Un alimentatore serve a far funzionare con l'energia elettrica di rete tutte quelle apparecchiature, tipo il nostro inseparabile cellulare, che non possono essere collegate direttamente alla presa a 220V, ma necessitano di una tensione diversa, in genere molto più bassa, simile a quella fornita dalle pile, quindi funzionano sostanzialmente come dei "riduttori di corrente", per fare funzionare in modo corretto l'apparecchiatura, altrimenti si danneggerebbe.
E noi non vorremmo mai vedere fondere il nostro caro (in tutti i sensi) cellulare! Guai! Un vero peccato!
Ed allora abbiamo il nostro cavetto con il riduttore di corrente sempre pronto per la ricarica della batteria.
La nostra energia non è poi molto diversa...spesso siamo dei veri e propri “accumulatori” di dati esterni: emozioni, tensioni, pensieri, problemi, ecc... che molte volte ci danneggiano, aumentano la nostra soglia di stress e poi ci sentiamo scarichi di energia e sentiamo il bisogno di qualcosa per ricaricarci.
Ed allora perché non dotarci anche noi, come il nostro cellulare ha il riduttore di corrente, di un immaginario "riduttore di complessità"?
Vedere ogni piccolo ostacolo, incongruenza, problematica che si presenta a noi, come un macigno insormontabile è un fattore che ci indebolisce e ci debilita con il tempo, ci fa gestire male la nostra energia vitale, è come se noi facessimo passare la corrente a 220V senza trasformarla prima a 9V! Rischiamo di fonderci!
Come dice Paul Watzlawick, psicologo e filosofo austriaco, padre della Terapia Breve Strategica, una soluzione dev’essere più semplice del problema a cui si riferisce, altrimenti diventa un’ipersoluzione che invece di eliminare il problema lo conserva e spesso lo aggrava.
E qui ci torna utile il concetto importantissimo del "variety reducer", vale a dire del "riduttore di complessità": se vogliamo in qualche modo cambiare una situazione esistente di una certa complessità, l'errore più grave sarebbe di credere che solo una strategia risolutiva di uguale complessità possa apportare un cambiamento con un effetto positivo.
Un esempio di riduttore di complessità, per tornare a degli esempi metaforici reali, potrebbe essere il termostato. In ogni casa moderna ce n'e uno: una cosa semplicissima, in un'epoca elettronica, ma questa piccola scatola sul muro non ha studiato meteorologia, ma non fa altro che reagire alla discrepanza tra la temperatura desiderata e la temperatura attuale nella casa, tramite appositi sensori. Semplicemente svolge la sua funzione richiesta.
Chi si occupa della soluzione di problemi nei sistemi complessi, si trova sempre davanti a questa necessità: trovare una soluzione che sia semplice e che pure faccia fronte all'enorme complessità.
Il problema è un micromondo, in quanto non tiene conto di tutti gli elementi, ma solo di quelli funzionali alla rappresentazione di una certa situazione reale. Esso innesca un processo di ricerca con lo scopo di arrivare ad una soluzione.
Il processo parte dal riconoscimento di una situazione irrisolta, dalla definizione dei termini del problema, dalla corretta formulazione della domanda (problem setting). La domanda viene posta alla persona o al gruppo di persone che deve risolvere il problema, quindi i solutori si mettono al lavoro e formulano le loro ipotesi risolutive. Da queste, spesso nasce l’esigenza di porsi nuovi problemi, in un processo più ampio di ricerca e di miglioramento.
Il problema allora, attraverso l'analisi, diventa lui stesso un riduttore di complessità, perché da un insieme di infinite variabili, si scelgono solo alcuni elementi da prendere in considerazione per arrivare ad una soluzione possibile ed accettabile. Tutta la nostra comunicazione, i nostri rapporti, le nostre azioni si potrebbero basare su riduttori di complessità, come modelli, giochi, rappresentazioni, linguaggi appropriati, strategie personali efficaci.
Quando invece un problema ci pone in uno stato di agitazione senza definirlo non troviamo soluzioni.
Ci sono anche problemi che non possono essere risolti perché sono al di là dei nostri limiti umani, come ad esempio i problemi metafisici (che cosa sarà di noi dopo la morte, o perché c'è il dolore, o perché è stato creato l'universo, ecc...), sono interrogativi che ci possiamo porre, ma sappiamo già in partenza che non avranno risposta, se non quella alla quale vorremo credere.
I problemi che non possono essere risolti possono essere dissolti, nel senso che non vanno affrontati come problemi, ma ad esempio come immagini, sogni, incubi, illusioni da dissolvere. Dissolvere i falsi problemi significa poter dedicare tutte le energie a risolvere i problemi alla nostra portata.
Dissolvere un problema significa dimostrare che non è un problema, significa sottoporre il suo enunciato ad un processo di analisi per controllare se si tratta di un problema risolvibile o no.
Eludere un problema è evitarlo, non prenderlo in considerazione, mentre dissolvere un problema vuol dire delegittimarlo, non riconoscerlo come problema.
Non è tanto importante la realtà delle cose, ma la percezione personale che se ne ha.
“La credenza che la realtà che ognuno vede sia l'unica realtà è la più pericolosa di tutte le illusioni” - Paul Watzlawick
E noi non vorremmo mai vedere fondere il nostro caro (in tutti i sensi) cellulare! Guai! Un vero peccato!
Ed allora abbiamo il nostro cavetto con il riduttore di corrente sempre pronto per la ricarica della batteria.
La nostra energia non è poi molto diversa...spesso siamo dei veri e propri “accumulatori” di dati esterni: emozioni, tensioni, pensieri, problemi, ecc... che molte volte ci danneggiano, aumentano la nostra soglia di stress e poi ci sentiamo scarichi di energia e sentiamo il bisogno di qualcosa per ricaricarci.
Ed allora perché non dotarci anche noi, come il nostro cellulare ha il riduttore di corrente, di un immaginario "riduttore di complessità"?
Vedere ogni piccolo ostacolo, incongruenza, problematica che si presenta a noi, come un macigno insormontabile è un fattore che ci indebolisce e ci debilita con il tempo, ci fa gestire male la nostra energia vitale, è come se noi facessimo passare la corrente a 220V senza trasformarla prima a 9V! Rischiamo di fonderci!
Come dice Paul Watzlawick, psicologo e filosofo austriaco, padre della Terapia Breve Strategica, una soluzione dev’essere più semplice del problema a cui si riferisce, altrimenti diventa un’ipersoluzione che invece di eliminare il problema lo conserva e spesso lo aggrava.
E qui ci torna utile il concetto importantissimo del "variety reducer", vale a dire del "riduttore di complessità": se vogliamo in qualche modo cambiare una situazione esistente di una certa complessità, l'errore più grave sarebbe di credere che solo una strategia risolutiva di uguale complessità possa apportare un cambiamento con un effetto positivo.
Un esempio di riduttore di complessità, per tornare a degli esempi metaforici reali, potrebbe essere il termostato. In ogni casa moderna ce n'e uno: una cosa semplicissima, in un'epoca elettronica, ma questa piccola scatola sul muro non ha studiato meteorologia, ma non fa altro che reagire alla discrepanza tra la temperatura desiderata e la temperatura attuale nella casa, tramite appositi sensori. Semplicemente svolge la sua funzione richiesta.
Chi si occupa della soluzione di problemi nei sistemi complessi, si trova sempre davanti a questa necessità: trovare una soluzione che sia semplice e che pure faccia fronte all'enorme complessità.
Il problema è un micromondo, in quanto non tiene conto di tutti gli elementi, ma solo di quelli funzionali alla rappresentazione di una certa situazione reale. Esso innesca un processo di ricerca con lo scopo di arrivare ad una soluzione.
Il processo parte dal riconoscimento di una situazione irrisolta, dalla definizione dei termini del problema, dalla corretta formulazione della domanda (problem setting). La domanda viene posta alla persona o al gruppo di persone che deve risolvere il problema, quindi i solutori si mettono al lavoro e formulano le loro ipotesi risolutive. Da queste, spesso nasce l’esigenza di porsi nuovi problemi, in un processo più ampio di ricerca e di miglioramento.
Il problema allora, attraverso l'analisi, diventa lui stesso un riduttore di complessità, perché da un insieme di infinite variabili, si scelgono solo alcuni elementi da prendere in considerazione per arrivare ad una soluzione possibile ed accettabile. Tutta la nostra comunicazione, i nostri rapporti, le nostre azioni si potrebbero basare su riduttori di complessità, come modelli, giochi, rappresentazioni, linguaggi appropriati, strategie personali efficaci.
Quando invece un problema ci pone in uno stato di agitazione senza definirlo non troviamo soluzioni.
Ci sono anche problemi che non possono essere risolti perché sono al di là dei nostri limiti umani, come ad esempio i problemi metafisici (che cosa sarà di noi dopo la morte, o perché c'è il dolore, o perché è stato creato l'universo, ecc...), sono interrogativi che ci possiamo porre, ma sappiamo già in partenza che non avranno risposta, se non quella alla quale vorremo credere.
I problemi che non possono essere risolti possono essere dissolti, nel senso che non vanno affrontati come problemi, ma ad esempio come immagini, sogni, incubi, illusioni da dissolvere. Dissolvere i falsi problemi significa poter dedicare tutte le energie a risolvere i problemi alla nostra portata.
Dissolvere un problema significa dimostrare che non è un problema, significa sottoporre il suo enunciato ad un processo di analisi per controllare se si tratta di un problema risolvibile o no.
Eludere un problema è evitarlo, non prenderlo in considerazione, mentre dissolvere un problema vuol dire delegittimarlo, non riconoscerlo come problema.
Non è tanto importante la realtà delle cose, ma la percezione personale che se ne ha.
“La credenza che la realtà che ognuno vede sia l'unica realtà è la più pericolosa di tutte le illusioni” - Paul Watzlawick