Mi sono ritrovato moltissime volte a farmi cullare dalle onde, maschera sul viso, snorkel in bocca, perso con lo sguardo a guardare sempre più giù, lungo il cavo che dalla boa in superficie portava in profondità, seguendo lo sperluccichio dei raggi del sole, che via via si perdevano in un blu intenso.
E non sempre mi è successo in mare.
Una delle canzoni più belle di un famoso cantautore italiano parifica l’apnea alla poesia. Naturalmente non posso che trovarmi d’accordo. L’apnea è un atto poetico. Un coraggioso atto poetico. Come la vita.
In fondo, si tratta di lasciarsi cullare dalle onde, che a volte sono dolci, comode, gentili. Altre volte sono lunghe, ti tengono sollevato per un po’ e poi ti mollano lì, facendoti arrivare lo stomaco in gola. E altre volte sono tremendamente arrabbiate, quasi a sembrare che non ti vogliano.
Ma tu stai, resti (persistenza del contatto). Guardi giù, in fondo. O chiudi gli occhi e aspetti il momento giusto di riaprirli. E intanto respiri. E stai.
E quando senti che è il momento giusto di agire, fai la tua miglior capovolta. Non la più bella, non la più efficace, la più precisa. Quella che in quel momento puoi fare, ma con tutte le tue energie, con tutto il tuo amore. Con tutto il tuo abbandono, con tutto il tuo affidamento a quel mare che sta per prenderti.
A quel punto, dopo aver preso l’ultima boccata d’aria, smetti di respirare. E vai giù, in fondo. All’inizio forse devi spingere un po’. Alcuni mettono più pesi in cintura per scendere più velocemente. Come nella vita.
Alcuni usano le pinne, altri la monopinna, per scendere più velocemente. Come nella vita.
Ma poi tutti, prima o dopo, devono decidere se smettere di spingere e lasciarsi andare, nel blu.
E lì, davvero, senti che non c’è controllo, non c’è gestione, se non di te stesso. C’è accettazione, c’è accoglienza, c’è la mancanza di giudizio. C’è solo quello che ci deve essere. C’è tutto quello che ci deve essere.
E non sempre mi è successo in mare.
Una delle canzoni più belle di un famoso cantautore italiano parifica l’apnea alla poesia. Naturalmente non posso che trovarmi d’accordo. L’apnea è un atto poetico. Un coraggioso atto poetico. Come la vita.
In fondo, si tratta di lasciarsi cullare dalle onde, che a volte sono dolci, comode, gentili. Altre volte sono lunghe, ti tengono sollevato per un po’ e poi ti mollano lì, facendoti arrivare lo stomaco in gola. E altre volte sono tremendamente arrabbiate, quasi a sembrare che non ti vogliano.
Ma tu stai, resti (persistenza del contatto). Guardi giù, in fondo. O chiudi gli occhi e aspetti il momento giusto di riaprirli. E intanto respiri. E stai.
E quando senti che è il momento giusto di agire, fai la tua miglior capovolta. Non la più bella, non la più efficace, la più precisa. Quella che in quel momento puoi fare, ma con tutte le tue energie, con tutto il tuo amore. Con tutto il tuo abbandono, con tutto il tuo affidamento a quel mare che sta per prenderti.
A quel punto, dopo aver preso l’ultima boccata d’aria, smetti di respirare. E vai giù, in fondo. All’inizio forse devi spingere un po’. Alcuni mettono più pesi in cintura per scendere più velocemente. Come nella vita.
Alcuni usano le pinne, altri la monopinna, per scendere più velocemente. Come nella vita.
Ma poi tutti, prima o dopo, devono decidere se smettere di spingere e lasciarsi andare, nel blu.
E lì, davvero, senti che non c’è controllo, non c’è gestione, se non di te stesso. C’è accettazione, c’è accoglienza, c’è la mancanza di giudizio. C’è solo quello che ci deve essere. C’è tutto quello che ci deve essere.