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'Stress' di Marco Burgo

11/11/2015

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L’essere umano è continuamente oggetto di stimoli da parte dell’ambiente esterno. Quando una sollecitazione consiste in una pressione psicologica o psicofisica nociva, essa causa una reazione di adattamento dell’organismo che chiamiamo stress psicologico. Stress è una parola inglese che significa sforzo, pressione, tensione, ma anche attenzione, concentrazione e infine stretta, angoscia.

Quando lo stimolo non rientra nelle “normali” minacce attese dall’organismo, quello che sperimentiamo è lo stress, un sovraccarico di reazioni cognitive, emotive, comportamentali e psicofisiologiche rivolte a ripristinare l’equilibrio con l’ambiente.

Per la risoluzione dello stress adottiamo generalmente di tre tipi di azioni, che interagiscono tra loro.

Il primo tipo passa attraverso la riorganizzazione delle informazioni e la ristrutturazione dei comportamenti e degli atteggiamenti mentali, utilizzando metodi di valutazione della situazione, tecniche personali di problem solving, incremento delle abilità personali, modifica delle condizioni in cui  operiamo, individuazione di un percorso per raggiungere un obiettivo e simili; si tratta di una strategia orientata alla risoluzione del problema, affrontandolo in maniera diretta per modificare il rapporto tra ambiente e individuo.

Il secondo tipo di reazione è orientato a gestire le reazioni emotive, per ottenere il controllo, attraverso varie modalità che vanno dal riconoscimento delle emozioni,  allo loro espressione, a tecniche di rilassamento e meditazione.

Il terzo tipo di strategia si basa su azioni volte a evitare di subire gli effetti emotivamente negativi della situazione, distraendo l’attenzione dalla circostanza che genera stress, impegnandosi in attività lavorative o in rapporti sociali, e simili.
Lo stress è un’esperienza soggettiva, che dipende dalla valutazione della situazione esterna ma anche dalla valutazione delle risorse interne e capacità di fronteggiare le circostanze.

Lo stress inizia con una fase di allarme, tipica delle fasi di minaccia, governata dagli impulsi dell’amigdala che provoca innalzamento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, della tensione muscolare, diminuzione della salivazione, in una parola una risposta di ansia.

Studi neurologici hanno dimostrato che l’attivazione dell’amigdala permane finché continua la percezione della minaccia; la sua attività man mano si intensifica perché l’emozione di ansia crea una maggior vigilanza e focalizza l’attenzione sugli aspetti potenzialmente minacciosi dell’ambiente e delle situazioni.

La corteccia prefrontale, preposta ai processi cognitivi come la razionalizzazione del problema e l’autocontrollo, è inibita dal frastuono dell’allarme generato dall’amigdala, così assordante da far deragliare il nostro pensiero.

Gli stessi studi hanno dimostrato entrambe le strategie di regolazione delle emozioni, sia quella rivolta alla soppressione, sia la ristrutturazione cognitiva dello stimolo, comportano una incrementata attività della corteccia prefrontale.
La differenza sta nell’amigdala.

Mentre la ristrutturazione degli eventi e la riorganizzazione dei comportamenti diminuiscono l’attività dell’amigdala poiché lo stimolo viene interpretato come meno minaccioso, la soppressione delle emozioni aumenta l’attività dell’amigdala. È come se l’allarme dovesse suonare più forte perché l’individuo è sordo alle emozioni e non sta facendo nulla per rimuovere le minacce.

In sostanza, quando esternamente riusciamo a contenere con successo per troppo tempo l’espressione delle emozioni, sperimentiamo una intensificazione del nostro allarme emotivo (e chimico) interno.
​
La gestione delle emozioni ci permette di rimettere in funzione i processi razionali del pensiero, per poter intraprendere quella ristrutturazione cognitiva che riuscirà a tranquillizzare l’amigdala, convincendola a spegnere l’allarme.

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