Quante volte ci è capitato di avere comportamenti inadeguati o reazioni impulsive causati da parole o commenti altrui, apparentemente banali, che hanno improvvisamente risvegliato in noi emozioni negative, quali rabbia, frustrazione o vergogna?
Si tratta dei c.d. tasti dolenti, ovvero di condensati emotivi e psicologici collegati ai vissuti della nostra infanzia, che fanno riemergere esperienze dolorose, capaci di influenzare negativamente le relazioni con noi stessi e con gli altri, soprattutto quando si vivono episodi conflittuali.
In altri termini, i tasti dolenti sono quelle risonanze che ci fanno stare talmente male da non permetterci di gestire un conflitto, in quanto rievocano una ferita prolungata della vita infantile.
Ognuno di noi ha una frase particolare che lo ferisce, del tipo: “Non ce la farai mai…”; “Con te non si può parlare…”; “Appena c’è un problema, tu molli…”.
Sono parole o frasi che, nell’intenzione di chi le pronuncia, non devono necessariamente avere il significato di un’offesa e, tuttavia, esse hanno il potere di raggiungerci diritte alla pancia, ci fanno male e ci provocano sensazioni pesanti e difficili da elaborare.
A ben vedere, non si tratta semplicemente di parole o commenti che non ci piacciono, ma di frasi che ci lasciano storditi e a disagio, frustrati e impotenti. Esse rappresentano un magma emotivo e biografico, che si muove all’interno delle nostre percezioni e proiezioni della realtà, e che va posto in relazione a tempi lontani, quando cercavamo di farci notare dai nostri genitori, sforzandoci di dimostrare che valevamo qualcosa, anche se ci sentivamo rispondere: “Se non sai farti rispettare…”; oppure: “Taci, che è meglio!”.
Queste parole, quando ci capita di riascoltarle, hanno il potere di risvegliare reazioni di rabbia e di sconforto, perché appartengono ad un sottofondo della nostra anima, e cioè a quella parte della nostra storia che riemerge di tanto in tanto. Diventa importante, quindi, saper gestire questi «nervi scoperti», imparando, prima di tutto, a riconoscerli e, poi, a capire come governarli.
Si tratta, a ben vedere, di piccole “falle” che drenano energie ed emozioni; è un terreno che non conosciamo bene e su cui non siamo in grado di esercitare né una consapevolezza né un vero e proprio cambiamento. Per questo dobbiamo imparare a riconoscere quello che ci sta alle spalle, cercando di superare gli ostacoli che la vita ci presenta.
Abbiamo bisogno di percorsi che rispondano alle nostre necessità emotive più profonde e che rappresentino i bisogni di risarcimento e di compensazione rispetto alle mancanze subite in passato. Tuttavia, dobbiamo prestare attenzione al fatto che l’attivazione di un tasto dolente, imponendoci di “difendere” il bambino ferito che è dentro di noi, crea - a livello inconscio - un desiderio di ottenere giustizia che, però, sortisce l’opposto effetto di deformare la realtà.
Peraltro, se è vero che in alcune situazioni riusciamo a controllare e ad addomesticare il tasto dolente, in altre esso prende il sopravvento, trasformandosi in furia, in refrattarietà, in paura o in altre modalità emotive che non ci consentono di affrontare adeguatamente le relazioni con gli altri.
Il rischio, quindi, è che ne nascano comportamenti disfunzionali motivati dal bisogno di difendere la piccola vittima di un “torto” che, a distanza di molto tempo, rimane incistato nel profondo, aspettando un risarcimento.
Si tratta dei c.d. tasti dolenti, ovvero di condensati emotivi e psicologici collegati ai vissuti della nostra infanzia, che fanno riemergere esperienze dolorose, capaci di influenzare negativamente le relazioni con noi stessi e con gli altri, soprattutto quando si vivono episodi conflittuali.
In altri termini, i tasti dolenti sono quelle risonanze che ci fanno stare talmente male da non permetterci di gestire un conflitto, in quanto rievocano una ferita prolungata della vita infantile.
Ognuno di noi ha una frase particolare che lo ferisce, del tipo: “Non ce la farai mai…”; “Con te non si può parlare…”; “Appena c’è un problema, tu molli…”.
Sono parole o frasi che, nell’intenzione di chi le pronuncia, non devono necessariamente avere il significato di un’offesa e, tuttavia, esse hanno il potere di raggiungerci diritte alla pancia, ci fanno male e ci provocano sensazioni pesanti e difficili da elaborare.
A ben vedere, non si tratta semplicemente di parole o commenti che non ci piacciono, ma di frasi che ci lasciano storditi e a disagio, frustrati e impotenti. Esse rappresentano un magma emotivo e biografico, che si muove all’interno delle nostre percezioni e proiezioni della realtà, e che va posto in relazione a tempi lontani, quando cercavamo di farci notare dai nostri genitori, sforzandoci di dimostrare che valevamo qualcosa, anche se ci sentivamo rispondere: “Se non sai farti rispettare…”; oppure: “Taci, che è meglio!”.
Queste parole, quando ci capita di riascoltarle, hanno il potere di risvegliare reazioni di rabbia e di sconforto, perché appartengono ad un sottofondo della nostra anima, e cioè a quella parte della nostra storia che riemerge di tanto in tanto. Diventa importante, quindi, saper gestire questi «nervi scoperti», imparando, prima di tutto, a riconoscerli e, poi, a capire come governarli.
Si tratta, a ben vedere, di piccole “falle” che drenano energie ed emozioni; è un terreno che non conosciamo bene e su cui non siamo in grado di esercitare né una consapevolezza né un vero e proprio cambiamento. Per questo dobbiamo imparare a riconoscere quello che ci sta alle spalle, cercando di superare gli ostacoli che la vita ci presenta.
Abbiamo bisogno di percorsi che rispondano alle nostre necessità emotive più profonde e che rappresentino i bisogni di risarcimento e di compensazione rispetto alle mancanze subite in passato. Tuttavia, dobbiamo prestare attenzione al fatto che l’attivazione di un tasto dolente, imponendoci di “difendere” il bambino ferito che è dentro di noi, crea - a livello inconscio - un desiderio di ottenere giustizia che, però, sortisce l’opposto effetto di deformare la realtà.
Peraltro, se è vero che in alcune situazioni riusciamo a controllare e ad addomesticare il tasto dolente, in altre esso prende il sopravvento, trasformandosi in furia, in refrattarietà, in paura o in altre modalità emotive che non ci consentono di affrontare adeguatamente le relazioni con gli altri.
Il rischio, quindi, è che ne nascano comportamenti disfunzionali motivati dal bisogno di difendere la piccola vittima di un “torto” che, a distanza di molto tempo, rimane incistato nel profondo, aspettando un risarcimento.