Il termine «conflitto» viene spesso utilizzato come un contenitore generale, quasi rappresentasse una parola-scatola che ne racchiude molte altre, anche di significato completamente diverso.
Nella cultura italiana, sempre più condizionata dagli strumenti mediatici, il termine conflitto presenta infatti uno spettro di significato molto ampio, che va dalla semplice discussione fino alla guerra, passando per il litigio, il contrasto e la prepotenza.
Ci troviamo, evidentemente, davanti ad una clamorosa confusione semantica, che invece non è presente nella lingua inglese, in cui appare netta la distinzione tra i termini guerra e conflitto. Precisamente, in inglese, con il termine war si intende: «period of fighting between countries or states when weapons are used and lots of people get killed»; mentre il termine conflict sta per «serious disagreement and argument about something important».
La lingua italiana fatica, pertanto, a considerare un’area intermedia fondata sulla compresenza di relazione e contrasto. E’ come se la cultura, basata sulla dimensione dell’appartenenza onnicomprensiva alla famiglia, stentasse a cogliere come l’armonia sia in realtà l’esito di un processo complesso, che include l’elemento dialettico del confronto, al limite anche dello scontro, per mantenere in equilibrio un sistema relazionale. Del resto, anche nella mitologia greca la dea Armonia era figlia di Marte e di Venere; l’armonia, infatti, non deriva solo dalla bellezza, ma anche dalla dimensione del contrasto e della conflittualità.
La paura, quindi, nasce dalla visione della differenza come componente minacciosa della relazione, che occorre esorcizzare con elementi distruttivi legati alla violenza. In realtà, esiste un preciso ambito esperienziale che attiene alla violenza ed un altro ambito che è proprio del conflitto. Per un utilizzo preciso della parola «conflitto», quindi, non si può prescindere da una corretta definizione semantica riguardo a ciò che intendiamo comunicare con lo stesso termine.
Certamente, per sua stessa natura, il conflitto è un’esperienza dolorosa, portatrice di disagio, ma quello che emerge, ovvero ciò che è visibile di un conflitto corrisponde solo alla sua superficie. Quello che non si vede, invece, corrisponde ai motivi nascosti e, quindi, alle vere ragioni per cui si confligge.
In genere, affrontiamo i conflitti per affrontare il disagio che questi comportano, adottando strategie che allontanino rapidamente dalla sofferenza che proviamo. Tali strategie, però, si traducono spesso in atteggiamenti che ci convincono della giustezza della nostra posizione contro quella del nostro contendente, il quale a sua volta farà la stessa cosa, dando vita ad una danza di difese, attacchi e contrattacchi, che così alimenteranno i problemi ed il disagio.
Queste dinamiche ci costringono a rimanere «intrappolati » sulla superficie del conflitto, dove ognuno alimenterà la sua percezione dei motivi del contrasto, percezione che, tuttavia, è per sua stessa natura parziale, in quanto dipende dalle prospettive che assumiamo per osservare la realtà conflittuale. La conseguenza è che non riusciamo a «vedere» le vere motivazioni del conflitto e, quindi, a far emergere i punti di vista in esso nascosti, e cioè quelli che ci chiariscono le necessità, i bisogni, i desideri, le aspettative, le percezioni, i problemi di comunicazione, i timori e, soprattutto, i veri interessi delle persone.
Nella cultura italiana, sempre più condizionata dagli strumenti mediatici, il termine conflitto presenta infatti uno spettro di significato molto ampio, che va dalla semplice discussione fino alla guerra, passando per il litigio, il contrasto e la prepotenza.
Ci troviamo, evidentemente, davanti ad una clamorosa confusione semantica, che invece non è presente nella lingua inglese, in cui appare netta la distinzione tra i termini guerra e conflitto. Precisamente, in inglese, con il termine war si intende: «period of fighting between countries or states when weapons are used and lots of people get killed»; mentre il termine conflict sta per «serious disagreement and argument about something important».
La lingua italiana fatica, pertanto, a considerare un’area intermedia fondata sulla compresenza di relazione e contrasto. E’ come se la cultura, basata sulla dimensione dell’appartenenza onnicomprensiva alla famiglia, stentasse a cogliere come l’armonia sia in realtà l’esito di un processo complesso, che include l’elemento dialettico del confronto, al limite anche dello scontro, per mantenere in equilibrio un sistema relazionale. Del resto, anche nella mitologia greca la dea Armonia era figlia di Marte e di Venere; l’armonia, infatti, non deriva solo dalla bellezza, ma anche dalla dimensione del contrasto e della conflittualità.
La paura, quindi, nasce dalla visione della differenza come componente minacciosa della relazione, che occorre esorcizzare con elementi distruttivi legati alla violenza. In realtà, esiste un preciso ambito esperienziale che attiene alla violenza ed un altro ambito che è proprio del conflitto. Per un utilizzo preciso della parola «conflitto», quindi, non si può prescindere da una corretta definizione semantica riguardo a ciò che intendiamo comunicare con lo stesso termine.
Certamente, per sua stessa natura, il conflitto è un’esperienza dolorosa, portatrice di disagio, ma quello che emerge, ovvero ciò che è visibile di un conflitto corrisponde solo alla sua superficie. Quello che non si vede, invece, corrisponde ai motivi nascosti e, quindi, alle vere ragioni per cui si confligge.
In genere, affrontiamo i conflitti per affrontare il disagio che questi comportano, adottando strategie che allontanino rapidamente dalla sofferenza che proviamo. Tali strategie, però, si traducono spesso in atteggiamenti che ci convincono della giustezza della nostra posizione contro quella del nostro contendente, il quale a sua volta farà la stessa cosa, dando vita ad una danza di difese, attacchi e contrattacchi, che così alimenteranno i problemi ed il disagio.
Queste dinamiche ci costringono a rimanere «intrappolati » sulla superficie del conflitto, dove ognuno alimenterà la sua percezione dei motivi del contrasto, percezione che, tuttavia, è per sua stessa natura parziale, in quanto dipende dalle prospettive che assumiamo per osservare la realtà conflittuale. La conseguenza è che non riusciamo a «vedere» le vere motivazioni del conflitto e, quindi, a far emergere i punti di vista in esso nascosti, e cioè quelli che ci chiariscono le necessità, i bisogni, i desideri, le aspettative, le percezioni, i problemi di comunicazione, i timori e, soprattutto, i veri interessi delle persone.