
Ebbene sì.
Confesso che questa notte ho continuato a girarmi e rigirami nel letto a mescolare l’insonnia.
Pensavo a quanto fosse ingiusto conservare un segreto così importante ad un gruppo indiscutibilmente generoso, composto da persone capaci di prendere pezzi di sé, intimi e profondi e portali fuori, allungare le mani e regalarli agli altri, senza paura dei giudizi, desiderosi di condividerli.
Eh sì, pensavo nel dormiveglia, devo venire allo scoperto. E’ giusto che lo faccia, è giusto che i miei compagni di viaggio conoscano il mio segreto, e per quanto terribile, verrà un momento in cui i ragazzi dovranno sapere.
E quel momento è arrivato, lo sento. E se lo faccio per iscritto è perché a parole, forse, non ci sarei mai riuscito. Vi prego di accogliermi senza giudizio. Sono fatto così.
Qualche anno fa……….
Ero appena arrivato in Africa dove ho vissuto per un paio d’anni.
Il sole quel giorno era impietoso. Lasciava scivolare il suo calore su invisibili raggi obliqui. Sudava la spazzatura abbandonata ai bordi del villaggio, sudavano i cani, i cavalli, le persone, le lamiere delle auto, i lampioni gobbi di fabbrica.
L’aria era irrespirabile, acida e cotta al vapore. L’asfalto sudava nebbia in ebollizione e scomponeva le figure in immagini dai contorni sfuocati e tutto sembrava un miraggio surrealista.
Quel giorno entro per la prima volta nel villaggio di lebbrosi in cui dovevo realizzare il mio progetto di cooperazione internazionale.
Nei corsi di formazione mi avevano avvisato del pericolo di contagio ma anche della necessità di entrare in contatto fisico con i “villagiois”. Mi avevano invitato a valutare bene il rischio, ed io avevo accettato, con qualche senso di onnipotenza, convinto a 28 anni di essere invulnerabile.
Se solo avessi conosciuto prima Daniele Trevisani, quel giorno non avrei sentito l’accelerazione brusca del mio cuore ai bordi del villaggio, se solo lo avessi conosciuto prima, avrei potuto nutrirmi delle sue arti quasi divine di coltivare l’ego e mi sarei sentito ancor più invincibile, quasi immortale. Ma purtroppo non c’era.
Così respiro profondamente ed entro nel villaggio con una certa dose d’apprensione. Mi guardo intorno: ecco…. è questa la lebbra. Penso.
Mi viene incontro un vecchio dondolante vestito con una vecchia giacca lisa regalata da chissà quale bianco di passaggio, giacca di qualche taglia più grande.
Dall’ Italia erano stati chiari. Mai rifiutare la mano ad un Africano. Se parti corri il rischio. Piuttosto resti, ma se parti parti.
Il vecchio mi arriva a distanza ed intercetto il movimento della spalla, del braccio che comincia a tendersi verso di me. E quasi a mascherare ogni timore allungo la mano ma stringo solo il tessuto abbondante della manica. Così salgo lungo l’avambraccio ma ancora solo tessuto, tessuto, tessuto.
Poi la mia mano si ferma sul moncherino, un’escrescenza di carne vicino al gomito e la stringo e il vecchio mi sorride e sorride e sorride e dice Salam Malecum, ana wua kerghi e io fermo il mio sguardo su di lui, sul suo volto stravolto dalla lebbra. Mi chiedo come può sorridere un uomo devastato dalla malattia, povero, dominato dalla sorte.
Più tardi scoprirò che la lebbra gli aveva paralizzato le labbra ritirando i muscoli sulle gengive e lasciando scoperti i denti per sempre. Come a Gwynplaine, il protagonista de “L’ uomo che ride” di Victor Hugo dove il proprietario di un circo fa crescere dei bambini in otri di vino perché possa esporre i loro corpi mostruosi al pubblico e taglia le labbra a Gwynplaine che diventa la grande attrazione del circo. L’uomo che ride.
E’ cominciato tutto da qui, e adesso che anche voi sapete, adesso posso finalmente confessarvi il mio segreto.
Ebbene sì, …. mi sento un uomo fortunato. For-tu-na-to. Ecco il mio segreto.
Vi prego, accoglietemi, non mi biasimate se non mi lamento che la temperatura in stanza è 1 grado di troppo, se il cameriere tarda un po’ ad arrivare, se quando sono uscito da casa e al posto della bici c’era un lucchetto spezzato non mi sono strappato i capelli.
Fortunato per essere nato casualmente nella parte più ricca del mondo senza averne alcun merito, dove puoi dire la tua senza essere incarcerato, dove ho qualche possibilità di essere curato se sto male, dove mangio tutti i giorni, dove c’ è il Mc Donald.
Chiunque viva in questa parte del mondo, oggi, vive meglio e più comodamente di un imperatore del 500. Non si muore per la diarrea, un viaggio con una Fiat Panda è di gran lunga più comodo di quello in carrozza del Re Sole. Sì mi sento fortunato.
Ecco, dovevo confessarlo.
Confesso che questa notte ho continuato a girarmi e rigirami nel letto a mescolare l’insonnia.
Pensavo a quanto fosse ingiusto conservare un segreto così importante ad un gruppo indiscutibilmente generoso, composto da persone capaci di prendere pezzi di sé, intimi e profondi e portali fuori, allungare le mani e regalarli agli altri, senza paura dei giudizi, desiderosi di condividerli.
Eh sì, pensavo nel dormiveglia, devo venire allo scoperto. E’ giusto che lo faccia, è giusto che i miei compagni di viaggio conoscano il mio segreto, e per quanto terribile, verrà un momento in cui i ragazzi dovranno sapere.
E quel momento è arrivato, lo sento. E se lo faccio per iscritto è perché a parole, forse, non ci sarei mai riuscito. Vi prego di accogliermi senza giudizio. Sono fatto così.
Qualche anno fa……….
Ero appena arrivato in Africa dove ho vissuto per un paio d’anni.
Il sole quel giorno era impietoso. Lasciava scivolare il suo calore su invisibili raggi obliqui. Sudava la spazzatura abbandonata ai bordi del villaggio, sudavano i cani, i cavalli, le persone, le lamiere delle auto, i lampioni gobbi di fabbrica.
L’aria era irrespirabile, acida e cotta al vapore. L’asfalto sudava nebbia in ebollizione e scomponeva le figure in immagini dai contorni sfuocati e tutto sembrava un miraggio surrealista.
Quel giorno entro per la prima volta nel villaggio di lebbrosi in cui dovevo realizzare il mio progetto di cooperazione internazionale.
Nei corsi di formazione mi avevano avvisato del pericolo di contagio ma anche della necessità di entrare in contatto fisico con i “villagiois”. Mi avevano invitato a valutare bene il rischio, ed io avevo accettato, con qualche senso di onnipotenza, convinto a 28 anni di essere invulnerabile.
Se solo avessi conosciuto prima Daniele Trevisani, quel giorno non avrei sentito l’accelerazione brusca del mio cuore ai bordi del villaggio, se solo lo avessi conosciuto prima, avrei potuto nutrirmi delle sue arti quasi divine di coltivare l’ego e mi sarei sentito ancor più invincibile, quasi immortale. Ma purtroppo non c’era.
Così respiro profondamente ed entro nel villaggio con una certa dose d’apprensione. Mi guardo intorno: ecco…. è questa la lebbra. Penso.
Mi viene incontro un vecchio dondolante vestito con una vecchia giacca lisa regalata da chissà quale bianco di passaggio, giacca di qualche taglia più grande.
Dall’ Italia erano stati chiari. Mai rifiutare la mano ad un Africano. Se parti corri il rischio. Piuttosto resti, ma se parti parti.
Il vecchio mi arriva a distanza ed intercetto il movimento della spalla, del braccio che comincia a tendersi verso di me. E quasi a mascherare ogni timore allungo la mano ma stringo solo il tessuto abbondante della manica. Così salgo lungo l’avambraccio ma ancora solo tessuto, tessuto, tessuto.
Poi la mia mano si ferma sul moncherino, un’escrescenza di carne vicino al gomito e la stringo e il vecchio mi sorride e sorride e sorride e dice Salam Malecum, ana wua kerghi e io fermo il mio sguardo su di lui, sul suo volto stravolto dalla lebbra. Mi chiedo come può sorridere un uomo devastato dalla malattia, povero, dominato dalla sorte.
Più tardi scoprirò che la lebbra gli aveva paralizzato le labbra ritirando i muscoli sulle gengive e lasciando scoperti i denti per sempre. Come a Gwynplaine, il protagonista de “L’ uomo che ride” di Victor Hugo dove il proprietario di un circo fa crescere dei bambini in otri di vino perché possa esporre i loro corpi mostruosi al pubblico e taglia le labbra a Gwynplaine che diventa la grande attrazione del circo. L’uomo che ride.
E’ cominciato tutto da qui, e adesso che anche voi sapete, adesso posso finalmente confessarvi il mio segreto.
Ebbene sì, …. mi sento un uomo fortunato. For-tu-na-to. Ecco il mio segreto.
Vi prego, accoglietemi, non mi biasimate se non mi lamento che la temperatura in stanza è 1 grado di troppo, se il cameriere tarda un po’ ad arrivare, se quando sono uscito da casa e al posto della bici c’era un lucchetto spezzato non mi sono strappato i capelli.
Fortunato per essere nato casualmente nella parte più ricca del mondo senza averne alcun merito, dove puoi dire la tua senza essere incarcerato, dove ho qualche possibilità di essere curato se sto male, dove mangio tutti i giorni, dove c’ è il Mc Donald.
Chiunque viva in questa parte del mondo, oggi, vive meglio e più comodamente di un imperatore del 500. Non si muore per la diarrea, un viaggio con una Fiat Panda è di gran lunga più comodo di quello in carrozza del Re Sole. Sì mi sento fortunato.
Ecco, dovevo confessarlo.