A Padova si svolge ormai da anni, la Fiera delle Parole. Otto giorni di appuntamenti con la letteratura, cinema, musica, scienza, arte, giornalismo e il pensiero.
Ho avuto l’occasione di vedere un paio di interventi, in compagnia della mia compagna e di mio fratello.
Il primo intervento, tenuto da X. inizia dall’etimologia delle due parole sulle quali si centra l’intervento, entra nella storia e nella filosofia e chiude nella sfera della psicologia. Porta esempi semplici e di vita quotidiana.
Non ha come obbiettivo quello di trarre delle conclusioni, ma quello di spiegare a parole ciò che molte volte proviamo e a cui difficilmente riusciamo a dare forma.
Il secondo intervento, tenuto da Y. è di natura principalmente psicologica e sociologica, rimane per tutto il tempo nella cronaca odierna raccontando episodi che leggiamo su tutti i giornali, commentandoli e spiegando il perchè certe cose accadono.
Ma la grande differenza tra i due interventi è stata la sensazione di aver “chiuso il cerchio” nel primo intervento, mentre nel secondo di essere rimasto in sospeso a tal punto da pensare : “e quindi, ora, che si fa?”
Ne ho avuto la prova tornando a casa dopo il secondo intervento. Ho discusso con mio fratello, per tutto il tragitto, su alcune tematiche toccate. Era palese che la lettura che avevo dato io non era la stessa che aveva dato lui. Non parlo di giusto o sbagliato, ma era come se avessimo visto lo stesso paesaggio con due occhiali da sole diversi e i colori che vedevo io non erano gli stessi che vedeva lui.
A questo punto mi sono chiesto, qual’era l’intento di Y?
Qual’era l’intento comunicativo di queste due persone?
Quello di X. è stato quello di suscitare un pensiero critico a seguito di riflessioni basate sulla conoscenza e di portare all’altro quella stessa conoscenza necessaria a suscitare delle riflessioni.
L’intento comunicativo di Y. è stato quello di creare nell’altro uno sconvolgimento, metterlo “scomodo”, riportando la realtà come un fatto oggettivo, nudo e crudo, frutto di un meccanismo newtoniano di causa ed effetto non lasciando all’altro nessuno spunto metodologico in modo attivo.
E’ come se dicesse all’altro : “Ti dico cosa vedo, ti dico quali sono state le cause che hanno portato a questo e quali possono essere i pericoli di domani. Ora sta a te decidere, come e cosa fare”.
Nel “come” e nel “cosa” c’è spazio all’interpretazione, che non può essere uguale per tutti. L’interpretazione si basa sul piano della conoscenza e su quello pratico e quindi esperienziale e del sapere.
Le mie domande nascono da una premessa: penso che la maggioranza delle persone presenti (ad entrambi gli interventi) fossero lì per ascoltare quella persona parlare di quel tema specifico, che fossero predisposte all’ascolto e sensibili a queste tematiche.
In entrambi i casi le platee erano formate da ragazzi e ragazze giovani, adulti e anziani. Sicuramente ci saranno stati insegnanti, studenti, psicoterapeuti e molto altro.
Fatta questa premessa penso, come può una varietà come questa elaborare un monologo come quello di Y. in maniera ponderata e costruttiva? Possiamo interpretare un episodio, una storia, un fatto, nello stesso modo se non veniamo accompagnati nell’elaborazione di questo processo? Gli strumenti che queste persone hanno sono utili o propedeutici per un’elaborazione che possa avvicinare e non aumentare le distanze?
La differenza strutturale tra i due monologhi è stata evidente e sono consapevole che sia stato voluto.
Trovo che portare un monologo come quello di Y. ad una platea così “polarizzata” sia rischioso perché potrebbe aumentare e rendere più concrete le distanze nelle opinioni e nel pensiero collettivo.
Ho avuto l’occasione di vedere un paio di interventi, in compagnia della mia compagna e di mio fratello.
Il primo intervento, tenuto da X. inizia dall’etimologia delle due parole sulle quali si centra l’intervento, entra nella storia e nella filosofia e chiude nella sfera della psicologia. Porta esempi semplici e di vita quotidiana.
Non ha come obbiettivo quello di trarre delle conclusioni, ma quello di spiegare a parole ciò che molte volte proviamo e a cui difficilmente riusciamo a dare forma.
Il secondo intervento, tenuto da Y. è di natura principalmente psicologica e sociologica, rimane per tutto il tempo nella cronaca odierna raccontando episodi che leggiamo su tutti i giornali, commentandoli e spiegando il perchè certe cose accadono.
Ma la grande differenza tra i due interventi è stata la sensazione di aver “chiuso il cerchio” nel primo intervento, mentre nel secondo di essere rimasto in sospeso a tal punto da pensare : “e quindi, ora, che si fa?”
Ne ho avuto la prova tornando a casa dopo il secondo intervento. Ho discusso con mio fratello, per tutto il tragitto, su alcune tematiche toccate. Era palese che la lettura che avevo dato io non era la stessa che aveva dato lui. Non parlo di giusto o sbagliato, ma era come se avessimo visto lo stesso paesaggio con due occhiali da sole diversi e i colori che vedevo io non erano gli stessi che vedeva lui.
A questo punto mi sono chiesto, qual’era l’intento di Y?
Qual’era l’intento comunicativo di queste due persone?
Quello di X. è stato quello di suscitare un pensiero critico a seguito di riflessioni basate sulla conoscenza e di portare all’altro quella stessa conoscenza necessaria a suscitare delle riflessioni.
L’intento comunicativo di Y. è stato quello di creare nell’altro uno sconvolgimento, metterlo “scomodo”, riportando la realtà come un fatto oggettivo, nudo e crudo, frutto di un meccanismo newtoniano di causa ed effetto non lasciando all’altro nessuno spunto metodologico in modo attivo.
E’ come se dicesse all’altro : “Ti dico cosa vedo, ti dico quali sono state le cause che hanno portato a questo e quali possono essere i pericoli di domani. Ora sta a te decidere, come e cosa fare”.
Nel “come” e nel “cosa” c’è spazio all’interpretazione, che non può essere uguale per tutti. L’interpretazione si basa sul piano della conoscenza e su quello pratico e quindi esperienziale e del sapere.
Le mie domande nascono da una premessa: penso che la maggioranza delle persone presenti (ad entrambi gli interventi) fossero lì per ascoltare quella persona parlare di quel tema specifico, che fossero predisposte all’ascolto e sensibili a queste tematiche.
In entrambi i casi le platee erano formate da ragazzi e ragazze giovani, adulti e anziani. Sicuramente ci saranno stati insegnanti, studenti, psicoterapeuti e molto altro.
Fatta questa premessa penso, come può una varietà come questa elaborare un monologo come quello di Y. in maniera ponderata e costruttiva? Possiamo interpretare un episodio, una storia, un fatto, nello stesso modo se non veniamo accompagnati nell’elaborazione di questo processo? Gli strumenti che queste persone hanno sono utili o propedeutici per un’elaborazione che possa avvicinare e non aumentare le distanze?
La differenza strutturale tra i due monologhi è stata evidente e sono consapevole che sia stato voluto.
Trovo che portare un monologo come quello di Y. ad una platea così “polarizzata” sia rischioso perché potrebbe aumentare e rendere più concrete le distanze nelle opinioni e nel pensiero collettivo.