La sofferenza per i malati, per un amore che finisce, per una persona che non c’è più, va oltre lo psichico e tocca il biologico. Nel vissuto dell’attaccamento e della separazione, la naturale divisione tra esperienza mentale e corporea, tra sé e l’altro, tra presenza e assenza, tocca le radici stesse della sopravvivenza individuale. Scardina le strategie di gestione dell’angoscia e del dolore, travolge gli schemi comportamentali acquisiti nell'infanzia, toglie ossigeno ai comportamenti adulti, imprigiona il futuro e blocca l’elaborazione e lo sviluppo di alternative.
Ecco come ci sentiamo quando viviamo esperienze di separazione, lutto e dolore: viviamo dentro una gabbia, separati dai nostri processi vitali.
Questa cosa ci tocca in profondità. Siamo senza arti emotivi, senza legami vitali, senza gli stimoli sani della sopravvivenza. Il nostro corpo biologico va in pezzi.
Il dramma della perdita ha un prima, un durante e un dopo che ci fa sperimentare l’abbandono, la solitudine, la paura, il senso di colpa e la nostra vulnerabilità.
La perdita di un legame mette in discussione la capacità di provvedere a sé stessi e sopravvivere. Per un periodo più o meno lungo si vaga nel vuoto, senza appigli e senza avere un compito da svolgere che abbia un significato vitale.
Non ci sono risorse, sostegni, strategie di gratificazione che tengano o strategie di letture della realtà che giustifichino i fatti. Inizialmente prevale la preoccupazione, l’impotenza, l’inadeguatezza. In una parola, si sperimenta la ‘morte’.
Una parte di noi non accetta la perdita e un’altra parte registra una sorta di impossibilità a sopravvivere: ‘come farò a continuare a vivere e a cavarmela?’
Ogni legame ha un ché di connaturato con la sopravvivenza e ogni perdita è realmente vissuta come un ‘pericolo di vita’. In età adulta ovviamente ciò ha a che fare l’impossibilità di percepire la fiducia di ri-innamorarsi, di riuscire a cambiare lavoro, di lasciare le vecchie abitudini o di accettare le esperienze dolorose come fatti della vita.
La risposta dell’organismo a tutto questo? La produzione di sintomi e segnali di pericolo!
All'inizio, quando si ‘realizza’ la perdita, prevale un terremoto esistenziale con un senso di smarrimento e di mancanza, del tutto sano e naturale. Se non si è ‘preparati’, invece, si assiste a un processo di cronicizzazione fatto di due aspetti. Da una parte si attuano meccanismi di difesa per fuggire dal dolore, dall'altra, si attualizza la negazione del processo di accettazione del distacco.
In pratica ci si confonde con i lacrimogeni (meccanismi di difesa) e si mette in quarantena il processo del distacco dall'oggetto d’amore e tutto ciò che lo riguarda (potenzialità, risorse, reazioni).
Ogni perdita però va gestita e va elaborata. Se lo facciamo ci fa crescere. Se non lo facciamo, perdiamo la nostra anima e non siamo più nessuno.
Se lo facciamo, grazie all'altro che non c’è più, scopriamo quella dimensione della nostra anima che ci fa dire: ‘io ci sono, sono qui, sono vivo, la vita va avanti!’
Tutto ciò riguarda un processo che evolve per fasi. Le vedremo insieme.
Ecco come ci sentiamo quando viviamo esperienze di separazione, lutto e dolore: viviamo dentro una gabbia, separati dai nostri processi vitali.
Questa cosa ci tocca in profondità. Siamo senza arti emotivi, senza legami vitali, senza gli stimoli sani della sopravvivenza. Il nostro corpo biologico va in pezzi.
Il dramma della perdita ha un prima, un durante e un dopo che ci fa sperimentare l’abbandono, la solitudine, la paura, il senso di colpa e la nostra vulnerabilità.
La perdita di un legame mette in discussione la capacità di provvedere a sé stessi e sopravvivere. Per un periodo più o meno lungo si vaga nel vuoto, senza appigli e senza avere un compito da svolgere che abbia un significato vitale.
Non ci sono risorse, sostegni, strategie di gratificazione che tengano o strategie di letture della realtà che giustifichino i fatti. Inizialmente prevale la preoccupazione, l’impotenza, l’inadeguatezza. In una parola, si sperimenta la ‘morte’.
Una parte di noi non accetta la perdita e un’altra parte registra una sorta di impossibilità a sopravvivere: ‘come farò a continuare a vivere e a cavarmela?’
Ogni legame ha un ché di connaturato con la sopravvivenza e ogni perdita è realmente vissuta come un ‘pericolo di vita’. In età adulta ovviamente ciò ha a che fare l’impossibilità di percepire la fiducia di ri-innamorarsi, di riuscire a cambiare lavoro, di lasciare le vecchie abitudini o di accettare le esperienze dolorose come fatti della vita.
La risposta dell’organismo a tutto questo? La produzione di sintomi e segnali di pericolo!
All'inizio, quando si ‘realizza’ la perdita, prevale un terremoto esistenziale con un senso di smarrimento e di mancanza, del tutto sano e naturale. Se non si è ‘preparati’, invece, si assiste a un processo di cronicizzazione fatto di due aspetti. Da una parte si attuano meccanismi di difesa per fuggire dal dolore, dall'altra, si attualizza la negazione del processo di accettazione del distacco.
In pratica ci si confonde con i lacrimogeni (meccanismi di difesa) e si mette in quarantena il processo del distacco dall'oggetto d’amore e tutto ciò che lo riguarda (potenzialità, risorse, reazioni).
Ogni perdita però va gestita e va elaborata. Se lo facciamo ci fa crescere. Se non lo facciamo, perdiamo la nostra anima e non siamo più nessuno.
Se lo facciamo, grazie all'altro che non c’è più, scopriamo quella dimensione della nostra anima che ci fa dire: ‘io ci sono, sono qui, sono vivo, la vita va avanti!’
Tutto ciò riguarda un processo che evolve per fasi. Le vedremo insieme.