Dice Rilke: "Il mondo esiste / perché c'è un poeta che lo canta".
Immenso è dunque il potere della poesia. Chi ne possiede il dono, come Orfeo, gode allora di privilegi negati ai comuni mortali, come intenerire i cuori più duri, ammansire le belve, far muovere gli alberi e le pietre. Questo ci dice il mito. La seduzione del suo canto fu tale da soggiogare anche Ade, signore degli inferi, che gli concesse di ricondurre con sè alla luce della vita la dolce sposa Euridice. La vicenda è nota. Alla vista dei primi raggi del sole, ma non ancora fuori dal regno delle ombre, Orfeo, immemore della condizione posta dal dio e impaziente di rivedere l'amata che lo seguiva di alcuni passi, si voltò, e in quell'istante la perse per sempre. Errore fatale, commesso per troppo amore, si disse, di cui Orfeo non seppe mai darsi pace, ma che gli valse, romanticamente, la comprensione e la compassione degli innamorati di ogni tempo.
Eppure non bisognerebbe mai trascurare le prescrizioni di un dio, come ben doveva sapere Orfeo, figlio di una musa, Calliope, e allievo di Apollo che gli aveva insegnato a suonare la lira. E allora perché egli si volta quando ormai lo scopo sembra raggiunto? Le spiegazioni date sono poco credibili, e che da questo interrogativo prenda le mosse la rivisitazione pavesiana della storia dei due sposi infelici è confermato per bocca dello stesso Orfeo: "Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio".
L'inconsolabile rovescia e contraddice la versione del mito che il tempo ci ha tramandato. D'altra parte, per Pavese è la natura stessa del racconto mitico a rendere possibile tale operazione: "Un mito è sempre simbolico: per questo non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell'umore che l'avvolge, può esplodere nelle più diverse e molteplici fioriture" (C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1953, p. 301). In altre parole, il mito è come la lira, lo strumento di Orfeo e di tutti i poeti dopo di lui, che può dare suoni diversi a seconda di chi ne tenta le corde.
Nel segno di questa concezione, dall'incontro tra i miti greci e il mondo umano e intellettuale di Pavese, nascono i Dialoghi con Leucò e in particolare L'inconsolabile, il dialogo in cui autobiografia e significati profondi del mito si intrecciano in maniera esemplare.
Qui tutto ruota intorno al tema del canto. Fiducioso nella magia della parola, evocata dall'amore per Euridice, il poeta tracio penetra nell'abisso per tentare ciò che agli umani è precluso, riannodare il filo spezzato tra il presente e un passato felice, ricomporre il destino comune di due vite che la morte ha separato. La speranza di Orfeo è riposta nel canto perché in esso c'è un potere formidabile, la forza della verità a cui neppure un dio può restare insensibile.
C'è il sospetto però che la magnanimità di Ade non sia del tutto sincera. In quanto dio egli sa riguardo alla verità cose che neppure i poeti possono sapere, ad esempio che essa si rivela all'improvviso e che il suo volto raramente è quello immaginato.
Ade sa anche che al proprio destino nessuno può sfuggire. Visto in questa prospettiva, il suo dono si rivela ben poca cosa. Ed è proprio mentre canta tra le ombre il suo amore per la sposa perduta che la verità comincia a farsi strada nella mente di Orfeo: "Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi." E poco prima: "L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il mio amore. Cercavo un passato che Euridice non sa." Un passato che solo nella trasfigurazione della poesia può sembrare che valga la pena rivivere, ma che non appartiene, né potrebbe essere altrimenti, al presente, bensì al mondo dei morti, il mondo di ciò che è stato. La pienezza di vita di prima non può essere resuscitata, perché tanto Orfeo che Euridice sono stati cambiati dalle rispettive esperienze e dunque lo stato di grazia del passato non è più recuperabile: "Euridice morendo divenne altra cosa. Quell'Orfeo che discese nell'Ade, non era più sposo nè vedovo." Quando comprende ciò, Orfeo si volta deliberatamente, riconsegnando così per sempre la sposa alle tenebre.
Chi ritiene che i poeti siano maestri di verità sbaglia; essi sono piuttosto cercatori di verità ed è questa che Orfeo trova nel canto. Non si tratta solo di Euridice. Si tratta di fare i conti con se stesso, con il proprio destino. La discesa agli inferi diventa così un'esperienza conoscitiva all'interno di sè, nel cuore nebuloso della propria anima o, se si preferisce, della propria coscienza. In questo consiste in definitiva la poesia, ed è per questo che essere poeti richiede coraggio, perchè, come Orfeo impara a sue spese, sostenere la vista della verità che si cela in quei luoghi non è cosa per tutti: "E' necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L'orgia del mio destino è finita nell'Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte (...) Ero quasi perduto e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso".
Lo stesso è per Pavese. Come la discesa di Orfeo nell'Ade per riportarne Euridice, così la sua disperata ricerca di un senso da dare alla vita si conclude con un fallimento, che comunque in entrambi i casi conduce ad una verità, seppur amara e diversa da quella cercata. Tale verità rivela l'impossibilità di riannodare i fili con il proprio passato e con i miti personali e collettivi nei quali sembra celarsi il significato profondo dell'esistenza. Perdere i propri miti è dunque il prezzo da pagare per arrivare a comprendere e comprendersi o, per dirla con lo stesso Pavese, per raggiungere la maturità, che non è più a questo punto la pienezza del vivere ma la consapevolezza della sua tragica negazione.
Immenso è dunque il potere della poesia. Chi ne possiede il dono, come Orfeo, gode allora di privilegi negati ai comuni mortali, come intenerire i cuori più duri, ammansire le belve, far muovere gli alberi e le pietre. Questo ci dice il mito. La seduzione del suo canto fu tale da soggiogare anche Ade, signore degli inferi, che gli concesse di ricondurre con sè alla luce della vita la dolce sposa Euridice. La vicenda è nota. Alla vista dei primi raggi del sole, ma non ancora fuori dal regno delle ombre, Orfeo, immemore della condizione posta dal dio e impaziente di rivedere l'amata che lo seguiva di alcuni passi, si voltò, e in quell'istante la perse per sempre. Errore fatale, commesso per troppo amore, si disse, di cui Orfeo non seppe mai darsi pace, ma che gli valse, romanticamente, la comprensione e la compassione degli innamorati di ogni tempo.
Eppure non bisognerebbe mai trascurare le prescrizioni di un dio, come ben doveva sapere Orfeo, figlio di una musa, Calliope, e allievo di Apollo che gli aveva insegnato a suonare la lira. E allora perché egli si volta quando ormai lo scopo sembra raggiunto? Le spiegazioni date sono poco credibili, e che da questo interrogativo prenda le mosse la rivisitazione pavesiana della storia dei due sposi infelici è confermato per bocca dello stesso Orfeo: "Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio".
L'inconsolabile rovescia e contraddice la versione del mito che il tempo ci ha tramandato. D'altra parte, per Pavese è la natura stessa del racconto mitico a rendere possibile tale operazione: "Un mito è sempre simbolico: per questo non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell'umore che l'avvolge, può esplodere nelle più diverse e molteplici fioriture" (C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1953, p. 301). In altre parole, il mito è come la lira, lo strumento di Orfeo e di tutti i poeti dopo di lui, che può dare suoni diversi a seconda di chi ne tenta le corde.
Nel segno di questa concezione, dall'incontro tra i miti greci e il mondo umano e intellettuale di Pavese, nascono i Dialoghi con Leucò e in particolare L'inconsolabile, il dialogo in cui autobiografia e significati profondi del mito si intrecciano in maniera esemplare.
Qui tutto ruota intorno al tema del canto. Fiducioso nella magia della parola, evocata dall'amore per Euridice, il poeta tracio penetra nell'abisso per tentare ciò che agli umani è precluso, riannodare il filo spezzato tra il presente e un passato felice, ricomporre il destino comune di due vite che la morte ha separato. La speranza di Orfeo è riposta nel canto perché in esso c'è un potere formidabile, la forza della verità a cui neppure un dio può restare insensibile.
C'è il sospetto però che la magnanimità di Ade non sia del tutto sincera. In quanto dio egli sa riguardo alla verità cose che neppure i poeti possono sapere, ad esempio che essa si rivela all'improvviso e che il suo volto raramente è quello immaginato.
Ade sa anche che al proprio destino nessuno può sfuggire. Visto in questa prospettiva, il suo dono si rivela ben poca cosa. Ed è proprio mentre canta tra le ombre il suo amore per la sposa perduta che la verità comincia a farsi strada nella mente di Orfeo: "Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi." E poco prima: "L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il mio amore. Cercavo un passato che Euridice non sa." Un passato che solo nella trasfigurazione della poesia può sembrare che valga la pena rivivere, ma che non appartiene, né potrebbe essere altrimenti, al presente, bensì al mondo dei morti, il mondo di ciò che è stato. La pienezza di vita di prima non può essere resuscitata, perché tanto Orfeo che Euridice sono stati cambiati dalle rispettive esperienze e dunque lo stato di grazia del passato non è più recuperabile: "Euridice morendo divenne altra cosa. Quell'Orfeo che discese nell'Ade, non era più sposo nè vedovo." Quando comprende ciò, Orfeo si volta deliberatamente, riconsegnando così per sempre la sposa alle tenebre.
Chi ritiene che i poeti siano maestri di verità sbaglia; essi sono piuttosto cercatori di verità ed è questa che Orfeo trova nel canto. Non si tratta solo di Euridice. Si tratta di fare i conti con se stesso, con il proprio destino. La discesa agli inferi diventa così un'esperienza conoscitiva all'interno di sè, nel cuore nebuloso della propria anima o, se si preferisce, della propria coscienza. In questo consiste in definitiva la poesia, ed è per questo che essere poeti richiede coraggio, perchè, come Orfeo impara a sue spese, sostenere la vista della verità che si cela in quei luoghi non è cosa per tutti: "E' necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L'orgia del mio destino è finita nell'Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte (...) Ero quasi perduto e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso".
Lo stesso è per Pavese. Come la discesa di Orfeo nell'Ade per riportarne Euridice, così la sua disperata ricerca di un senso da dare alla vita si conclude con un fallimento, che comunque in entrambi i casi conduce ad una verità, seppur amara e diversa da quella cercata. Tale verità rivela l'impossibilità di riannodare i fili con il proprio passato e con i miti personali e collettivi nei quali sembra celarsi il significato profondo dell'esistenza. Perdere i propri miti è dunque il prezzo da pagare per arrivare a comprendere e comprendersi o, per dirla con lo stesso Pavese, per raggiungere la maturità, che non è più a questo punto la pienezza del vivere ma la consapevolezza della sua tragica negazione.