Tra questi, uno che mi ha sempre colpito nelle testimonianze che leggevo riguardava l’esperienza del distacco che si concretizzava a seguito del ricovero ospedaliero e conseguente isolamento.
Già dalle prime fasi, il malessere e l’inquietudine generate dall’allontanamento dai propri cari, l’impossibilità improvvisa di non poter condividere la difficoltà del momento, la mancanza di un contatto, di uno sguardo conosciuto intimamente che potesse in qualche modo sostenere la battaglia in corso venivano descritti come elementi di fortissimo disagio aggiuntivo.
Se non bastasse, a rendere il quadro ancora più drammatico erano le testimonianze dei medici che assistevano le persone che poi non ce l’avrebbero fatta, e che raccontavano proprio di questa disperazione amplificata dall’impossibilità di avere a fianco, in quei momenti, le persone amate dalle quali poter ricevere conforto.
Parlando in questi giorni con una mia carissima amica, alla quale è venuta a mancare poche ore prima la mamma, tra le varie considerazioni sul distacco appena vissuto, una frase da lei pronunciata mi è rimasta particolarmente impressa: “Dovrebbero prepararci fin da piccoli ad affrontare questi momenti; non arriviamo pronti ad affrontarli”.
Sono anch’io d’accordo sul fatto che per noi il distacco rappresenta un momento traumatico e non siamo preparati ad affrontarlo.
Concentrati a costruirci le nostre certezze, a pianificare le nostre vite ponendoci giustamente obiettivi da raggiungere per definire una nostra identità, pian piano ci affezioniamo a questo micro universo che ci circonda e che ci siamo creati.
L’idea di perdere pezzi di questa realtà ci fa stare male, provoca smarrimento, angoscia, ansia fino a diventare vera e propria disperazione.
Un possibile antidoto a questo processo penso ci sia reso disponibile dagli insegnamenti della filosofia buddista.
Tra i principi cardine di questa filosofia, ce n’è uno che si chiama “impermanenza”, ovvero la consapevolezza che tutto sia transitorio.
La capacità di cogliere questo aspetto, di vivere le situazioni per come si creano nel momento in cui accadono, permette di assumere contemporaneamente un ruolo di attore attivo ma anche di osservatore esterno, ricettivo ma non vincolato o vincolante.
Osservare con distacco consente una maggior consapevolezza, una pratica che conduce sempre più verso una propria realizzazione, ad una compiutezza del proprio vivere.
Consente, forse, di arrivare più preparati ad affrontare il momento del distacco assoluto, perché quest’ultimo rientra in un processo già in qualche misura sperimentato.
Il distacco, quindi, inteso come modalità di approccio, come esercizio costante, come atteggiamento rispetto agli eventi della vita assume un significato diverso dal distacco vissuto come evento traumatico connotato da aspetti solamente negativi.
L’immagine che mi viene è quella dell’astronave che nelle prime fasi del lancio nel viaggio verso le profondità del cosmo, ad un certo punto si stacca dagli elementi strutturali che hanno consentito di portarla fuori dall’atmosfera. Una fiammata, i serbatoi che si separano e cadono, la navicella che continua la sua corsa nel silenzio e l’attenzione che si concentra sulla Terra. Lì sotto restano tutti gli intrecci, le situazioni, le relazioni di un’umanità attiva che abita un Pianeta meraviglioso. Da questo punto di osservazione “distaccato” tutto diventa più chiaro e comprensibile, equilibrato nell’ordine di importanza.
Mi piace pensare che seguire i consigli della filosofia buddista, praticare il distacco per come qui brevemente descritto, possa aiutare noi e che ci sta vicino ad affrontare e vivere al meglio i momenti di questa esistenza terrena.