Ho appena finito di leggere “Silenzio” di Mario Brunello, violoncellista tra i più apprezzati a livello internazionale. È un libro di poco più di 100 pagine, dense d’ispirazione e di riferimenti storico-musicali. Nel primo capitolo, l’artista osserva che “Nella musica degli uomini il silenzio è uno spazio in cui le idee e i sentimenti del compositore si incrociano con quelli dell’ascoltatore. Un punto d’incontro, un unisono, una tregua, ma anche una dissonanza (…) il moto contrario del contrappunto provoca quasi certamente un incontro-scontro, un momento di contatto, un attimo in cui la musica si accende (…) e scatta qualcosa, l’emozione.”
Più avanti: “Beethoven trova nel silenzio delle pause, che nel corso della sua esperienza creativa diventano sempre più importanti, un perfetto complice che gli dà modo di aprire squarci e indicare strade che corrono verso l’infinito.”
Per una non casuale associazione di immagini e suggestioni uditive, mi è tornato in mente uno dei dilemmi frequenti del coach.
Capita a volte, soprattutto nelle prime sessioni di un percorso, che il coachee parta per la tangente, in una dettagliata e apparentemente inarrestabile narrazione di eventi, andando a ritroso nel tempo, citando nomi ed evocando correlazioni incomprensibili al coach, che può sentirsi travolto come da un fiume in piena. Questo accade perché il coachee ha bisogno di evacuare la mente e far fluire le sue emozioni prima di riuscire a focalizzarsi. Che fare, allora? Interrompere al fine, supposto benefico, di contenere l’esondazione di parole o lasciare che il fiume compia il suo percorso?
Credo che sia necessario lasciar scorrere il fiume. Fuor di metafora, è importante permettere al coachee di dire tutto, con il ritmo e le connessioni di quel momento, perché è un segnale di evoluzione in atto, che deve trasformarsi in consapevolezza e generare un progetto personale di sviluppo.
In questi casi, non c'è alternativa al coraggioso silenzio del coach.
Coraggioso, perché quel silenzio è la volontaria rinuncia a qualsiasi intenzionalità o modello di comportamento; è l’apertura incondizionata a ciò che sta arrivando, per quanto imprevedibile e indecifrabile esso sia. Il coach deve quindi disporsi al silenzio, nella stabilità del proprio equilibrio interiore, nella presenza; accogliere il flusso e ascoltare, senza segni di assenso o dissenso, finché il coachee non si ferma, fosse anche solo per prendere fiato, per respirare. Quando la pausa arriva, è utile e importante che il coach continui nel silenzio, verbale e non verbale, per mezzo minuto o per una buona manciata di secondi in più; è un tempo che può sembrare lunghissimo… ma il silenzio non è un vuoto da riempire ad ogni costo.
Anzi, sarà quel “perfetto complice” che offrirà al coachee una pausa di attenzione e d’incontro con se stesso, in cui dissonanze e contrappunti faranno correre veloci le sue emozioni. Il coachee si concederà il permesso di aprire qualche finestra su orizzonti nuovi, di individuare la strada o le strade che vorrà scegliere di percorrere, se non proprio verso l’infinito immaginato da Beethoven, verso la prossima pietra miliare del percorso.
E il coach? Invece di lanciarsi in sintesi impossibili, può chiedere al coachee quali sono le due o tre cose più importanti della narrazione che desidera (se lo desidera) esplorare con lui. Se la domanda genera altro silenzio, il coach lo manterrà e lo proteggerà, per far emergere “ciò che c’è” – come in una sonata la pausa può precedere l’introduzione di un nuovo tema. Di solito, il segnale che il coachee è pronto a parlarne è la ripresa del contatto visivo; allora il coach può proseguire con domande che a questo punto nasceranno dal flusso del coachee, non da “quello che il coach deve fare” o pensa di dover fare. Il coachee, avendo già narrato il proprio vissuto, e sperimentato le emozioni che l'hanno accompagnato, potrà più facilmente riconnettersi alle cose che sente essenziali per se stesso/a, recuperare le percezioni più intense e iniziare a delineare i prossimi passi verso le proprie aspirazioni.
In questo senso, anche la dissonanza è armonia potenziale: in essa è implicita l'energia che può creare un movimento armonico verso un nuovo benessere.
Più avanti: “Beethoven trova nel silenzio delle pause, che nel corso della sua esperienza creativa diventano sempre più importanti, un perfetto complice che gli dà modo di aprire squarci e indicare strade che corrono verso l’infinito.”
Per una non casuale associazione di immagini e suggestioni uditive, mi è tornato in mente uno dei dilemmi frequenti del coach.
Capita a volte, soprattutto nelle prime sessioni di un percorso, che il coachee parta per la tangente, in una dettagliata e apparentemente inarrestabile narrazione di eventi, andando a ritroso nel tempo, citando nomi ed evocando correlazioni incomprensibili al coach, che può sentirsi travolto come da un fiume in piena. Questo accade perché il coachee ha bisogno di evacuare la mente e far fluire le sue emozioni prima di riuscire a focalizzarsi. Che fare, allora? Interrompere al fine, supposto benefico, di contenere l’esondazione di parole o lasciare che il fiume compia il suo percorso?
Credo che sia necessario lasciar scorrere il fiume. Fuor di metafora, è importante permettere al coachee di dire tutto, con il ritmo e le connessioni di quel momento, perché è un segnale di evoluzione in atto, che deve trasformarsi in consapevolezza e generare un progetto personale di sviluppo.
In questi casi, non c'è alternativa al coraggioso silenzio del coach.
Coraggioso, perché quel silenzio è la volontaria rinuncia a qualsiasi intenzionalità o modello di comportamento; è l’apertura incondizionata a ciò che sta arrivando, per quanto imprevedibile e indecifrabile esso sia. Il coach deve quindi disporsi al silenzio, nella stabilità del proprio equilibrio interiore, nella presenza; accogliere il flusso e ascoltare, senza segni di assenso o dissenso, finché il coachee non si ferma, fosse anche solo per prendere fiato, per respirare. Quando la pausa arriva, è utile e importante che il coach continui nel silenzio, verbale e non verbale, per mezzo minuto o per una buona manciata di secondi in più; è un tempo che può sembrare lunghissimo… ma il silenzio non è un vuoto da riempire ad ogni costo.
Anzi, sarà quel “perfetto complice” che offrirà al coachee una pausa di attenzione e d’incontro con se stesso, in cui dissonanze e contrappunti faranno correre veloci le sue emozioni. Il coachee si concederà il permesso di aprire qualche finestra su orizzonti nuovi, di individuare la strada o le strade che vorrà scegliere di percorrere, se non proprio verso l’infinito immaginato da Beethoven, verso la prossima pietra miliare del percorso.
E il coach? Invece di lanciarsi in sintesi impossibili, può chiedere al coachee quali sono le due o tre cose più importanti della narrazione che desidera (se lo desidera) esplorare con lui. Se la domanda genera altro silenzio, il coach lo manterrà e lo proteggerà, per far emergere “ciò che c’è” – come in una sonata la pausa può precedere l’introduzione di un nuovo tema. Di solito, il segnale che il coachee è pronto a parlarne è la ripresa del contatto visivo; allora il coach può proseguire con domande che a questo punto nasceranno dal flusso del coachee, non da “quello che il coach deve fare” o pensa di dover fare. Il coachee, avendo già narrato il proprio vissuto, e sperimentato le emozioni che l'hanno accompagnato, potrà più facilmente riconnettersi alle cose che sente essenziali per se stesso/a, recuperare le percezioni più intense e iniziare a delineare i prossimi passi verso le proprie aspirazioni.
In questo senso, anche la dissonanza è armonia potenziale: in essa è implicita l'energia che può creare un movimento armonico verso un nuovo benessere.