Possiamo definire abitudini quelle risposte comportamentali automatiche ad uno stimolo, sviluppate attraverso la ripetizione del comportamento in contesti coerenti tra loro (Lally e Gardner, 2013).
Quando apprendiamo qualcosa di nuovo, l'esperienza viene registrata nella corteccia cerebrale. Dopo varie ripetizioni, l'azione imparata diventa un'abitudine (un automatismo). Le informazioni passano, a quel punto, tramite i sistemi nervosi periferici alla parte più profonda degli emisferi cerebrali. Qui vengono salvate e si radicano trasformandosi in impulsi automatici, molto difficilmente modificabili. Gardner sostiene che, quando l'abitudine si scontra con la volontà di cambiare, normalmente l'abitudine ha il sopravvento in quanto il cervello preferisce “non pensare” e consumare meno energia piuttosto che “sprecare energia” per modificare un processo che, di per sé, preserva l'individuo in maniera automatica. Tutto questo sarebbe perfetto fino a che le abitudini non sono negative o tossiche... ma allora, perché una mente perfetta dovrebbe automatizzare abitudini negative o tossiche che potrebbero danneggiare la sopravvivenza del sistema stesso? Vi sono vari studi e teorie (una su tutte, una pubblicazione della Duke University su Neuron), ma la maggior parte spiega i meccanismi neuronali che fissano le abitudini, sia positive che negative (ad esempio, ossessivo-compulsive), ma si ha solo una spiegazione biologica. Per quanto riguarda la parte psicologica, si dovrebbe andare a scavare nei meandri comportamentali, esperienziali ecc.; ma in questo post ci poniamo l'obiettivo non di “curare” l'origine del problema, bensì di aiutare il lettore a “accendere” l'attenzione sui percorsi da affrontare per poter modificare al meglio abitudini scorrette o anche per visualizzare le mancanze di opportunità alternative che l'abitudine toglie alla nostra evoluzione personale.
A tal proposito, vi farò un esempio personale esplicativo: percorro da anni la stessa strada per andare in ufficio perché, quando scelsi tale strada, probabilmente era la migliore; ma lo scorrere del tempo ha modificato la topografia della rete urbana o anche i flussi di traffico, e il verificare nuove strade mi porterebbe a scoprire che oggi la strada migliore sia un'altra, ma non lo faccio. Oppure: fumo da anni senza apparenti problemi, ma da quando faccio attività sportiva più spinta mi rendo conto che, non fumando, ho risultati migliori, ma continuo a fumare. Oppure: mangio in maniera disordinata e assumo troppe calorie, pur sapendo o immaginando che minor peso e migliore alimentazione mi porterebbero a una migliore qualità di vita, sia fisica che sociale, ma non lo faccio.
Partendo dal presupposto che qualunque abitudine toglie l'opportunità di vedere strade alternative... ma in questo caso vedo le opportunità, ma perché non le colgo? Bene, il segreto ritengo che stia proprio nel definire le priorità! E qui entra in gioco il lavoro del coach. Sicuramente, le motivazioni che ci spingono al cambiamento giocano un ruolo fondamentale sul processo stesso, ma il modo in cui vengono attuate fa la differenza. Se noi decidiamo di fare una dieta drastica, ci deve essere una motivazione drastica a supporto (smetto di fumare perché ho avuto un infarto importante o devo perdere peso perché sono a reale rischio vita, ecc.); diversamente, falliremo (out/out). Ma se noi modifichiamo i nostri "drive" dagli impulsi negativi in proporzione allo stato del problema, abbiamo più probabilità di successo. In buona sostanza, darci piccoli traguardi e grandi pacche sulle spalle là dove progredisce il cambiamento delle abitudini ci porterà a migliorare la nostra autostima, dirigendoci con step al raggiungimento dei nostri obiettivi. E una volta che i miglioramenti delle nostre abitudini ci porteranno a uno stato di benessere, il nostro cervello registrerà sia le nuove abitudini positive e tenderà ad evitare di tornare alle abitudini tossiche (conservazione della specie), diventando mano a mano automatiche.
Buona strada, Claudio.
Quando apprendiamo qualcosa di nuovo, l'esperienza viene registrata nella corteccia cerebrale. Dopo varie ripetizioni, l'azione imparata diventa un'abitudine (un automatismo). Le informazioni passano, a quel punto, tramite i sistemi nervosi periferici alla parte più profonda degli emisferi cerebrali. Qui vengono salvate e si radicano trasformandosi in impulsi automatici, molto difficilmente modificabili. Gardner sostiene che, quando l'abitudine si scontra con la volontà di cambiare, normalmente l'abitudine ha il sopravvento in quanto il cervello preferisce “non pensare” e consumare meno energia piuttosto che “sprecare energia” per modificare un processo che, di per sé, preserva l'individuo in maniera automatica. Tutto questo sarebbe perfetto fino a che le abitudini non sono negative o tossiche... ma allora, perché una mente perfetta dovrebbe automatizzare abitudini negative o tossiche che potrebbero danneggiare la sopravvivenza del sistema stesso? Vi sono vari studi e teorie (una su tutte, una pubblicazione della Duke University su Neuron), ma la maggior parte spiega i meccanismi neuronali che fissano le abitudini, sia positive che negative (ad esempio, ossessivo-compulsive), ma si ha solo una spiegazione biologica. Per quanto riguarda la parte psicologica, si dovrebbe andare a scavare nei meandri comportamentali, esperienziali ecc.; ma in questo post ci poniamo l'obiettivo non di “curare” l'origine del problema, bensì di aiutare il lettore a “accendere” l'attenzione sui percorsi da affrontare per poter modificare al meglio abitudini scorrette o anche per visualizzare le mancanze di opportunità alternative che l'abitudine toglie alla nostra evoluzione personale.
A tal proposito, vi farò un esempio personale esplicativo: percorro da anni la stessa strada per andare in ufficio perché, quando scelsi tale strada, probabilmente era la migliore; ma lo scorrere del tempo ha modificato la topografia della rete urbana o anche i flussi di traffico, e il verificare nuove strade mi porterebbe a scoprire che oggi la strada migliore sia un'altra, ma non lo faccio. Oppure: fumo da anni senza apparenti problemi, ma da quando faccio attività sportiva più spinta mi rendo conto che, non fumando, ho risultati migliori, ma continuo a fumare. Oppure: mangio in maniera disordinata e assumo troppe calorie, pur sapendo o immaginando che minor peso e migliore alimentazione mi porterebbero a una migliore qualità di vita, sia fisica che sociale, ma non lo faccio.
Partendo dal presupposto che qualunque abitudine toglie l'opportunità di vedere strade alternative... ma in questo caso vedo le opportunità, ma perché non le colgo? Bene, il segreto ritengo che stia proprio nel definire le priorità! E qui entra in gioco il lavoro del coach. Sicuramente, le motivazioni che ci spingono al cambiamento giocano un ruolo fondamentale sul processo stesso, ma il modo in cui vengono attuate fa la differenza. Se noi decidiamo di fare una dieta drastica, ci deve essere una motivazione drastica a supporto (smetto di fumare perché ho avuto un infarto importante o devo perdere peso perché sono a reale rischio vita, ecc.); diversamente, falliremo (out/out). Ma se noi modifichiamo i nostri "drive" dagli impulsi negativi in proporzione allo stato del problema, abbiamo più probabilità di successo. In buona sostanza, darci piccoli traguardi e grandi pacche sulle spalle là dove progredisce il cambiamento delle abitudini ci porterà a migliorare la nostra autostima, dirigendoci con step al raggiungimento dei nostri obiettivi. E una volta che i miglioramenti delle nostre abitudini ci porteranno a uno stato di benessere, il nostro cervello registrerà sia le nuove abitudini positive e tenderà ad evitare di tornare alle abitudini tossiche (conservazione della specie), diventando mano a mano automatiche.
Buona strada, Claudio.