“Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere.
Chi non scrive e non legge mai è sempre fuori casa, anche se ne ha molte.
È un povero, e rende la vita più povera”.
(Anna Maria Ortese)
Lavoro nel campo della relazione d'aiuto da circa vent'anni. E fra tutte le tecniche studiate, imparate, applicate e confrontate, non conosco niente di più efficace della scrittura, come forma di orientamento e approfondimento del sé.
La scrittura è comprensione, disciplina, umiltà, obbliga a chinare la testa e, nel far questo, avvicina a ciò che abbiamo davanti e dentro i pensieri. Ci obbliga a dipanare quel chiacchiericcio incessante della mente, che non si ferma neanche nel sonno e ricomincia ogni mattina.
Usando tecniche di scrittura di sé, si sviluppa una caratteristica molto importante: quella dell'attenzione. Non si scrive infatti per fantasticare, ma per essere più desti. Per sviluppare consapevolezza, comprendere gli esiti delle nostre azioni, guidare il corso della vita ma anche lasciarsi fluire, pronti a raccogliere opportunità, doni lungo la strada, sorprese.
Ho portato questa tecnica in diversi contesti, l'ho insegnata a psicologi e manager, bambini e malati terminali, amministratori delegati e studenti, e sempre, dopo qualche esercizio o incontro, ho sentito il rumore: una sorta di “Crick”. Quel suono del guscio d'uovo che fa una crepa sottile prima di aprirsi. È sempre avvenuta questa magia, c'è sempre stato un punto in cui, chi alzava la testa dal foglio, aveva uno sguardo nuovo e una finestra improvvisa dentro i pensieri da cui entrava luce, e altra ne usciva.
La scrittura di sé non necessita di talento letterario, richiede semplicemente la capacità di tenere in mano la penna e muoverla sul foglio. La parte difficile è scrivere con onestà intellettuale, che implica non abbellire la nostra esperienza, non scappare davanti alle responsabilità e accettare di mettere nero su bianco ciò che non va', che sia una relazione, un lavoro, oppure un progetto nel quale avevamo riposto molte speranze.
La scrittura richiede la capacità di stare da soli, invita all'indipendenza, è preparazione prima di incontrare gli altri: perché non si scrive per arrotolarsi in se stessi come una merendina Girella, ma per costruire ponti, tendere la mano, avere riconosciuto sulla carta che abbiamo bisogno di aiuto, alzarci e chiederlo, avere scritto che da troppo tempo non sentiamo la pioggia sui capelli, e al primo temporale uscire per strada, lasciando a casa l'ombrello.
Scrivendo si allena il dialogo con la parte più intima, spirituale e selvaggia. La nostra parte antica, presente fin dalla nascita, che conosce tutte le risposte ma comunica interrogandoci. È avvicinare il luogo, dentro di noi, dove c'è l'ombra più densa, amare anche quella parte e saperla integrare con il volto che volgiamo agli altri, all'esterno. Se utilizzata con costanza e disciplina, la scrittura può diventare una sorta di pratica spirituale, nella quale siamo liberi di esprimere il nostro personale dialogo con la divinità o filosofia a cui facciamo riferimento, inventarci un linguaggio o una preghiera per comunicare con essa, assegnarle uno spazio sulla pagina bianca, spazio che permette anche di distanziarcene, per tornare alle attività quotidiane.
Sulla carta, senza essere presi per matti, possiamo scrivere lettere a chi eravamo quando avevamo sei anni, a chi saremo quando ne avremo ottanta, possiamo dialogare con un filo d'erba o parlare con chi non c'è più, dicendo ciò che un tempo avevamo taciuto, per mancanza di occasioni o coraggio.
L'importante è che una volta posata la penna sul tavolo, noi si chiuda il quaderno o si pieghi il foglio a forma di aeroplano e si esca per strada, curiosi d'incontrare altre vite, parole, esperienze. Da vivere.
Perché la scrittura è la casa, ma noi siamo il viaggio.
Chi non scrive e non legge mai è sempre fuori casa, anche se ne ha molte.
È un povero, e rende la vita più povera”.
(Anna Maria Ortese)
Lavoro nel campo della relazione d'aiuto da circa vent'anni. E fra tutte le tecniche studiate, imparate, applicate e confrontate, non conosco niente di più efficace della scrittura, come forma di orientamento e approfondimento del sé.
La scrittura è comprensione, disciplina, umiltà, obbliga a chinare la testa e, nel far questo, avvicina a ciò che abbiamo davanti e dentro i pensieri. Ci obbliga a dipanare quel chiacchiericcio incessante della mente, che non si ferma neanche nel sonno e ricomincia ogni mattina.
Usando tecniche di scrittura di sé, si sviluppa una caratteristica molto importante: quella dell'attenzione. Non si scrive infatti per fantasticare, ma per essere più desti. Per sviluppare consapevolezza, comprendere gli esiti delle nostre azioni, guidare il corso della vita ma anche lasciarsi fluire, pronti a raccogliere opportunità, doni lungo la strada, sorprese.
Ho portato questa tecnica in diversi contesti, l'ho insegnata a psicologi e manager, bambini e malati terminali, amministratori delegati e studenti, e sempre, dopo qualche esercizio o incontro, ho sentito il rumore: una sorta di “Crick”. Quel suono del guscio d'uovo che fa una crepa sottile prima di aprirsi. È sempre avvenuta questa magia, c'è sempre stato un punto in cui, chi alzava la testa dal foglio, aveva uno sguardo nuovo e una finestra improvvisa dentro i pensieri da cui entrava luce, e altra ne usciva.
La scrittura di sé non necessita di talento letterario, richiede semplicemente la capacità di tenere in mano la penna e muoverla sul foglio. La parte difficile è scrivere con onestà intellettuale, che implica non abbellire la nostra esperienza, non scappare davanti alle responsabilità e accettare di mettere nero su bianco ciò che non va', che sia una relazione, un lavoro, oppure un progetto nel quale avevamo riposto molte speranze.
La scrittura richiede la capacità di stare da soli, invita all'indipendenza, è preparazione prima di incontrare gli altri: perché non si scrive per arrotolarsi in se stessi come una merendina Girella, ma per costruire ponti, tendere la mano, avere riconosciuto sulla carta che abbiamo bisogno di aiuto, alzarci e chiederlo, avere scritto che da troppo tempo non sentiamo la pioggia sui capelli, e al primo temporale uscire per strada, lasciando a casa l'ombrello.
Scrivendo si allena il dialogo con la parte più intima, spirituale e selvaggia. La nostra parte antica, presente fin dalla nascita, che conosce tutte le risposte ma comunica interrogandoci. È avvicinare il luogo, dentro di noi, dove c'è l'ombra più densa, amare anche quella parte e saperla integrare con il volto che volgiamo agli altri, all'esterno. Se utilizzata con costanza e disciplina, la scrittura può diventare una sorta di pratica spirituale, nella quale siamo liberi di esprimere il nostro personale dialogo con la divinità o filosofia a cui facciamo riferimento, inventarci un linguaggio o una preghiera per comunicare con essa, assegnarle uno spazio sulla pagina bianca, spazio che permette anche di distanziarcene, per tornare alle attività quotidiane.
Sulla carta, senza essere presi per matti, possiamo scrivere lettere a chi eravamo quando avevamo sei anni, a chi saremo quando ne avremo ottanta, possiamo dialogare con un filo d'erba o parlare con chi non c'è più, dicendo ciò che un tempo avevamo taciuto, per mancanza di occasioni o coraggio.
L'importante è che una volta posata la penna sul tavolo, noi si chiuda il quaderno o si pieghi il foglio a forma di aeroplano e si esca per strada, curiosi d'incontrare altre vite, parole, esperienze. Da vivere.
Perché la scrittura è la casa, ma noi siamo il viaggio.