“Lo sputtanamento è la madre del cambiamento” ci diceva un saggio maestro di PNL. Perdonate l’espressione volgare ma credo sia efficace per rimarcare uno dei presupposti fondamentali del cambiamento, cioè mettersi in gioco narrando se stessi, i propri problemi, bisogni, dolore..
Il primo passo da compiere è certamente la consapevolezza del sintomo/problema. E poi?? Potremmo rosolarci a fuoco lento con il nostro problema/sintomo e costruirci infinite strutture psicologiche e comportamentali.. A volte funzionano.. miglioriamo, ci adattiamo, superiamo il disagio.. Altre volte non funzionano e si rende necessario un passo successivo: “lo sputtanamento”, appunto. Cerchiamo l’ALTRO, che sia un familiare, un amico o un professionista, la sostanza non cambia. La Relazione già di per sé, in particolare la comunicazione diretta interpersonale, ha una grande valenza di apertura e cambiamento di prospettiva. Credo sia una esperienza ampiamente condivisa, l’effetto positivo che qualsiasi relazione ci può donare, anche una semplice conversazione con un amico. Sarà l’empatia, sarà la condivisione del problema/sintomo, saranno le risposte ottenute, sarà la consapevolezza di aver iniziato un percorso di cambiamento. Sarà tutto questo ed altro ancora, la RELAZIONE generalmente ci porta ad un primo significativo passo verso il cambiamento e/o la guarigione. Naturalmente più il sintomo/problema è profondo ed invalidante più assume centralità la sua NARRAZIONE. Questo risulta ancora più pregnante nella pratica medica (almeno nella medicina tradizionale occidentale), dove il percorso clinico parte dalla raccolta anamnestica familiare, fisiologica e patologica del paziente per reperire i dati clinici relativi al sintomo/i dichiarati. Precisiamo il significato di ANAMNESI che deriva dal greco “Ricordo”. In particolare in Medicina (da Wikipedia): ”Anamnesi .. E’ il primo dei processi utilizzati nella fase analitica del processo diagnostico. E’ la raccolta dalla voce diretta del paziente e/o dei suoi familiari, di tutte le informazioni, notizie e sensazioni… “. Tra le informazioni raccolte dal paziente i SINTOMI rappresentano la parte centrale dell’anamnesi, da cui dirigere sia il processo di approfondimento diagnostico sia un primo approccio terapeutico farmacologico e/o psicologico. Nella mia esperienza professionale come medico ho (quasi) sempre dato per scontato la capacità di ottenere informazioni dettagliate ed esaurienti o almeno sufficienti per abbozzare comunque un piano diagnostico-terapeutico. Non ho (quasi) mai dubitato delle mie analisi e nella mancanza di sufficienti dati clinici del mio intuito.. E’ capitato di rado di non riuscire a definire il sintomo/i in maniera convincente ma nel caso con una operazione logica di chunck up, credevo di essere sempre riuscito a codificarlo in un preciso ambito clinico, per esempio partendo grossolanamente dalle categorie: disturbo psichico o disturbo neurologico o disturbo misto (psicosomatico).. Soprattutto il feedback ottenuto a fine visita dal paziente è stato quasi sempre positivo, nel senso di un riconoscimento, da parte del paziente, della mia analisi clinica in relazione alla sintomatologia e lo stato psicofisico associato.
Poi ho incontrato, sulla via di Damasco, Daniele Trevisani. La sua insistenza sull’argomento, l’incomunicabilità del sintomo, inizialmente mi ha un pò infastidito, poi mi ha fiaccato .. ed infine mi ha convinto. Mi sono reso conto che si tratta di un argomento centrale nella pratica medica.. E mi sono reso conto delle volte che avevo più o meno inconsapevolmente “aggiustato” le interpretazioni clinico-diagnostiche e ancor più crudemente delle (rare?) volte che non ho accolto il mancato riconoscimento del paziente riguardo la mia ipotesi clinica.. Ho riconsiderato anche le volte che un paziente non si è presentato ad una visita di controllo includendo la possibilità di non avere riconosciuto il sintomo e/o di non avere accolto il feedback del paziente.
Naturalmente sono tutte riflessioni ipotetiche, realistiche, ma non provate aldilà di ogni ragionevole dubbio. Mi stavo facendo suggestionare dal carisma di Daniele? Dalla revisione dubbiosa del mio operato? Dalla volontà implicita di trovare nuovo interesse e sviluppo nella pratica professionale e nel coaching?? Avevo bisogno di una controprova..
In particolare sentivo il bisogno di un cambiamento di prospettiva.. passare dalla posizione di medico-terapeuta alla posizione di paziente-cliente. Avevo un sintomo che non riuscivo a comunicare, almeno quanto vorrei? Certo che si! Ce l’ho!! Mi perseguita da oltre un anno e mezzo, senza tregua.. il PRURITO. Ahi ahi che dolor.. E’ una sorta di “maledizione”, imprevedibile, fluttuante, debilitante.. associato a lievi manifestazioni cutanee temporanee. Per non parlare del compulsivo bisogno di grattamento, che si manifesta nelle situazioni e nei modi più disparati... Il problema in relazione al prurito parte dalla constatazione che i medici che ho consultato non ponevano molta attenzione al sintomo e addirittura alcuni di loro guardavano (assai) velocemente la pelle dove usualmente si generava.. Mi rendevo conto che la mia narrazione veniva generalmente sottostimata e nella migliore delle ipotesi approssimata ad un generico stato di malessere-fastidio-dolore localizzato sulla pelle. Il sintomo veniva schiacciato dalla diagnosi di “Eczema cronico”, dove il “cronico” sta, più o meno esplicitamente per “caro Vincenzo, questo problema te lo terrai per sempre!”. Mi rendevo altresì conto di quanto sia effettivamente difficile definire il prurito in maniera precisa (dolore, bruciore, fastidio, tensione.. ??) e soprattutto comunicare lo stato psichico associato di prostrazione, afflizione e scoraggiamento..
La convinzione di non essere pienamente “ascoltato” mi portava ad una strisciante sfiducia nei confronti dei colleghi e della terapia proposta e ancora più in profondità alla convinzione di essere “solo” ad affrontare il sintomo, “abbandonato” dai medici (e dai familiari ed amici.. ormai stanchi delle ripetute lamentele..). E’ in quel momento preciso, in cui mi rendevo conto dell’incomunicabilità del sintomo e del conseguente disagio psicologico, che iniziavano a manifestarsi pensieri e comportamenti pessimisti, evitanti e depressivi.. “Non ne uscirò mai”, “E’ una dannazione, una condanna”, “Non c’è cura”.. Almeno fino ad oggi. Oggi che l’ho raccontato a Voi e a me stesso.
Grazie Daniele e Lorenzo per questa opportunità.
Il primo passo da compiere è certamente la consapevolezza del sintomo/problema. E poi?? Potremmo rosolarci a fuoco lento con il nostro problema/sintomo e costruirci infinite strutture psicologiche e comportamentali.. A volte funzionano.. miglioriamo, ci adattiamo, superiamo il disagio.. Altre volte non funzionano e si rende necessario un passo successivo: “lo sputtanamento”, appunto. Cerchiamo l’ALTRO, che sia un familiare, un amico o un professionista, la sostanza non cambia. La Relazione già di per sé, in particolare la comunicazione diretta interpersonale, ha una grande valenza di apertura e cambiamento di prospettiva. Credo sia una esperienza ampiamente condivisa, l’effetto positivo che qualsiasi relazione ci può donare, anche una semplice conversazione con un amico. Sarà l’empatia, sarà la condivisione del problema/sintomo, saranno le risposte ottenute, sarà la consapevolezza di aver iniziato un percorso di cambiamento. Sarà tutto questo ed altro ancora, la RELAZIONE generalmente ci porta ad un primo significativo passo verso il cambiamento e/o la guarigione. Naturalmente più il sintomo/problema è profondo ed invalidante più assume centralità la sua NARRAZIONE. Questo risulta ancora più pregnante nella pratica medica (almeno nella medicina tradizionale occidentale), dove il percorso clinico parte dalla raccolta anamnestica familiare, fisiologica e patologica del paziente per reperire i dati clinici relativi al sintomo/i dichiarati. Precisiamo il significato di ANAMNESI che deriva dal greco “Ricordo”. In particolare in Medicina (da Wikipedia): ”Anamnesi .. E’ il primo dei processi utilizzati nella fase analitica del processo diagnostico. E’ la raccolta dalla voce diretta del paziente e/o dei suoi familiari, di tutte le informazioni, notizie e sensazioni… “. Tra le informazioni raccolte dal paziente i SINTOMI rappresentano la parte centrale dell’anamnesi, da cui dirigere sia il processo di approfondimento diagnostico sia un primo approccio terapeutico farmacologico e/o psicologico. Nella mia esperienza professionale come medico ho (quasi) sempre dato per scontato la capacità di ottenere informazioni dettagliate ed esaurienti o almeno sufficienti per abbozzare comunque un piano diagnostico-terapeutico. Non ho (quasi) mai dubitato delle mie analisi e nella mancanza di sufficienti dati clinici del mio intuito.. E’ capitato di rado di non riuscire a definire il sintomo/i in maniera convincente ma nel caso con una operazione logica di chunck up, credevo di essere sempre riuscito a codificarlo in un preciso ambito clinico, per esempio partendo grossolanamente dalle categorie: disturbo psichico o disturbo neurologico o disturbo misto (psicosomatico).. Soprattutto il feedback ottenuto a fine visita dal paziente è stato quasi sempre positivo, nel senso di un riconoscimento, da parte del paziente, della mia analisi clinica in relazione alla sintomatologia e lo stato psicofisico associato.
Poi ho incontrato, sulla via di Damasco, Daniele Trevisani. La sua insistenza sull’argomento, l’incomunicabilità del sintomo, inizialmente mi ha un pò infastidito, poi mi ha fiaccato .. ed infine mi ha convinto. Mi sono reso conto che si tratta di un argomento centrale nella pratica medica.. E mi sono reso conto delle volte che avevo più o meno inconsapevolmente “aggiustato” le interpretazioni clinico-diagnostiche e ancor più crudemente delle (rare?) volte che non ho accolto il mancato riconoscimento del paziente riguardo la mia ipotesi clinica.. Ho riconsiderato anche le volte che un paziente non si è presentato ad una visita di controllo includendo la possibilità di non avere riconosciuto il sintomo e/o di non avere accolto il feedback del paziente.
Naturalmente sono tutte riflessioni ipotetiche, realistiche, ma non provate aldilà di ogni ragionevole dubbio. Mi stavo facendo suggestionare dal carisma di Daniele? Dalla revisione dubbiosa del mio operato? Dalla volontà implicita di trovare nuovo interesse e sviluppo nella pratica professionale e nel coaching?? Avevo bisogno di una controprova..
In particolare sentivo il bisogno di un cambiamento di prospettiva.. passare dalla posizione di medico-terapeuta alla posizione di paziente-cliente. Avevo un sintomo che non riuscivo a comunicare, almeno quanto vorrei? Certo che si! Ce l’ho!! Mi perseguita da oltre un anno e mezzo, senza tregua.. il PRURITO. Ahi ahi che dolor.. E’ una sorta di “maledizione”, imprevedibile, fluttuante, debilitante.. associato a lievi manifestazioni cutanee temporanee. Per non parlare del compulsivo bisogno di grattamento, che si manifesta nelle situazioni e nei modi più disparati... Il problema in relazione al prurito parte dalla constatazione che i medici che ho consultato non ponevano molta attenzione al sintomo e addirittura alcuni di loro guardavano (assai) velocemente la pelle dove usualmente si generava.. Mi rendevo conto che la mia narrazione veniva generalmente sottostimata e nella migliore delle ipotesi approssimata ad un generico stato di malessere-fastidio-dolore localizzato sulla pelle. Il sintomo veniva schiacciato dalla diagnosi di “Eczema cronico”, dove il “cronico” sta, più o meno esplicitamente per “caro Vincenzo, questo problema te lo terrai per sempre!”. Mi rendevo altresì conto di quanto sia effettivamente difficile definire il prurito in maniera precisa (dolore, bruciore, fastidio, tensione.. ??) e soprattutto comunicare lo stato psichico associato di prostrazione, afflizione e scoraggiamento..
La convinzione di non essere pienamente “ascoltato” mi portava ad una strisciante sfiducia nei confronti dei colleghi e della terapia proposta e ancora più in profondità alla convinzione di essere “solo” ad affrontare il sintomo, “abbandonato” dai medici (e dai familiari ed amici.. ormai stanchi delle ripetute lamentele..). E’ in quel momento preciso, in cui mi rendevo conto dell’incomunicabilità del sintomo e del conseguente disagio psicologico, che iniziavano a manifestarsi pensieri e comportamenti pessimisti, evitanti e depressivi.. “Non ne uscirò mai”, “E’ una dannazione, una condanna”, “Non c’è cura”.. Almeno fino ad oggi. Oggi che l’ho raccontato a Voi e a me stesso.
Grazie Daniele e Lorenzo per questa opportunità.