Il quarto capitolo del saggio L’arte del Counseling. Il consiglio, la guida, la supervisione di Rollo May, è interamente dedicato al concetto di empatia. Si intitola infatti Empatia: la chiave del counseling. Con le parole scelte per questo titolo May, che è considerato il creatore della psicologia esistenzialista americana, dichiara fin da subito che egli considera l’empatia come la chiave attraverso la quale poter fare un buon lavoro di counseling.
Da una parte abbiamo il counselor e dall’altra abbiamo il cliente. Due personalità diverse che non si conoscono e che si incontrano per la prima volta. Il cliente si è rivolto ad un counselor perché sta attraversando un momento di difficoltà e ha bisogno di aiuto. Il counselor è lì per offrire questo aiuto nel miglior modo possibile.
Con un po' di immaginazione possiamo provare a metterci nei panni del cliente.
Non stiamo bene e siamo preoccupati per questo stato di malessere che ci condiziona negativamente le giornate. Desideriamo essere felici e sereni. Ci auguriamo di cuore che fare delle sessioni di counseling ci possa servire a sistemare le cose. Abbiamo aspettative e speranze. Nonostante la consapevolezza che siamo stati noi a fissare l’appuntamento con il counselor, ora che ci troviamo nel suo studio, ci sentiamo un po' in imbarazzo all’idea di dover parlare apertamente dei nostri problemi ad un estraneo. Oppure, all’opposto, ci sentiamo un fiume in piena pronto a straripare e a travolgere con il racconto della nostra vita il mal capitato. Ad ogni modo, quale che sia il nostro sentimento predominante, la paura ad aprirci o l’eccitazione per poterlo fare senza remore, siamo comunque un po' tesi. Come sarà il counselor? Simpatico? Antipatico? Professionale? Ci sentiremo a nostro agio? Ci ispirerà fiducia? E che piega prenderà questa sessione di lavoro con lui? Ci sentiremo meglio dopo? Peggio? E se non cambiasse nulla!? Siamo come un pentolone che ribolle…
Con altrettanta immaginazione possiamo provare a calarci nel ruolo di counselor.
Davanti a noi abbiamo una persona di cui non sappiamo nulla se non il nome e cognome. Non sappiamo qual è la sua età. Non sappiamo se studia e qual è il suo indirizzo di studio. Non sappiamo se lavora e qual è questo lavoro. Ignoriamo la sua condizione affettiva o economica. Non conosciamo la famiglia in cui è nata e cresciuta. L’unica cosa che possiamo dare per certa è che, se si è rivolta a noi, è perché nella sua vita c’è qualcosa che non va e che le procura sofferenza. Possiamo presupporre un misto di voglia e paura di aprirsi con noi. Intuire le comprensibili aspettative rispetto al lavoro che andremo a fare assieme. Sappiamo inoltre per esperienza che potremmo incontrare delle resistenze da parte del cliente a lavorare ai propri nodi nonostante l’iniziale volontà dichiarata di voler stare meglio. Siamo consapevoli che il lavoro di trasformazione e guarigione della personalità spetta in ultima analisi solo a lui e che noi come counselor possiamo solo dare a questo percorso un contributo valido. Siamo pieni di buona volontà e speranza e cerchiamo di tenere fuori la nostra vita privata per concentrarci solo sul cliente. Sentiamo la nostra energia interiore attivarsi per poter operare al meglio.
Questo è il punto di partenza. Come fare per far sì che questo incontro tra due sconosciuti possa essere positivo e costruttivo?
L’ingrediente principale, che dà sapore a tutta la sessione, è l’empatia. Senza empatia non c’è una reale comunicazione tra le persone. Solo l’empatia fa di una comunicazione non uno sterile e mero scambio di informazioni ma una concreta comprensione fra esseri viventi. Scrive May:
Questa è l’empatia: il sentimento o il pensiero di una personalità che entra dentro ad un’altra, fino a raggiungere uno stato di identificazione. Solo così può verificarsi una reale comprensione fra esseri umani; senza di essa, in realtà, non ne è possibile alcuna. Naturalmente, il counselor ripete questa esperienza diecine di volte al giorno, che se ne renda conto o no. L’empatia non è un processo magico, anche se misterioso e difficile da capire proprio perché così consueto e fondamentale. Come sottolinea Adler, l’identificazione di un sé con un altro ha luogo, in una certa misura, in ogni conversazione. Si tratta del processo fondamentale dell’amore. La maggior parte delle persone non si sono mai date la pena di analizzare la propria capacità di empatia, e di conseguenza la possiedono soltanto in una forma rudimentale ed embrionale.
Inoltre May allarga e arricchisce il concetto di empatia grazie alle parole dello psicoanalista Alfred Adler:
L’empatia scatta nel momento in cui un essere umano parla con un altro. È impossibile comprendere un altro individuo se al tempo stesso il nostro sé non riesce a identificarsi con lui… Se ricerchiamo l’origine di questa capacità di agire e di sentire come se fossimo qualcun altro, potremo trovarla nell’esistenza di un innato senso sociale. Si tratta, di fatto, di un sentimento cosmico e di un riflesso dell’interdipendenza dell’intero cosmo che vive in noi; si tratta di una caratteristica ineluttabile insita nel nostro essere uomini.
In inglese esiste un’espressione particolare per invitare ad immedesimarsi nell’altro che ho sempre trovato più potente rispetto a quella che comunemente usiamo noi nella lingua italiana e che fa riferimento agli abiti. Questa espressione, che dà anche il titolo ad una magnetica canzone con la quale i Depeche Mode invitano a non giudicare gli altri, è: walking in my shoes. Possiamo tradurre questo modo di dire anglosassone con prova a camminare con le mie scarpe o con mettiti le mie scarpe.
Allora, la prossima volta che qualcuno ci sta parlando di sé e della sua vita, proviamo ad indossarne le scarpe e a camminarci un po' prima di dire e fare qualsiasi cosa.
Da una parte abbiamo il counselor e dall’altra abbiamo il cliente. Due personalità diverse che non si conoscono e che si incontrano per la prima volta. Il cliente si è rivolto ad un counselor perché sta attraversando un momento di difficoltà e ha bisogno di aiuto. Il counselor è lì per offrire questo aiuto nel miglior modo possibile.
Con un po' di immaginazione possiamo provare a metterci nei panni del cliente.
Non stiamo bene e siamo preoccupati per questo stato di malessere che ci condiziona negativamente le giornate. Desideriamo essere felici e sereni. Ci auguriamo di cuore che fare delle sessioni di counseling ci possa servire a sistemare le cose. Abbiamo aspettative e speranze. Nonostante la consapevolezza che siamo stati noi a fissare l’appuntamento con il counselor, ora che ci troviamo nel suo studio, ci sentiamo un po' in imbarazzo all’idea di dover parlare apertamente dei nostri problemi ad un estraneo. Oppure, all’opposto, ci sentiamo un fiume in piena pronto a straripare e a travolgere con il racconto della nostra vita il mal capitato. Ad ogni modo, quale che sia il nostro sentimento predominante, la paura ad aprirci o l’eccitazione per poterlo fare senza remore, siamo comunque un po' tesi. Come sarà il counselor? Simpatico? Antipatico? Professionale? Ci sentiremo a nostro agio? Ci ispirerà fiducia? E che piega prenderà questa sessione di lavoro con lui? Ci sentiremo meglio dopo? Peggio? E se non cambiasse nulla!? Siamo come un pentolone che ribolle…
Con altrettanta immaginazione possiamo provare a calarci nel ruolo di counselor.
Davanti a noi abbiamo una persona di cui non sappiamo nulla se non il nome e cognome. Non sappiamo qual è la sua età. Non sappiamo se studia e qual è il suo indirizzo di studio. Non sappiamo se lavora e qual è questo lavoro. Ignoriamo la sua condizione affettiva o economica. Non conosciamo la famiglia in cui è nata e cresciuta. L’unica cosa che possiamo dare per certa è che, se si è rivolta a noi, è perché nella sua vita c’è qualcosa che non va e che le procura sofferenza. Possiamo presupporre un misto di voglia e paura di aprirsi con noi. Intuire le comprensibili aspettative rispetto al lavoro che andremo a fare assieme. Sappiamo inoltre per esperienza che potremmo incontrare delle resistenze da parte del cliente a lavorare ai propri nodi nonostante l’iniziale volontà dichiarata di voler stare meglio. Siamo consapevoli che il lavoro di trasformazione e guarigione della personalità spetta in ultima analisi solo a lui e che noi come counselor possiamo solo dare a questo percorso un contributo valido. Siamo pieni di buona volontà e speranza e cerchiamo di tenere fuori la nostra vita privata per concentrarci solo sul cliente. Sentiamo la nostra energia interiore attivarsi per poter operare al meglio.
Questo è il punto di partenza. Come fare per far sì che questo incontro tra due sconosciuti possa essere positivo e costruttivo?
L’ingrediente principale, che dà sapore a tutta la sessione, è l’empatia. Senza empatia non c’è una reale comunicazione tra le persone. Solo l’empatia fa di una comunicazione non uno sterile e mero scambio di informazioni ma una concreta comprensione fra esseri viventi. Scrive May:
Questa è l’empatia: il sentimento o il pensiero di una personalità che entra dentro ad un’altra, fino a raggiungere uno stato di identificazione. Solo così può verificarsi una reale comprensione fra esseri umani; senza di essa, in realtà, non ne è possibile alcuna. Naturalmente, il counselor ripete questa esperienza diecine di volte al giorno, che se ne renda conto o no. L’empatia non è un processo magico, anche se misterioso e difficile da capire proprio perché così consueto e fondamentale. Come sottolinea Adler, l’identificazione di un sé con un altro ha luogo, in una certa misura, in ogni conversazione. Si tratta del processo fondamentale dell’amore. La maggior parte delle persone non si sono mai date la pena di analizzare la propria capacità di empatia, e di conseguenza la possiedono soltanto in una forma rudimentale ed embrionale.
Inoltre May allarga e arricchisce il concetto di empatia grazie alle parole dello psicoanalista Alfred Adler:
L’empatia scatta nel momento in cui un essere umano parla con un altro. È impossibile comprendere un altro individuo se al tempo stesso il nostro sé non riesce a identificarsi con lui… Se ricerchiamo l’origine di questa capacità di agire e di sentire come se fossimo qualcun altro, potremo trovarla nell’esistenza di un innato senso sociale. Si tratta, di fatto, di un sentimento cosmico e di un riflesso dell’interdipendenza dell’intero cosmo che vive in noi; si tratta di una caratteristica ineluttabile insita nel nostro essere uomini.
In inglese esiste un’espressione particolare per invitare ad immedesimarsi nell’altro che ho sempre trovato più potente rispetto a quella che comunemente usiamo noi nella lingua italiana e che fa riferimento agli abiti. Questa espressione, che dà anche il titolo ad una magnetica canzone con la quale i Depeche Mode invitano a non giudicare gli altri, è: walking in my shoes. Possiamo tradurre questo modo di dire anglosassone con prova a camminare con le mie scarpe o con mettiti le mie scarpe.
Allora, la prossima volta che qualcuno ci sta parlando di sé e della sua vita, proviamo ad indossarne le scarpe e a camminarci un po' prima di dire e fare qualsiasi cosa.