Nel suo libro “La forza della vulnerabilità”, sottotitolato “Utilizzare la resilienza per superare le avversità”, la psicoterapeuta e formatrice Consuelo Casula scrive:
“Speranza non è solo un’emozione anticipatoria e una virtù, ma soprattutto è la passione rivoluzionaria che rende eroico il sopportare il male perché immaginiamo un riscatto liberatorio. (…) Se la paura incurva e fa abbassare lo sguardo, la speranza raddrizza la schiena e mette ali alla fantasia. La paura ingigantisce il dettaglio negativo, la speranza illumina lo scenario positivo. La paura fa scappare, la speranza lottare. La paura genera ignavia, la speranza indignazione che solleva lo sguardo per esplorare un più ampio orizzonte.”
Interessante e provocatorio l’uso delle parole ignavia e indignazione. Cito qui la sempre autorevole Treccani, che definisce la prima come pigrizia, indolenza e perfino viltà; indolenza che consiste nella deliberata rinuncia all’operare, per mancanza di volontà attiva e di forza spirituale; la seconda come stato d’animo che prova vivo risentimento per qualcosa che offende il senso di umanità, di giustizia e la coscienza morale.
L’autrice spiega poi come la speranza sia parente prossima dell’utopia:
“Utopia e speranza zampillano dalla voglia di esistere ed evolvere, miraggio di pienezza che colma il vuoto, faro che durante una navigazione turbolenta indica il porto vicino dove aspettare che la tempesta si calmi per poi ripartire nuovamente verso altri lidi.”
Utopia, lo dice l’origine della parola, οὐ «non» e τόπος «luogo», è un luogo che non esiste. Il termine fu coniato da Sir Thomas More, altrimenti noto come San Tommaso Moro, nel suo omonimo libro, pubblicato nel 1516. Ora, come può un essere umano parlare di un luogo che non esiste, se non immaginandolo, plasmandolo secondo un disegno ideale di piena realizzazione di come gli piacerebbe che fosse il mondo, anche solo il suo, o l’esistenza, anche solo la sua?
Ebbene, se un tale luogo è immaginabile – e chissà quante volte lo fa ognuno di noi, magari inconsciamente oppure pensando qualcosa tipo “come sarebbe bello se…” – in qualche modo attiviamo la consapevolezza di poter superare ciò che conosciamo, la nostra normalità e le nostre abitudini: la speranza è quella che ci spinge ad accogliere il rischio dello “sconosciuto”, mobilitando risorse che, con nostra stessa sorpresa, scopriamo di avere; e ci accompagna nel varcare i confini della nostra esperienza, per evolvere verso un nuovo stato in cui possiamo essere e dare un senso più completo alla nostra vita.
Ho usato la parola rischio, perché nessun limite può essere superato senza qualche dubbio o qualche paura. Una meta che non ho ancora raggiunto, una situazione desiderata, nel lavoro come nel mio mondo privato, richiede impegno energetico, fisico, mentale ed emotivo; ma mi fa prefigurare un benessere migliore rispetto al mio essere oggi: un’utopia, un luogo che per me non esiste ancora. Tuttavia, nel momento in cui spero di esserci, mi sto dicendo che forse quel luogo esiste e ci sarà un tempo in cui potrò esservi. La speranza risveglia e mantiene accesa luce del desiderio di evolvere e vivere un nuovo benessere esteriore e interiore.
Ora, rovesciamo la paura col coraggio di superare i nostri limiti e facciamo di questo una fonte di speranza; esploriamo l’orizzonte più ampio per ritrovarci e riconoscerci in esso. Non solo ognuno per se stesso, ma ognuno per tutti, perché uno è il genere umano, uno è il pianeta in cui viviamo.
Tuttavia, allargando così la prospettiva, chiediamoci anche: ci basterà la speranza per sostenere un ideale di prosperità del nostro mondo? Per riscattare un’umanità che pare inferocita nell’arroganza e nelle guerre di grandi potenze, militari ed economiche, nell’offesa incessante al proprio habitat, dovrà svilupparsi un’etica superiore e condivisa di libertà e benessere; espressione di riconoscenza per il dono universale della vita. Come potrà accadere questo, se non si manifesta una coscienza di leadership responsabile, integra nei valori e infaticabile nell’impegno di diffondere la consapevolezza e onorare quel dono? In che modo voglio contribuire io, nella mia parte di mondo, alla diffusione di questa consapevolezza?
“Speranza non è solo un’emozione anticipatoria e una virtù, ma soprattutto è la passione rivoluzionaria che rende eroico il sopportare il male perché immaginiamo un riscatto liberatorio. (…) Se la paura incurva e fa abbassare lo sguardo, la speranza raddrizza la schiena e mette ali alla fantasia. La paura ingigantisce il dettaglio negativo, la speranza illumina lo scenario positivo. La paura fa scappare, la speranza lottare. La paura genera ignavia, la speranza indignazione che solleva lo sguardo per esplorare un più ampio orizzonte.”
Interessante e provocatorio l’uso delle parole ignavia e indignazione. Cito qui la sempre autorevole Treccani, che definisce la prima come pigrizia, indolenza e perfino viltà; indolenza che consiste nella deliberata rinuncia all’operare, per mancanza di volontà attiva e di forza spirituale; la seconda come stato d’animo che prova vivo risentimento per qualcosa che offende il senso di umanità, di giustizia e la coscienza morale.
L’autrice spiega poi come la speranza sia parente prossima dell’utopia:
“Utopia e speranza zampillano dalla voglia di esistere ed evolvere, miraggio di pienezza che colma il vuoto, faro che durante una navigazione turbolenta indica il porto vicino dove aspettare che la tempesta si calmi per poi ripartire nuovamente verso altri lidi.”
Utopia, lo dice l’origine della parola, οὐ «non» e τόπος «luogo», è un luogo che non esiste. Il termine fu coniato da Sir Thomas More, altrimenti noto come San Tommaso Moro, nel suo omonimo libro, pubblicato nel 1516. Ora, come può un essere umano parlare di un luogo che non esiste, se non immaginandolo, plasmandolo secondo un disegno ideale di piena realizzazione di come gli piacerebbe che fosse il mondo, anche solo il suo, o l’esistenza, anche solo la sua?
Ebbene, se un tale luogo è immaginabile – e chissà quante volte lo fa ognuno di noi, magari inconsciamente oppure pensando qualcosa tipo “come sarebbe bello se…” – in qualche modo attiviamo la consapevolezza di poter superare ciò che conosciamo, la nostra normalità e le nostre abitudini: la speranza è quella che ci spinge ad accogliere il rischio dello “sconosciuto”, mobilitando risorse che, con nostra stessa sorpresa, scopriamo di avere; e ci accompagna nel varcare i confini della nostra esperienza, per evolvere verso un nuovo stato in cui possiamo essere e dare un senso più completo alla nostra vita.
Ho usato la parola rischio, perché nessun limite può essere superato senza qualche dubbio o qualche paura. Una meta che non ho ancora raggiunto, una situazione desiderata, nel lavoro come nel mio mondo privato, richiede impegno energetico, fisico, mentale ed emotivo; ma mi fa prefigurare un benessere migliore rispetto al mio essere oggi: un’utopia, un luogo che per me non esiste ancora. Tuttavia, nel momento in cui spero di esserci, mi sto dicendo che forse quel luogo esiste e ci sarà un tempo in cui potrò esservi. La speranza risveglia e mantiene accesa luce del desiderio di evolvere e vivere un nuovo benessere esteriore e interiore.
Ora, rovesciamo la paura col coraggio di superare i nostri limiti e facciamo di questo una fonte di speranza; esploriamo l’orizzonte più ampio per ritrovarci e riconoscerci in esso. Non solo ognuno per se stesso, ma ognuno per tutti, perché uno è il genere umano, uno è il pianeta in cui viviamo.
Tuttavia, allargando così la prospettiva, chiediamoci anche: ci basterà la speranza per sostenere un ideale di prosperità del nostro mondo? Per riscattare un’umanità che pare inferocita nell’arroganza e nelle guerre di grandi potenze, militari ed economiche, nell’offesa incessante al proprio habitat, dovrà svilupparsi un’etica superiore e condivisa di libertà e benessere; espressione di riconoscenza per il dono universale della vita. Come potrà accadere questo, se non si manifesta una coscienza di leadership responsabile, integra nei valori e infaticabile nell’impegno di diffondere la consapevolezza e onorare quel dono? In che modo voglio contribuire io, nella mia parte di mondo, alla diffusione di questa consapevolezza?