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'Quando la malattia è un'occasione' di Angela Baro

15/6/2016

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Per molto tempo ho pensato di non conoscerti e fino a un po’ di tempo fa forse non me ne importava nemmeno, lo davo per scontato.

Ho sempre pensato che dovessero essere i genitori a dover conoscere profondamente i loro figli, per confortarli, supportarli, soddisfare i loro bisogni. Non ho mai pensato che dovesse essere una strada a doppio senso. I genitori sanno, i genitori sono grandi.

E ora che non ci sei più, mi trovo spesso a pensarti, a scavare nella memoria per rivederci, per rivivere i nostri momenti sereni insieme … certo si fanno strada anche quelli brutti, e ricordo bene i nostri litigi, le tue sfuriate e quanto in certi momenti non mi sia sentita capita e ti abbia odiato, ma penso che non sarebbe giusto dimenticare, perché anche questo fa parte della nostra storia.

Ti piaceva pescare. Quando salivi sulla tua microscopica barca e salpavi in laguna a caccia di seppie eri felice, ti abbronzavi alla velocità del suono e facevi troppo ridere quando ti annodavi la camicia sopra all’ombelico.

Ti piaceva curare l’orto. Ricordo bene quando tornavi con la Vespa carica di borse di pomodori e altri ortaggi, che prontamente trasformavi in colossali scorte di conserva, sottaceti, sottoli, sacchetti di minestrone. Era bello guardare la TV tutti insieme sgranando fagioli.

Rileggendo noto proprio come tu avessi l’istinto di procacciare, per noi, e credo che nessuno abbia mai mangiato una conserva con così tanto sentimento, tanto quanto la nostra. Forse un retaggio di tutta la fame che avevi patito da piccolo … chissà, vero è che tutto facevi con amore, per la tua famiglia.

Ti piaceva cucinare, ti costruivi anche gli attrezzi, tipo quel ridicolo barbecue saldato a mano e forato col trapano … tanto inguardabile quanto efficace. Per noi da piccoli e per le tue nipoti ci tagliavi le patatine ad animaletto … ero molto gelosa da piccola, quando le preparavi alle cugine.

Ti piaceva andare in giro, ti piaceva chiacchierare, avevi sempre una teoria per tutto, che fosse politica, scienza o attualità. Ti chiamavamo “il tuttologo”. Quanto rompevi. Secondo me dietro alle tue filippiche mal celavi il dispiacere per non poterci dare quello che avevano gli altri, soprattutto quando si parlava di soldi. E cielo quanto eri timido !!!

Non mi hai mai detto “ti voglio bene”, ma era scritto in tutte le moka di caffè che mi facevi al mattino e in tutte le volte che mi tiravi per i piedi per svegliarmi, in tutte le volte in cui ho avuto bisogno di te, e tu c’eri.

Della malattia invece avevi paura. Tanta. Nell’ultimo periodo volevi la luce accesa di notte, perché avevi paura di chiudere gli occhi e di rimanere al buio. Per sempre. Eppure hai sempre avuto tanta speranza. Ogni viaggio al policlinico era una crociata, e al ritorno in macchina facevamo il bilancio della battaglia … ho sempre cercato con te il lato positivo, anche quando non c’era …fosse anche solo la brioche dell’ospedale .. chissà perché ti piaceva così tanto.

Un giorno me lo hai detto che avevi paura. E li ho capito che la nostra ruota aveva preso a girare al contrario e che ora toccava a me fare la forte della situazione.
E grazie alla malattia ti ho potuto abbracciare forte, baciare tanto, in tutta la tua fragilità. Ho potuto massaggiare un corpo che si stava consumando, e tenere alto lo spirito .. magari con un selfie dopo che ti avevo fatto la barba. Ho lottato al tuo fianco, e quando la malattia guadagnava strada, lottavo per la tua dignità, lottavo per un istante senza paura.

Forse non sono riuscita a comprendere il senso profondo del tuo calvario, ma almeno la tua malattia mi ha fatto vedere l’uomo che era dentro al genitore e mi ha fatto vedere la donna che era dentro alla figlia.
​
Grazie papà, di quest’ultima grande, impareggiabile lezione.

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