamato a mutare forma' di Lorenzo Manfredini

6/5/2025

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​Quando aiutare gli altri non vuol dire solo dare consigli, ma evitare di diventare parte del problema.

​Un mondo che cambia… e un coach che non può restare fermo

Hai mai sentito la parola “coach”?
Magari in palestra, su YouTube, o in qualche video motivazionale.
Un coach è qualcuno che aiuta. Che guida. Che tira fuori il meglio.
Ma oggi il mondo cambia in fretta.
Le domande delle persone sono più profonde.
Non basta più dire: “Dai, ce la fai.”
Non basta più dire cosa fare.
Se il coach continua a fare le stesse cose di ieri,
succede qualcosa di serio:
  •  Le persone smettono di sentirsi ascoltate.
  •  Le sue parole sembrano vuote.
  •  E chi cerca aiuto… si sente ancora più solo.

Quando il coach cambia (o non cambia) pelle

Pensa a un serpente che cresce.
Se non cambia pelle, non può muoversi. Gli fa male.
Resta bloccato.
Il coach è lo stesso:
se resta fermo nel vecchio ruolo di motivatore o risolutore…
inizia a essere fuori tempo.
Perde connessione con le persone.
Diventa prevedibile.
E, alla fine, inutile.
Ma se trova il coraggio di cambiare…
diventa uno spazio dove gli altri possono nascere di nuovo.

Quando le vecchie risposte non bastano più

C’è un momento in cui anche il coach si sente perso.
Le frasi che usava una volta ora suonano false.
Le tecniche non funzionano più.
Se finge di sapere tutto,
rischia di creare distanza.
Chi ha davanti lo sente.
Ma se invece accetta di stare nel buio,
di fare domande nuove,
di camminare senza sapere tutto…
diventa autentico.
E allora sì, può accadere qualcosa di potente.

Il coach che fa da ponte (o che lascia cadere)

Immagina di camminare su un ponte sospeso.
Se chi ti accompagna ha fretta o paura…
può farti cadere.
Un coach che non evolve rischia di spingere troppo,
o peggio, di non vedere davvero chi ha davanti.
Ma un coach presente, attento, che sa stare nel mezzo,
può dire:
  • “Aspetta. C’è qualcosa che si sta muovendo dentro di te.”
  • “Hai il diritto di avere paura.”
  • “Possiamo restare qui finché serve.”

Il coach che accende fuochi (o che spegne speranze)

In ogni villaggio serve un fuoco.
Uno spazio dove raccontarsi, sognare, piangere.
Se il coach continua solo a fare esercizi, a dare compiti,
rischia di spegnere quel fuoco.
Le persone si sentiranno allenate, forse…
ma non viste.
Ma se il coach diventa presenza,
ascolto profondo,
cura simbolica,
allora sì: il cambiamento può accendersi.

Il coach che resta chiuso (o che cammina nel mondo)

Un coach che si limita a una stanza…
che non si sporca le mani,
che non ascolta il mondo,
è un coach che si isola.
E l’isolamento, oggi, è pericoloso.
Ma un coach che cammina nei quartieri, nelle scuole,
nei boschi e nelle aziende…
che porta il suo ascolto tra la gente…
diventa davvero parte di un cambiamento più grande.

Il coach che viene… o che si spegne

Il coach che non cambia finisce per ripetere copioni vecchi.
Diventa uno che parla…
ma non dice nulla che serva davvero.
Il coach che viene, invece, è:
  •  uno che sa ascoltare anche il non detto
  •  uno che abita la soglia tra “non più” e “non ancora”
  • uno che accende spazi dove le persone si sentono vive
Non costruisce soluzioni facili.
Ma apre possibilità vere.
Se anche tu senti che restare fermi non è più un’opzione,
se vuoi diventare uno spazio di verità e trasformazione,
allora forse è tempo di cambiare pelle.
Di lasciar andare il coach che eri.
E accogliere il coach che puoi diventare.
Con tutta la forza, la fragilità, il coraggio che ci vogliono
per restare davvero accanto a chi cambia.
Il mondo ha bisogno di quel tipo di coach.
Tu, potresti essere uno di loro?
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'Cos’è il coaching?' di Guido Bonvicini

2/5/2025

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Ho comunicato a mia sorella che mi ero iscritto ad un corso per diventare coach. 
Bello, mi fa, cosa vuol dire?
Già, cosa vuol dire? Nella mia mente mi sembrava già acquisito, volevo fare il corso, mi piaceva l’idea ero certo di sapere cosa avrei studiato nel corso e cosa avrei fatto dopo… e invece, non so come spiegarmi.
È un po’ di tempo che sto lottando con questa difficoltà: penso chiaramente ai miei obiettivi e i percorsi per raggiungerli, vedo e capisco apparentemente senza difficoltà dove giungerò; ma se provo a esprimerli verbalmente, le mie parole non sanno spiegare così chiaramente. 
“Ok” le dico, “il coach non è uno psicologo …, in quanto non si è laureato in psicologia e tantomeno deve rischiare di fare analisi; non è un counselor, perché, perché … non è un counselor. È un coach!”
Cerco di comunicarlo, ma è complicato. Eppure ero convinto di saperlo, quando mi sono iscritto al master. Più ci penso più diventa complesso; il coaching è un percorso di crescita e d’aiuto più articolato e completo di quanto mi ero disegnato in testa!
Mi dice con sguardo serafico che ha capito cosa non è e mi stimola a proseguire per spiegarle cos’è.
Ci riprovo: “Allora, lo psicologo lo sappiamo; il counselor è un consulente, un consigliere, uno che ti aiuta a capire e ti suggerisce o consiglia la strada migliore per raggiungere i tuoi obiettivi”. Ci penso qualche secondo in più e poi aggiungo: “credo!”.
“Mi parli di psicologi e counselor; dimmi del coaching piuttosto.”
Lo sguardo è sempre serafico, ma anche un poco indagatore mentre si tocca il padiglione auricolare sinistro; è molto brava nel linguaggio corporale (e anche a fare le domande giuste) e io la capisco benissimo; è mia sorella!
E infatti, eccolo qua! Ora ricordo; la lettura del suo linguaggio non verbale mi ha aperto la porta all’informazione corretta, mi ha accompagnato a quelle due parole, forse poco accademiche, che in questo momento mi servono ad afferrare in quale direzione devo e voglio andare per assimilare il concetto di coaching.
“Il coach” le dico con energia e sicurezza in me stesso “è un ascoltatore”, la osservo, mi osserva,  “e un domandatore” aggiungo subito dopo. Mi accorgo della ingenuità apparente di questi termini e sorrido osservando ancora quel suo sguardo serafico trasformarsi in divertito. 
Qual è la più importante azione necessaria per un efficace e utile dialogo?
È una domanda che mi sono trovato spesso a chiedere a gruppi di formazione che seguivo, fossero ragazzi, lavoratori in formazione sulla sicurezza sul lavoro o di team building. Purtroppo ascoltare non è quasi mai considerato prioritario, piuttosto farsi ascoltare, avere cose da dire, aver chiare le proprie idee, aver un progetto da sottoporre, assicurarsi di essere ascoltati, parlare piano e chiaramente, ecc. ecc.
Ascoltare a volte non viene nemmeno considerata un’azione. Per questo motivo esiste il termine “ascolto attivo” che di per sé è un termine ridondante. 
Ascoltare è un’azione alla quale dare molta più attenzione di quanto normalmente si ritiene; io lo sto imparando ogni volta di più. Secondo la teoria acquisita dello psicologo Albert Mehrabian, la comunicazione passa solo al 7% dal dichiarato verbalmente, il 38% è il cosiddetto para-verbale, tono, volume, timbro, pause e il 55% è il non verbale, cioè il corpo: posizione, mimica, postura, movimenti. Se così è, la mia attenzione nell’ascolto non può essere fatto solo con l’udito e mentre ascolto una persona di fronte a me, comunico, almeno con quel 55% che è il mio corpo e i suoi movimenti.

Ecco se la persona comune sente il 7% di ciò che gli viene comunicato, una persona preparata e attenta può arrivare a dei livelli molto superiori, un coach deve salire di molte decine di unità e un bravo coach dovrà imparare ad ascoltare il più vicino possibile al 100%, osservando, ascoltando con gli occhi, ascoltando con le emozioni, ascoltando con l’energia.
Ascoltare, mi sembra di aver capito essere il 70% del lavoro di un bravo coach. Quando una persona si sente ascoltata in questo modo, di conseguenza si sente vista, accolta, capita. Non si sente giudicata. E questo può bastare ad un uomo, ad una donna, ad un ragazzo per cambiare il pensiero di sé.
Ma il coach non si ferma qui, il coach è un “domandatore”, e anche questa è un’azione che comporta grande attenzione.
Certo è che non si domanda per curiosità, pettegolezzo o indiscrezione. Si domanda per insegnare all’interlocutore ad ascoltarsi.
Succede che quando noi parliamo, potremmo non essere dei buoni ascoltatori di noi stessi; sentiamo il nostro 7% verbale e non abbiamo dato retta alla mano che copriva la bocca in un mezzo sbadiglio mentre nominavamo “il mio manager è una brava persona”; o magari consideriamo la pausa tra la parola amo e la parola mio fratello, una normale necessità respiratoria. L’uomo della strada non è abituato ad ascoltare e ad ascoltarsi ma, se sensibile alla necessità di crescere o solamente desideroso di raggiungere un obiettivo specifico, potrebbe accettare di mettere in discussione il proprio modo di parlare e di ascoltare. 
Ecco il coach cosa fa, sorellina: “Il coach è una persona capace di ascoltare e che cercherà il modo, attraverso delle domande calibrate, di accompagnarti all’ascolto di te stesso, per trovare dentro di te quel percorso utile a lavorare anche con il manager che non ti piace o con quel fratello così diverso da te, se è quello che vuoi. Al coach non interessa la tua storia personale, non deve e non vuole analizzare o creare ganci psicologici; al coach non verrà in mente di risolverti un problema, non è un esperto del tuo settore lavorativo e della tipologia delle tue problematiche. 
Il coach è l’aiuto più gentile, più reale e più vicino al tuo presente che tu possa desiderare”.

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'Ma Ho Sempre Fatto Così’ di Simona Bertoletti

30/4/2025

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Le tue abitudini determinano i  tuoi risultati
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Ci troviamo molto spesso a fare cose  senza nemmeno pensarci dando per scontato che sia la cosa giusta da fare dicendo: “Ho sempre fatto così”.  Questo perché noi consideriamo le nostre  abitudini come  una banalità  e le diamo per scontate, ma  dobbiamo sapere che sono collegate ad un sistema complesso legato al  fattore delle convinzioni, sono dei comportamenti ripetuti che governano le nostre azioni .
Esse creano dentro di noi degli atteggiamenti che portano a  comportamenti i quali  si traducono in azioni che, ripetute nel tempo,  portano a risultati   creando  nuovi circuiti neuronali, fondamentali nei comportamenti che abbiamo nella nostra vita quotidiana.

PERCHE’ NASCONO LE ABITUDINI?
Le abitudini nascono perché il nostro cervello è programmato per creare abitudini come forma di efficienza cognitiva, quando un’azione viene ripetuta più volte, il cervello trasforma quel comportamento in un’abitudine per risparmiare energia mentale e fisica. 
Le abitudini sono rassicuranti, vissute come un rifugio, sono acquisizioni automatiche che risollevano dallo sforzo di pensare a qualcosa di nuovo.

CONVINZIONI E ABITUDINI
Le nostre abitudini,sono dei comportamenti ripetuti nel tempo che condizionano il nostro comportamento in quanto, riguardano il fare. Le abitudini possono essere sane o dannose.
 Le convinzioni invece sono credenze radicate che influenzano i nostri pensieri,i comportamenti e le decisioni , sono idee che noi mettiamo nella nostra mente facendole diventare delle  regole che condizionano la nostra quotidianità. 
Esse riguardano il pensare, sono idee e credenze che una persona ha sul modo di percepire la realtà e su se stessa .  
Le convinzioni possono essere : LIMITANTI  o  POTENZIANTI 
Una convinzione viene definita LIMITANTE  quando è alimentata da pensieri negativi  che  inibiscono il nostro potenziale e ostacolano le nostre azioni, impedendoci di raggiungere i nostri obiettivi.  
Diventano una gabbia non permettendoci di esprimere le nostre capacità con la conseguenza, di  portarci  a creare cattive abitudini.
Una  convinzione POTENZIANTE invece,  favorisce la nostra crescita personale  e professionale. 
 Questa credenza  si basa su pensieri positivi e sulla fiducia nelle nostre capacità così da poter affrontare le difficoltà con una mentalità orientata alla soluzione. Alle convinzioni ci si abitua e diventano la nostra  verità.

COME FARE?
Utilizzare il procedimento che abbiamo usato nel mettere quella convinzione che ora vogliamo cambiare ripetendola spesso in modo consapevole. Se siamo profondamente convinti di una cosa non è semplice cambiare perché dobbiamo abbandonare una certezza per qualcosa di non conosciuto. 
Le nostre convinzioni possono essere vere fino ad un certo momento, ma poi possono  non esserlo più,  ma noi continuiamo ad esserne convinti  e questo ci impedisce di vedere e valutare altre strade .

E  SE FOSSE POSSIBILE CAMBIARE STRADA?
Per trovare una strada alternativa, possiamo mettere da parte quella nostra  convinzione e provare  a piccoli passi, una nuova strada  fino a quando,  riterremo la nuova convinzione  migliore di quella precedente.

TRE UTILI CONSIGLI
1) CAMBIARE SPESSO :  Evitare di ripetere le abitudini e farlo passo dopo passo , ma quotidianamente così il cambiamento sarà più semplice. 
2) CERCA LE ECCEZIONI :  Evita di cercare conferme nelle tue convinzioni. Allenati a cercare l’eccezione e potrai così evitare di cadere in convinzioni limitanti.
3) CONSAPEVOLEZZA: Se vuoi gestire tu le tue abitudini e convinzioni, devi essere consapevole perché questo ti permette di cambiare le regole nel modo che ti è più utile. 
Vi sono tante strade che puoi scegliere di percorrere .

RICORDATI
Puoi vivere la vita che vuoi se puoi scegliere la direzione in cui guardare
Con affetto Simona

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