Il professionista che si occupi di conflict coaching deve imparare, innanzitutto, a “so-stare” nel conflitto. Ma qual è il senso di so-stare in un conflitto, e come è possibile farlo?
Per rispondere a queste domande bisogna uscire dall’ambiguità semantica in cui per troppo tempo è stato mantenuto il termine “conflitto”, riconoscendo che esso va tenuto nettamente distinto dalla violenza.
Il concetto di conflitto presuppone, infatti, una divergenza tra individui senza danni irreversibili per i confliggenti. Per un’epistemologia del conflitto occorre fare un passaggio culturale: bisogna liberarsi dalla necessità di caratterizzare il conflitto in senso positivo o negativo e considerarlo semplicemente una situazione antitetica alla violenza, perché quest’ultima chiude una relazione, mentre il primo si situa all’interno di in una relazione.
Se si parte, quindi, dal presupposto che il conflitto è un’esperienza generativa, e non negativa, non c’è bisogno di risolverla, quanto piuttosto di capirla, e cioè capire perché è generativa.
Purtroppo, nella nostra cultura i conflitti sono vissuti come un fastidio; risulta quindi difficile coglierne l’elemento generativo e, soprattutto, quello maieutico.
L’obiettivo di un lavoro sul conflitto è quello di apprendere, ovvero capire cosa sta accadendo nel “qui ed ora” di una situazione conflittuale. In altri termini, occorre leggere e capire un conflitto, per imparare qualcosa e trarne vantaggio.
La parola composta “so-stare”, in particolare, può essere letta in tre modi: sapere, permanere e indugiare. Occorre precisare, però, che nessuno di questi concetti ha a che fare con quello di empatia, perché non è mettendoci nei panni degli altri che possiamo risolvere il problema della gestione dei conflitti. Così facendo, infatti, otterremmo solo uno spostamento del problema da fuori a dentro di noi: invece di proiettare sugli altri le nostre paure rischieremmo di interiorizzarle fino al punto di considerarle come problemi nostri, con un eccesso empatico che, nei fatti, diventerebbe una forma di autolesionismo.
Se si vuole disporre di un codice pedagogico del conflitto, che possa essere assunto come prospettiva di apprendimento, occorre la disponibilità dell’operatore a saper ascoltare e leggere il conflitto e a gestirne, al tempo stesso, la sostenibilità.
Il conflitto, infatti, va innanzitutto ascoltato perché ha un suo rumore, qualcosa che suona strano e non convince. Le sensazioni che proviamo nei conflitti nascono spesso da un ascolto profondo, quasi telepatico, della situazione di contrasto. La strategia più efficace, quindi, è quella di ottenere informazioni, facendo domande che ci aiutino a capire cosa sta accadendo, provando a sintonizzandosi sulle sensazioni dissonanti.
Il conflitto va inoltre decodificato, come se fosse una mappa. I segni che appaiono sulla mappa di una situazione conflittuale vanno capiti, per decifrarne il significato. L’esercizio costante di lettura delle situazioni conflittuali aiuta certamente a sviluppare la capacità di riconoscere le possibili connessioni tra i fatti che succedono. So-stare, quindi, è un prender tempo per poter leggere la situazione, utilizzando i segni presenti nel conflitto.
Il concetto di sostenibilità in una situazione conflittuale, infine, rimanda a una prospettiva maieutica, ossia alla possibilità di riconoscere risorse interiori in grado di innescare strategie di cambiamento. Occorre prendere atto, quindi, dell’estrema soggettività di un’esperienza conflittuale: un avvenimento che, per qualcuno, può essere vissuto come un fortissimo conflitto agli occhi di un altro può passare quasi inosservato! Come possiamo allora aiutare gli altri ad apprendere dentro l’esperienza conflittuale? Quali risorse possiamo attivare - come professionisti del conflitto - per individuare la strategia più efficace e consentire così ai nostri clienti di attivare le risorse disponibili per affrontare quello che sta accadendo in una situazione conflittuale?
Sotto questo profilo, si badi bene, so-stare è l’antitesi del consiglio, dell’offrire al cliente una risposta che sovrappone un’esperienza personale (per quanto simile) a un’altra, necessariamente diversa. Quando una proposta, per quanto sensata e intelligente, non è alla portata di un coachee, perché non è alla portata delle sue risorse, essa non potrà mai produrre i risultati attesi. Sarà dunque fondamentale aiutare il cliente - dopo aver ascoltato, letto e compreso il conflitto - a trovare le connessioni giuste per gestirne la sostenibilità.
Per rispondere a queste domande bisogna uscire dall’ambiguità semantica in cui per troppo tempo è stato mantenuto il termine “conflitto”, riconoscendo che esso va tenuto nettamente distinto dalla violenza.
Il concetto di conflitto presuppone, infatti, una divergenza tra individui senza danni irreversibili per i confliggenti. Per un’epistemologia del conflitto occorre fare un passaggio culturale: bisogna liberarsi dalla necessità di caratterizzare il conflitto in senso positivo o negativo e considerarlo semplicemente una situazione antitetica alla violenza, perché quest’ultima chiude una relazione, mentre il primo si situa all’interno di in una relazione.
Se si parte, quindi, dal presupposto che il conflitto è un’esperienza generativa, e non negativa, non c’è bisogno di risolverla, quanto piuttosto di capirla, e cioè capire perché è generativa.
Purtroppo, nella nostra cultura i conflitti sono vissuti come un fastidio; risulta quindi difficile coglierne l’elemento generativo e, soprattutto, quello maieutico.
L’obiettivo di un lavoro sul conflitto è quello di apprendere, ovvero capire cosa sta accadendo nel “qui ed ora” di una situazione conflittuale. In altri termini, occorre leggere e capire un conflitto, per imparare qualcosa e trarne vantaggio.
La parola composta “so-stare”, in particolare, può essere letta in tre modi: sapere, permanere e indugiare. Occorre precisare, però, che nessuno di questi concetti ha a che fare con quello di empatia, perché non è mettendoci nei panni degli altri che possiamo risolvere il problema della gestione dei conflitti. Così facendo, infatti, otterremmo solo uno spostamento del problema da fuori a dentro di noi: invece di proiettare sugli altri le nostre paure rischieremmo di interiorizzarle fino al punto di considerarle come problemi nostri, con un eccesso empatico che, nei fatti, diventerebbe una forma di autolesionismo.
Se si vuole disporre di un codice pedagogico del conflitto, che possa essere assunto come prospettiva di apprendimento, occorre la disponibilità dell’operatore a saper ascoltare e leggere il conflitto e a gestirne, al tempo stesso, la sostenibilità.
Il conflitto, infatti, va innanzitutto ascoltato perché ha un suo rumore, qualcosa che suona strano e non convince. Le sensazioni che proviamo nei conflitti nascono spesso da un ascolto profondo, quasi telepatico, della situazione di contrasto. La strategia più efficace, quindi, è quella di ottenere informazioni, facendo domande che ci aiutino a capire cosa sta accadendo, provando a sintonizzandosi sulle sensazioni dissonanti.
Il conflitto va inoltre decodificato, come se fosse una mappa. I segni che appaiono sulla mappa di una situazione conflittuale vanno capiti, per decifrarne il significato. L’esercizio costante di lettura delle situazioni conflittuali aiuta certamente a sviluppare la capacità di riconoscere le possibili connessioni tra i fatti che succedono. So-stare, quindi, è un prender tempo per poter leggere la situazione, utilizzando i segni presenti nel conflitto.
Il concetto di sostenibilità in una situazione conflittuale, infine, rimanda a una prospettiva maieutica, ossia alla possibilità di riconoscere risorse interiori in grado di innescare strategie di cambiamento. Occorre prendere atto, quindi, dell’estrema soggettività di un’esperienza conflittuale: un avvenimento che, per qualcuno, può essere vissuto come un fortissimo conflitto agli occhi di un altro può passare quasi inosservato! Come possiamo allora aiutare gli altri ad apprendere dentro l’esperienza conflittuale? Quali risorse possiamo attivare - come professionisti del conflitto - per individuare la strategia più efficace e consentire così ai nostri clienti di attivare le risorse disponibili per affrontare quello che sta accadendo in una situazione conflittuale?
Sotto questo profilo, si badi bene, so-stare è l’antitesi del consiglio, dell’offrire al cliente una risposta che sovrappone un’esperienza personale (per quanto simile) a un’altra, necessariamente diversa. Quando una proposta, per quanto sensata e intelligente, non è alla portata di un coachee, perché non è alla portata delle sue risorse, essa non potrà mai produrre i risultati attesi. Sarà dunque fondamentale aiutare il cliente - dopo aver ascoltato, letto e compreso il conflitto - a trovare le connessioni giuste per gestirne la sostenibilità.