E’ il primo novembre 2017, festa di Ognissanti. Sono le 10.30.
Sono in soggiorno, in mutande, con la scopa in mano, e sto spingendo un rotolino di lanetta dentro la cassetta col manico. Sento vibrare il telefono e poi un suono di notifica.
Appoggio la scopa e guardo il display. E’ la mia vicina di casa: “Ho appena fatto il caffè, ti va?...” Faccine faccine.
“Yes...” rispondo “...arrivo”
Non so perché ho scritto Yes invece di scrivere Sì. Forse per darmi un tono, o forse perché la mia vicina è svedese. Mah...
Metto su il pantalone della tuta e una felpa, vado in bagno, mi guardo nello specchio mi passo una mano sulla testa. Sono completamente calvo ma convivo con la sindrome dell’arto fantasma e accarezzo la pelle nuda come fosse una folta capigliatura.
Poi spingo la porta di casa sua e non appena entrato, ancora in piedi in mezzo alla stanza, lei comincia a raccontarmi rapidamente di come si senta immobile in questo periodo della sua vita come se niente potesse mai cambiare e bla bla bla.
Io ho la pressione bassa e la mente pigra da “appena sveglio”, avevo fatto fatica solo a spingere la polvere con la scopa e non ero pronto per una seduta di coaching.
Guardo il divano e sopra c’ è il gatto nell’ esatta posizione in cui vorrei essere io. Appena lei si gira verso la cucina, lo spingo giù con una certa energia e lui protesta con un sonoro miagolio.
La vicina gira la testa e io nel modo più vigliacco faccio finta di accarezzare il felino. Poi mi siedo.
La vicina continua a stendere strati sovrapposti di parole. Io penso a Manfredini che pochi giorni prima ci aveva invitato ad esercitarsi in ogni occasione.
La vicina mi porge poi una tazzina di caffè, ed approfitto della breve pausa in cui lei beve il suo per dirle: Posso raccontarti una storia?
Lei mi guarda perplessa.
Una storia vera. Aggiungo.
Lei mi fa di sì con la testa ed io comincio.
“Una mi amica insegna alle scuole medie e un giorno porta una classe di prima a vedere la rappresentazione teatrale del Barone rampante di Italo Calvino.
Il gruppo dei ragazzi percorre a piedi la strada dalla scuola al teatro restringendosi nei marciapiedi stretti e allargandosi nelle piazze. Arrivati a teatro la maestra conta i ragazzi che entrano, uno, due, tre, quattro..., finché ventiquattro creature non affondano nel velluto rosso delle poltroncine. A quel punto le luci si abbassano, si sente una musica che cresce e si apre il sipario. Nel mezzo c’è un albero stilizzato e sopra l’ attore.
L’attore comincia ad interpretare la storia di questo ragazzo quattordicenne, figlio di un Barone rigido ed osservante dell’ etichetta, che è a tavola con la famiglia e gli viene servito un piatto di lumache. Il piccolo barone si rifiuta di mangiarle ed il papà cerca di obbligarlo.
Lui ha schifo delle lumache e si rifiuta ancora. Il papà lo rimprovera e lui lascia la sala, scappa in giardino e si arrampica su un grosso albero.
Il papà lo raggiunge e lo minaccia e lui pronuncia una frase: “Non metterò mai più piede in terra:”
E’ giovane, ha quattordici anni, ma è un baronetto, e la sua parola è quella di un baronetto. E la manterrà, vivrà tutta la vita spostandosi di albero in albero. Ed avrà una vita soddisfacente.
All’ inizio la gente lo guarda con curiosità, ma poi gli porterà da mangiare, le persone si fermeranno sotto l’ albero per fare chiacchiere.
Fa amicizia dapprima con un ladro di frutta, poi con tante persone ed avrà anche una fidanzata “rampicante”. Ma resterà per sempre sugli alberi. Per sempre.
A quel punto la musica cala e gli attrezzisti hanno già le mani sulle corde per chiudere il sipario.
Ma qui succede una cosa imprevista. Una giovane allieva della mia amica si stacca dalla sua poltroncina e cerca a tentoni le scale di legno che portano sul palcoscenico.
La gente la segue nel più assoluto silenzio, si sentono le sue scarpette sul legno, finché non raggiunge il centro della scena. Guarda l’attore dal basso all’alto e con una voce supplichevole gli dice:
“Ma no... guarda che puoi scendere, ti ospito a casa mia, davvero, guarda che puoi scendere, davvero.”
Il pubblico segue la scena in silenzio e anche l’ attore rimane ammutolito. Ha la sua sceneggiatura da seguire, ha una bambina che lo implora di scendere.
La bambina interpreta a modo suo questo silenzio, aggiunge:
“No non ti devi preoccupare, ci parlo io con mia mamma!!”
L’ attore a quel punto scende dall’albero, prende la bambina per mano, si inchina verso il pubblico.
Applausi, qualche lacrimuccia.
Una bambina cambia il finale di una storia immutata da un secolo. “
A quel punto fisso la mia vicina che mi guarda attenta, con la tazzina del caffè vuota sollevata a mezz’aria. Non sono sicuro che abbia capito e aggiungo.
"Vedi Micaela, a volte le cose sembrano non cambiare, ma poi ci capita di sentire il richiamo giusto e tutto in un attimo può prendere una direzione diversa."
Mi sento contento, mi pare di averle evocato chiaramente una possibilità di muoversi da quella sua sensazione di immobilità.
Lei mi guarda ancora, posa la tazzina e mi dice: “Sì, però io non vivo su un albero.”
Occhio alla metafora ragazzi. Occhio.
Sono in soggiorno, in mutande, con la scopa in mano, e sto spingendo un rotolino di lanetta dentro la cassetta col manico. Sento vibrare il telefono e poi un suono di notifica.
Appoggio la scopa e guardo il display. E’ la mia vicina di casa: “Ho appena fatto il caffè, ti va?...” Faccine faccine.
“Yes...” rispondo “...arrivo”
Non so perché ho scritto Yes invece di scrivere Sì. Forse per darmi un tono, o forse perché la mia vicina è svedese. Mah...
Metto su il pantalone della tuta e una felpa, vado in bagno, mi guardo nello specchio mi passo una mano sulla testa. Sono completamente calvo ma convivo con la sindrome dell’arto fantasma e accarezzo la pelle nuda come fosse una folta capigliatura.
Poi spingo la porta di casa sua e non appena entrato, ancora in piedi in mezzo alla stanza, lei comincia a raccontarmi rapidamente di come si senta immobile in questo periodo della sua vita come se niente potesse mai cambiare e bla bla bla.
Io ho la pressione bassa e la mente pigra da “appena sveglio”, avevo fatto fatica solo a spingere la polvere con la scopa e non ero pronto per una seduta di coaching.
Guardo il divano e sopra c’ è il gatto nell’ esatta posizione in cui vorrei essere io. Appena lei si gira verso la cucina, lo spingo giù con una certa energia e lui protesta con un sonoro miagolio.
La vicina gira la testa e io nel modo più vigliacco faccio finta di accarezzare il felino. Poi mi siedo.
La vicina continua a stendere strati sovrapposti di parole. Io penso a Manfredini che pochi giorni prima ci aveva invitato ad esercitarsi in ogni occasione.
La vicina mi porge poi una tazzina di caffè, ed approfitto della breve pausa in cui lei beve il suo per dirle: Posso raccontarti una storia?
Lei mi guarda perplessa.
Una storia vera. Aggiungo.
Lei mi fa di sì con la testa ed io comincio.
“Una mi amica insegna alle scuole medie e un giorno porta una classe di prima a vedere la rappresentazione teatrale del Barone rampante di Italo Calvino.
Il gruppo dei ragazzi percorre a piedi la strada dalla scuola al teatro restringendosi nei marciapiedi stretti e allargandosi nelle piazze. Arrivati a teatro la maestra conta i ragazzi che entrano, uno, due, tre, quattro..., finché ventiquattro creature non affondano nel velluto rosso delle poltroncine. A quel punto le luci si abbassano, si sente una musica che cresce e si apre il sipario. Nel mezzo c’è un albero stilizzato e sopra l’ attore.
L’attore comincia ad interpretare la storia di questo ragazzo quattordicenne, figlio di un Barone rigido ed osservante dell’ etichetta, che è a tavola con la famiglia e gli viene servito un piatto di lumache. Il piccolo barone si rifiuta di mangiarle ed il papà cerca di obbligarlo.
Lui ha schifo delle lumache e si rifiuta ancora. Il papà lo rimprovera e lui lascia la sala, scappa in giardino e si arrampica su un grosso albero.
Il papà lo raggiunge e lo minaccia e lui pronuncia una frase: “Non metterò mai più piede in terra:”
E’ giovane, ha quattordici anni, ma è un baronetto, e la sua parola è quella di un baronetto. E la manterrà, vivrà tutta la vita spostandosi di albero in albero. Ed avrà una vita soddisfacente.
All’ inizio la gente lo guarda con curiosità, ma poi gli porterà da mangiare, le persone si fermeranno sotto l’ albero per fare chiacchiere.
Fa amicizia dapprima con un ladro di frutta, poi con tante persone ed avrà anche una fidanzata “rampicante”. Ma resterà per sempre sugli alberi. Per sempre.
A quel punto la musica cala e gli attrezzisti hanno già le mani sulle corde per chiudere il sipario.
Ma qui succede una cosa imprevista. Una giovane allieva della mia amica si stacca dalla sua poltroncina e cerca a tentoni le scale di legno che portano sul palcoscenico.
La gente la segue nel più assoluto silenzio, si sentono le sue scarpette sul legno, finché non raggiunge il centro della scena. Guarda l’attore dal basso all’alto e con una voce supplichevole gli dice:
“Ma no... guarda che puoi scendere, ti ospito a casa mia, davvero, guarda che puoi scendere, davvero.”
Il pubblico segue la scena in silenzio e anche l’ attore rimane ammutolito. Ha la sua sceneggiatura da seguire, ha una bambina che lo implora di scendere.
La bambina interpreta a modo suo questo silenzio, aggiunge:
“No non ti devi preoccupare, ci parlo io con mia mamma!!”
L’ attore a quel punto scende dall’albero, prende la bambina per mano, si inchina verso il pubblico.
Applausi, qualche lacrimuccia.
Una bambina cambia il finale di una storia immutata da un secolo. “
A quel punto fisso la mia vicina che mi guarda attenta, con la tazzina del caffè vuota sollevata a mezz’aria. Non sono sicuro che abbia capito e aggiungo.
"Vedi Micaela, a volte le cose sembrano non cambiare, ma poi ci capita di sentire il richiamo giusto e tutto in un attimo può prendere una direzione diversa."
Mi sento contento, mi pare di averle evocato chiaramente una possibilità di muoversi da quella sua sensazione di immobilità.
Lei mi guarda ancora, posa la tazzina e mi dice: “Sì, però io non vivo su un albero.”
Occhio alla metafora ragazzi. Occhio.