Si tratta di me. Molte stagioni fa: Mi trovavo nel bel mezzo del Centro America. Un villaggio Indios in Guatemala intorno al lago di Atitlán. Un luogo ancora semi sconosciuto ai forestieri che si spostavano alla ricerca dei vari perché con cui nutrivano mente e spirito. Gli abitanti del lago conoscevano pochissime parole di spagnolo e comunicavano tra loro con vari dialetti di origine Maya. Il lago era circondato da una serie di piccoli vulcani, fintamente dormienti. In alcune notti improvvise eruzioni sotterranee squarciano gli antichi silenzi, scuotono le case di legno e svegliano i cavalli con inquietanti nitriti.
Con gli stretti amici del Viaggio alloggiamo in un’essenziale abitazione di un nucleo Indios.
Il loro capo è una sorta di autorità, riconosciuta nel Pueblo di San Pedro di Atitlán .
L’uomo carico di empatia è stimato per saggezza, pazienza e, sapendolo solo prima di andarmene, anche per le sue nascoste simpatie per gruppi di guerriglieri sparsi nella regione.
Ci lega un forte affetto per la famiglia che ci ospita. Nutrono, nei confronti di noi “gringos”, un’incredibile capacità di accettare le nostre stranezze, diversità di vita, e di tradizioni.
È uno dei più forti bagni d’immagini, emozioni, meditazioni mai provate negli spostamenti.
Tra le varie occupazioni locali, in particolare mi affascina il loro trasporto del legname. Trasportano legna per il fuoco delle cucine dentro grandi ceste di vimini. Le ceste sono sorrette da una fascia avvolta in fronte dai colori vivissimi.
Nel salire e scendere tra le fasce del Villaggio ogni tanto si arrestano per prendere un po’ fiato.
Si siedono quasi a terra senza toccarne il suolo, lasciano solo la cesta appoggiarsi in equilibrio come un’eretta sentinella di protezione. La cesta riposa a terra, alleggerisce testa e spalle.
Quello che più mi colpisce nella loro sosta è lo sguardo sereno che trasmettono.
Sembra una sorta di sguardo fiducioso, non tanto nel futuro ma quasi e solo nel presente.
Da ignorante migratore e forestiero mi sembra come se quello sguardo fosse disperso verso il lago e le montagne che circondavano il mistico bacino vulcanico.
Mi sembra che i loro sottili occhi osservino molto oltre.
Occhi che guardano e vedono molto più lontano. Stendendosi sino qualche altra e nascosta parte.
Uno sguardo impregnato di millenarie culture. Di difficile comprensione e interpretazione. Specie per un tipo come me, “gringo” e a casa loro per sbaglio.
Socchiudo i miei occhi, ma non riesco a cogliere se i loro sono davvero rivolti altrove.
Percepisco che la profondità della visione è prodotta anche dallo scarico della tensione.
Il peso del trasporto è in pausa. Un momento che interrompe la routine del luogo.
Rimango immerso nella galleria d’arte naturale. Una spontanea meditazione mentre osservo in rispettoso silenzio. Guardo una donna guatemalteca con i vestiti tipici della Regione.
Mi lascio trasportare dall’immensa semplicità dei colori. Lei è sospesa in mezzo alle terrazze coltivate della collina che discende. In pausa.
Sospesa con lo sguardo e con il pensiero. La vivo tra le prime vere volte che mi trasporta in alto la naturalezza di un’immagine.
Quanto può esser semplice la vera bellezza. Quanto può far parte del ciclo naturale.
Guardo in modo simbiotico, come se io stessi in ogni modo cercando di mettermi in pausa.
Un bivio inatteso lampeggia nel viaggio: Aprire una parentesi sana, serena e continuativa.
In me pulsa appassionato Il desiderio di deporre la mia cesta. Una cesta colma di tensioni, amori, viaggi, amicizie e fughe accumulate nel flusso dell’esistenza.
Modulo la respirazione. Immetto aria incontaminata, di fronte al bivio realizzo l’incontro con una naturale e rigenerante messa in “stand by". Ecco l’unica sostanza che mi serve. Pronto all’uso e consumo. Mio e di tutti. Attraverso culture, lingue, tradizioni, convinzioni, natura e spiritualità.
Ieri è storia, domani un mistero, ma oggi è un dono. Per questo si chiama presente.
Maestro Oogway
San Pedro di Atitlán mi accoglie tra i suoi vulcani per offrirmi il dono del momento, del mio momento.
La donna forse me lo sta mostrando con quel suo “guardare oltre”, ma fatico a comprendere. Improvvisamente, senza timbrare nessun cartellino, se non nell’invisibile spazio tempo.
Lei recupera dolcemente la sua cesta con il carico di legna.
S’incammina come si usa da quelle parti. A piedi nudi spostandoli sulla terra in modo continuato ma trasversale. Mai diritto un piede dietro l’altro. Quasi incrociandoli passo dopo passo.
Da quelle partii si racconta che sia il solo modo di camminare e spostarsi.
Non esistono i lunghi tragitti ma solo passi che si seguono per un po’ di tempo.
L’insieme dei piccoli passi costituisce il cammino e il percorso.
Mi faccio coraggio per rompere l’incantesimo con un maldestro “malto”.
Un banale tentativo di dirle grazie in zutuhil, uno degli antichi dialetti Maya.
Nonostante sorrida, non credo mi abbia capito. Sorride. Sposta leggermente la testa verso me, indirizza la cesta variopinta verso il lago e oltre. Quasi ad indicarmi un possibile percorso, oltre e altrove. Una possibile e inesplorata Via da seguire.
Ora tocca a me!
Perché in fondo nella vita è questo che a volte occorre: guardare oltre.
Non lasciate che ciò che siete ostacoli a quello che potreste diventare.
( Harry Palmer )
Con gli stretti amici del Viaggio alloggiamo in un’essenziale abitazione di un nucleo Indios.
Il loro capo è una sorta di autorità, riconosciuta nel Pueblo di San Pedro di Atitlán .
L’uomo carico di empatia è stimato per saggezza, pazienza e, sapendolo solo prima di andarmene, anche per le sue nascoste simpatie per gruppi di guerriglieri sparsi nella regione.
Ci lega un forte affetto per la famiglia che ci ospita. Nutrono, nei confronti di noi “gringos”, un’incredibile capacità di accettare le nostre stranezze, diversità di vita, e di tradizioni.
È uno dei più forti bagni d’immagini, emozioni, meditazioni mai provate negli spostamenti.
Tra le varie occupazioni locali, in particolare mi affascina il loro trasporto del legname. Trasportano legna per il fuoco delle cucine dentro grandi ceste di vimini. Le ceste sono sorrette da una fascia avvolta in fronte dai colori vivissimi.
Nel salire e scendere tra le fasce del Villaggio ogni tanto si arrestano per prendere un po’ fiato.
Si siedono quasi a terra senza toccarne il suolo, lasciano solo la cesta appoggiarsi in equilibrio come un’eretta sentinella di protezione. La cesta riposa a terra, alleggerisce testa e spalle.
Quello che più mi colpisce nella loro sosta è lo sguardo sereno che trasmettono.
Sembra una sorta di sguardo fiducioso, non tanto nel futuro ma quasi e solo nel presente.
Da ignorante migratore e forestiero mi sembra come se quello sguardo fosse disperso verso il lago e le montagne che circondavano il mistico bacino vulcanico.
Mi sembra che i loro sottili occhi osservino molto oltre.
Occhi che guardano e vedono molto più lontano. Stendendosi sino qualche altra e nascosta parte.
Uno sguardo impregnato di millenarie culture. Di difficile comprensione e interpretazione. Specie per un tipo come me, “gringo” e a casa loro per sbaglio.
Socchiudo i miei occhi, ma non riesco a cogliere se i loro sono davvero rivolti altrove.
Percepisco che la profondità della visione è prodotta anche dallo scarico della tensione.
Il peso del trasporto è in pausa. Un momento che interrompe la routine del luogo.
Rimango immerso nella galleria d’arte naturale. Una spontanea meditazione mentre osservo in rispettoso silenzio. Guardo una donna guatemalteca con i vestiti tipici della Regione.
Mi lascio trasportare dall’immensa semplicità dei colori. Lei è sospesa in mezzo alle terrazze coltivate della collina che discende. In pausa.
Sospesa con lo sguardo e con il pensiero. La vivo tra le prime vere volte che mi trasporta in alto la naturalezza di un’immagine.
Quanto può esser semplice la vera bellezza. Quanto può far parte del ciclo naturale.
Guardo in modo simbiotico, come se io stessi in ogni modo cercando di mettermi in pausa.
Un bivio inatteso lampeggia nel viaggio: Aprire una parentesi sana, serena e continuativa.
In me pulsa appassionato Il desiderio di deporre la mia cesta. Una cesta colma di tensioni, amori, viaggi, amicizie e fughe accumulate nel flusso dell’esistenza.
Modulo la respirazione. Immetto aria incontaminata, di fronte al bivio realizzo l’incontro con una naturale e rigenerante messa in “stand by". Ecco l’unica sostanza che mi serve. Pronto all’uso e consumo. Mio e di tutti. Attraverso culture, lingue, tradizioni, convinzioni, natura e spiritualità.
Ieri è storia, domani un mistero, ma oggi è un dono. Per questo si chiama presente.
Maestro Oogway
San Pedro di Atitlán mi accoglie tra i suoi vulcani per offrirmi il dono del momento, del mio momento.
La donna forse me lo sta mostrando con quel suo “guardare oltre”, ma fatico a comprendere. Improvvisamente, senza timbrare nessun cartellino, se non nell’invisibile spazio tempo.
Lei recupera dolcemente la sua cesta con il carico di legna.
S’incammina come si usa da quelle parti. A piedi nudi spostandoli sulla terra in modo continuato ma trasversale. Mai diritto un piede dietro l’altro. Quasi incrociandoli passo dopo passo.
Da quelle partii si racconta che sia il solo modo di camminare e spostarsi.
Non esistono i lunghi tragitti ma solo passi che si seguono per un po’ di tempo.
L’insieme dei piccoli passi costituisce il cammino e il percorso.
Mi faccio coraggio per rompere l’incantesimo con un maldestro “malto”.
Un banale tentativo di dirle grazie in zutuhil, uno degli antichi dialetti Maya.
Nonostante sorrida, non credo mi abbia capito. Sorride. Sposta leggermente la testa verso me, indirizza la cesta variopinta verso il lago e oltre. Quasi ad indicarmi un possibile percorso, oltre e altrove. Una possibile e inesplorata Via da seguire.
Ora tocca a me!
Perché in fondo nella vita è questo che a volte occorre: guardare oltre.
Non lasciate che ciò che siete ostacoli a quello che potreste diventare.
( Harry Palmer )