È impossibile per un uomo imparare ciò che crede di sapere già. Epitteto
Questa riflessione nasce da un’insofferenza nei confronti degli haters. Traduco liberamente dall’inglese: gli odiatori. Si intendono coloro che hanno sempre qualche commento negativo da fare su persone, situazioni o argomenti. Normalmente chi si permette di fare affermazioni negative, cattive o arroganti lo fa da una prospettiva in cui le proprie convinzioni o il proprio status sono auto-valutati migliori. Da parte di parenti, colleghi, amici, sconosciuti, personaggi pubblici, tutti abbiamo assistito a giudizi arroganti e superficiali, o li abbiamo lanciati in qualche occasione: sul modo di vestire di un passante, sulle scelte di vita di Caio, sull’assurdità di una religione, sulle cattive decisioni politiche, ecc.. ma quali erano le informazioni su cui si è creato il giudizio?: cosa si sapeva del passante, di dove andava, perché, delle possibilità economiche, dei suoi gusti? Quanto della vita di Caio? Cosa sul contesto dello sviluppo di quella religione? Cosa del funzionamento della politica?
Il giudizio è il risultato di un processo mentale dove si raccolgono informazioni, se ne ricerca o dimostra la validità, si compara con i propri valori ed esperienza. Alcune valutazioni sono vitali, come la pericolosità di una situazione, un oggetto o una persona ; ma quando non si tratta di argomenti importanti per la persona e per la vita diventa quasi un impulso automatico emettere micro-sentenze in velocità, senza cognizione di causa e senza una effettiva utilità. Il processo avviene cioè senza raccogliere sufficienti informazioni e senza verificarne la veridicità, quindi si basa quasi esclusivamente sulle proprie convinzioni.
L’atto del giudicare presuppone la conoscenza approfondita dell’argomento e sfortunatamente molto spesso ci dimentichiamo che siamo esseri ignoranti. Non importa l’argomento: che sia teorico, culturale, fondamentale o irrilevante per l’umanità, passato o futuro i dati di cui disponiamo sono limitati e parziali. Perché? Perché i nostri sensi sono limitati, le informazioni riguardo ad ogni argomento sono innumerevoli e a volte bisognerebbe studiare anni per averne un idea più compiuta, ed infine perché tutto è in evoluzione, quindi alcune informazioni non sono nemmeno state scoperte. Per adesso non ci è possibile prevedere il futuro, rivivere il passato, leggere nella mente, essere onnipresenti.
Quello che manca a mio avviso è l’educazione all’ignoranza. E con questo non intendo che sia auspicabile vivere nella beatitudine del vuoto mentale, bensì imparare ad essere consapevoli che non è possibile sapere tutto. In una società dove le informazioni sono alla portata di tutti, dove il percorso di studi accompagna l’individuo dalla tenera età a quella adulta sembra inammissibile avere delle lacune e si tende a pensare che certe conoscenze o comportamenti dovrebbero essere scontati. È più facile riscontrare ostilità verso chi si dimostra ignorante che comprensione rispetto alle cause di quella ignoranza. E questa ostilità si dimostra a propria volta ignorante, chiudendo così il circolo vizioso.
L’ignoranza non è di per sé una tragedia. Certo, sapere tutto ci eviterebbe un mare di errori, perdite di tempo e figure poco opportune. Ma quello che conta davvero è il comportamento che segue all’ignoranza.
Essere umilmente ignoranti ha come conseguenza apertura mentale, pazienza, ascolto, curiosità, voglia di apprendere. Un po’ come nei bambini che chiedono continuamente perché invece di giudicare. Il problema subentra quando le persone si accontentano del loro livello di conoscenza e ancor peggio vogliono imporre o contestare quando non hanno gli strumenti per farlo. Per questo si dovrebbe educare a conoscere il processo del giudizio e a riconoscere la propria ignoranza.
A questo proposito nel libro di Schein “La consulenza di processo” è interessante notare che il terzo tra i principi da seguire per il consulente nella relazione d’aiuto sia proprio l’ammissione della propria ignoranza riguardo al cliente, al problema e alla situazione. Vale a dire che si può essere il miglior esperto in circolazione in un settore ma è importante riconoscere che al di fuori di quello è tutto da scoprire.
Da un lato sarebbe bello interagire nella società con la spensieratezza del vivi e lascia vivere, accettare le diversità, i limiti propri e altrui ma è complicato quando le differenze si concretizzano in interessi individuali e comportamenti che si ostacolano a vicenda. Però sarebbe davvero bello se potessimo risparmiarci almeno tutte le critiche gratuite e infondate che non aggiungono niente di costruttivo.
Ma in fondo chissà, forse anche questa mentalità di ignoranza giudicante ha un suo senso di esistere, un ruolo, una logica che non mi è chiara; del resto se questo comportamento non è stato estirpato a due millenni di distanza dalla “prova dei tre setacci” di Socrate forse un motivo potrebbe essere questo: giudicare è un atto che rivela molto di più su chi lo compie che su chi ne è oggetto e ci aiuta a capire chi abbiamo di fronte.
Questa riflessione nasce da un’insofferenza nei confronti degli haters. Traduco liberamente dall’inglese: gli odiatori. Si intendono coloro che hanno sempre qualche commento negativo da fare su persone, situazioni o argomenti. Normalmente chi si permette di fare affermazioni negative, cattive o arroganti lo fa da una prospettiva in cui le proprie convinzioni o il proprio status sono auto-valutati migliori. Da parte di parenti, colleghi, amici, sconosciuti, personaggi pubblici, tutti abbiamo assistito a giudizi arroganti e superficiali, o li abbiamo lanciati in qualche occasione: sul modo di vestire di un passante, sulle scelte di vita di Caio, sull’assurdità di una religione, sulle cattive decisioni politiche, ecc.. ma quali erano le informazioni su cui si è creato il giudizio?: cosa si sapeva del passante, di dove andava, perché, delle possibilità economiche, dei suoi gusti? Quanto della vita di Caio? Cosa sul contesto dello sviluppo di quella religione? Cosa del funzionamento della politica?
Il giudizio è il risultato di un processo mentale dove si raccolgono informazioni, se ne ricerca o dimostra la validità, si compara con i propri valori ed esperienza. Alcune valutazioni sono vitali, come la pericolosità di una situazione, un oggetto o una persona ; ma quando non si tratta di argomenti importanti per la persona e per la vita diventa quasi un impulso automatico emettere micro-sentenze in velocità, senza cognizione di causa e senza una effettiva utilità. Il processo avviene cioè senza raccogliere sufficienti informazioni e senza verificarne la veridicità, quindi si basa quasi esclusivamente sulle proprie convinzioni.
L’atto del giudicare presuppone la conoscenza approfondita dell’argomento e sfortunatamente molto spesso ci dimentichiamo che siamo esseri ignoranti. Non importa l’argomento: che sia teorico, culturale, fondamentale o irrilevante per l’umanità, passato o futuro i dati di cui disponiamo sono limitati e parziali. Perché? Perché i nostri sensi sono limitati, le informazioni riguardo ad ogni argomento sono innumerevoli e a volte bisognerebbe studiare anni per averne un idea più compiuta, ed infine perché tutto è in evoluzione, quindi alcune informazioni non sono nemmeno state scoperte. Per adesso non ci è possibile prevedere il futuro, rivivere il passato, leggere nella mente, essere onnipresenti.
Quello che manca a mio avviso è l’educazione all’ignoranza. E con questo non intendo che sia auspicabile vivere nella beatitudine del vuoto mentale, bensì imparare ad essere consapevoli che non è possibile sapere tutto. In una società dove le informazioni sono alla portata di tutti, dove il percorso di studi accompagna l’individuo dalla tenera età a quella adulta sembra inammissibile avere delle lacune e si tende a pensare che certe conoscenze o comportamenti dovrebbero essere scontati. È più facile riscontrare ostilità verso chi si dimostra ignorante che comprensione rispetto alle cause di quella ignoranza. E questa ostilità si dimostra a propria volta ignorante, chiudendo così il circolo vizioso.
L’ignoranza non è di per sé una tragedia. Certo, sapere tutto ci eviterebbe un mare di errori, perdite di tempo e figure poco opportune. Ma quello che conta davvero è il comportamento che segue all’ignoranza.
Essere umilmente ignoranti ha come conseguenza apertura mentale, pazienza, ascolto, curiosità, voglia di apprendere. Un po’ come nei bambini che chiedono continuamente perché invece di giudicare. Il problema subentra quando le persone si accontentano del loro livello di conoscenza e ancor peggio vogliono imporre o contestare quando non hanno gli strumenti per farlo. Per questo si dovrebbe educare a conoscere il processo del giudizio e a riconoscere la propria ignoranza.
A questo proposito nel libro di Schein “La consulenza di processo” è interessante notare che il terzo tra i principi da seguire per il consulente nella relazione d’aiuto sia proprio l’ammissione della propria ignoranza riguardo al cliente, al problema e alla situazione. Vale a dire che si può essere il miglior esperto in circolazione in un settore ma è importante riconoscere che al di fuori di quello è tutto da scoprire.
Da un lato sarebbe bello interagire nella società con la spensieratezza del vivi e lascia vivere, accettare le diversità, i limiti propri e altrui ma è complicato quando le differenze si concretizzano in interessi individuali e comportamenti che si ostacolano a vicenda. Però sarebbe davvero bello se potessimo risparmiarci almeno tutte le critiche gratuite e infondate che non aggiungono niente di costruttivo.
Ma in fondo chissà, forse anche questa mentalità di ignoranza giudicante ha un suo senso di esistere, un ruolo, una logica che non mi è chiara; del resto se questo comportamento non è stato estirpato a due millenni di distanza dalla “prova dei tre setacci” di Socrate forse un motivo potrebbe essere questo: giudicare è un atto che rivela molto di più su chi lo compie che su chi ne è oggetto e ci aiuta a capire chi abbiamo di fronte.