In Italia lo sport più seguito è il calcio. Qualsiasi italiano amante di questo sport si sente competente e informato su cosa succede settimanalmente sui campi di calcio nazionali, seguendo non solo la squadra del cuore ma il campionato in genere. Ultimamente ho avuto modo di vedere quello che viene definito un big match tra due formazioni molto seguite nel panorama italiano. La cosa che mi colpisce sempre nell’ascoltare le interviste a fine partite, è come in modo sistematico l’allenatore che esce sconfitto dal confronto, imputi agli arbitri i motivi della propria sconfitta. Spesso sono cavilli di lana caprina, ma sufficienti per indicare come capro espiatorio l’arbitro di turno.
Un allenatore molto famoso di volley, Julio Velasco, ha coniato un’espressione molto significativa per spiegare come certi giocatori si giustifichino sempre rispetto ai propri errori, trovando motivazioni che non riguardano loro in prima persona, definendo questo atteggiamento la cultura dell’alibi. Potrei dire che parallelamente molti allenatori di calcio si comportino nella medesima maniera.
Ascoltando alcune interviste mi sono posto la domanda se questo in fondo non sia qualcosa che riguardi l’animo umano, cioè trovare in altre situazioni persone e fatti in genere, le risposte più o meno veritiere a conforto e a sostegno delle proprie tesi. In effetti a seconda della latitudine in cui siamo, possiamo vedere e giudicare un fatto in un modo piuttosto che in un altro. Ad esempio se una medesima situazione ci riguarda in prima persona o siamo stati solamente testimoni dell’accaduto, il nostro giudizio in merito cambierà a seconda del nostro coinvolgimento, oppure se pur vivendo la situazione da testimoni ciò coinvolge una persona cara o meno. Insomma ogni situazione può far cambiare la nostra percezione del problema in una maniera o nel suo esatto contrario e di conseguenza il nostro giudizio si plasmerà coerentemente.
Questa modalità, senza entrare in questioni sociologiche, pone l’accento a mio avviso, su quello che definirei il senso di responsabilità personale. Assumersi la responsabilità delle proprie azioni non è una cosa banale, richiede molta fatica da parte nostra.
Un coach o un counselor deve a mio avviso essere capace di sottolineare questo aspetto, non tanto per puntare il dito su mancanze o colpe del proprio cliente, il che sarebbe contro producente e non sposerebbe il ruolo di aiuto e sostegno alla persona, ma per veicolare sul piano razionale, cognitivo ed esperienziale il cliente stesso, provando a fargli vedere la situazione da lui portata da altre angolature. Questo non deve essere lo strumento con cui giudicare la persona che si ha davanti, perché una delle cose più importanti nella relazione d’aiuto è sospendere il proprio giudizio e creare quel clima di empatia funzionale alla relazione, cercando di far partire un processo verso la soluzione del problema, facilitando il cliente in un processo di crescita che parta da se stesso, senza aspettarsi che qualcun altro o qualcos’altro lo aiuti. Essere al centro del proprio mondo e capire di esserlo è importante in una visione di autostima, ma credo sia altrettanto importante vedersi come un essere vivente che può permettersi di sbagliare, perché riconoscere i propri sbagli e i propri limiti aiuta a migliorarsi attraverso le proprie risorse e capacita. La ricerca della perfezione è utopistica, ma la strada alla crescita personale passa attraverso le esperienze, spesso negative.
Da coach o da counselor il sostegno alla presa di coscienza di un aspetto della vita del cliente può aiutare il cliente stesso a trasformare la catena in una risorsa, un alibi in un’assunzione di responsabilità, non per assumersi delle colpe ma per accettare e accettarsi per quello che si è arrivando a dirsi: io sono anche questo e va bene così.
Un allenatore molto famoso di volley, Julio Velasco, ha coniato un’espressione molto significativa per spiegare come certi giocatori si giustifichino sempre rispetto ai propri errori, trovando motivazioni che non riguardano loro in prima persona, definendo questo atteggiamento la cultura dell’alibi. Potrei dire che parallelamente molti allenatori di calcio si comportino nella medesima maniera.
Ascoltando alcune interviste mi sono posto la domanda se questo in fondo non sia qualcosa che riguardi l’animo umano, cioè trovare in altre situazioni persone e fatti in genere, le risposte più o meno veritiere a conforto e a sostegno delle proprie tesi. In effetti a seconda della latitudine in cui siamo, possiamo vedere e giudicare un fatto in un modo piuttosto che in un altro. Ad esempio se una medesima situazione ci riguarda in prima persona o siamo stati solamente testimoni dell’accaduto, il nostro giudizio in merito cambierà a seconda del nostro coinvolgimento, oppure se pur vivendo la situazione da testimoni ciò coinvolge una persona cara o meno. Insomma ogni situazione può far cambiare la nostra percezione del problema in una maniera o nel suo esatto contrario e di conseguenza il nostro giudizio si plasmerà coerentemente.
Questa modalità, senza entrare in questioni sociologiche, pone l’accento a mio avviso, su quello che definirei il senso di responsabilità personale. Assumersi la responsabilità delle proprie azioni non è una cosa banale, richiede molta fatica da parte nostra.
Un coach o un counselor deve a mio avviso essere capace di sottolineare questo aspetto, non tanto per puntare il dito su mancanze o colpe del proprio cliente, il che sarebbe contro producente e non sposerebbe il ruolo di aiuto e sostegno alla persona, ma per veicolare sul piano razionale, cognitivo ed esperienziale il cliente stesso, provando a fargli vedere la situazione da lui portata da altre angolature. Questo non deve essere lo strumento con cui giudicare la persona che si ha davanti, perché una delle cose più importanti nella relazione d’aiuto è sospendere il proprio giudizio e creare quel clima di empatia funzionale alla relazione, cercando di far partire un processo verso la soluzione del problema, facilitando il cliente in un processo di crescita che parta da se stesso, senza aspettarsi che qualcun altro o qualcos’altro lo aiuti. Essere al centro del proprio mondo e capire di esserlo è importante in una visione di autostima, ma credo sia altrettanto importante vedersi come un essere vivente che può permettersi di sbagliare, perché riconoscere i propri sbagli e i propri limiti aiuta a migliorarsi attraverso le proprie risorse e capacita. La ricerca della perfezione è utopistica, ma la strada alla crescita personale passa attraverso le esperienze, spesso negative.
Da coach o da counselor il sostegno alla presa di coscienza di un aspetto della vita del cliente può aiutare il cliente stesso a trasformare la catena in una risorsa, un alibi in un’assunzione di responsabilità, non per assumersi delle colpe ma per accettare e accettarsi per quello che si è arrivando a dirsi: io sono anche questo e va bene così.