Quando sei nella sventura e cerchi compassione dal prossimo, gli porgi una parte del tuo cuore. Ti ringrazierà, se ha buon cuore; se ha il cuore duro, ti disprezzerà
Khalil Gibran
Khalil Gibran
Il Dizionario Garzanti di Psicologia definisce la compassione come “partecipazione emotiva al dolore altrui che si esprime attraverso un sentimento di solidarietà alla base del quale c’è per A. Schopenhauer la consapevolezza della comune partecipazione al carattere doloroso dell’esistenza. […]
Dunque compassione, quale emozione o sentimento?
Secondo la suddetta definizione sembra si tratti di entrambi. Infatti, dapprima risulta essere un’emozione; quando ci si trova di fronte al dolore altrui “si muove il sangue” ovvero il sentire psichico si manifesta nel corpo sotto forma appunto di emo-zione, azione del sangue (ad esempio contrazione muscolare allo stomaco, aumento del battito cardiaco o stretta al cuore, respirazione corta, sudorazione) e poi, superata la manifestazione fisica si tramuta in sentimento quale effetto ed espressione dell’emozione sedimentata.
Secondo Tiffany Watt Smith (storica culturale), autrice di “Atlante delle emozioni umane”, per trovare espressione, la compassione ha bisogno di contare sulla nostra disponibilità a far emergere le parti vulnerabili di noi stessi. Per farlo è necessario un cuore coraggioso che non ha paura di aprirsi al mondo. Inoltre è necessario disporre di saggezza per abbracciare il dolore di qualcuno senza esporre se stessi al rischio di sentirsi vulnerabili. Tale rischio non mancherebbe nemmeno nelle professioni di aiuto, dal momento che è difficile riuscire a schermare il proprio cuore al dolore che attraversa quello di qualcun altro.
La vera compassione in tali casi è associata all’abilità di sostenere le persone affinché arrivino a trovare la forza in se stesse. Farsi coinvolgere nel dolore di un’altra persona credendo di offrire conforto non è né saggio né utile a nessuno ed espone al forte rischio di togliere alla persona la capacità di raccogliere le proprie forze per affrontare una realtà difficile. In situazioni simili l’unica cosa che è opportuno fare è semplicemente offrire con gentilezza la propria presenza, senza suggerire nulla, senza trovare soluzioni che nella maggior parte dei casi nessuno sta richiedendo. L’autenticità soggettiva viene espressa nel saper offrire all’altro i sentimenti più nobili che riescono ad emergere in noi nel momento in cui accogliamo la nostra fragilità. Questo significa non avere un cuore duro (secondo la suddetta citazione di Gibran)
Dunque compassione, quale emozione o sentimento?
Secondo la suddetta definizione sembra si tratti di entrambi. Infatti, dapprima risulta essere un’emozione; quando ci si trova di fronte al dolore altrui “si muove il sangue” ovvero il sentire psichico si manifesta nel corpo sotto forma appunto di emo-zione, azione del sangue (ad esempio contrazione muscolare allo stomaco, aumento del battito cardiaco o stretta al cuore, respirazione corta, sudorazione) e poi, superata la manifestazione fisica si tramuta in sentimento quale effetto ed espressione dell’emozione sedimentata.
Secondo Tiffany Watt Smith (storica culturale), autrice di “Atlante delle emozioni umane”, per trovare espressione, la compassione ha bisogno di contare sulla nostra disponibilità a far emergere le parti vulnerabili di noi stessi. Per farlo è necessario un cuore coraggioso che non ha paura di aprirsi al mondo. Inoltre è necessario disporre di saggezza per abbracciare il dolore di qualcuno senza esporre se stessi al rischio di sentirsi vulnerabili. Tale rischio non mancherebbe nemmeno nelle professioni di aiuto, dal momento che è difficile riuscire a schermare il proprio cuore al dolore che attraversa quello di qualcun altro.
La vera compassione in tali casi è associata all’abilità di sostenere le persone affinché arrivino a trovare la forza in se stesse. Farsi coinvolgere nel dolore di un’altra persona credendo di offrire conforto non è né saggio né utile a nessuno ed espone al forte rischio di togliere alla persona la capacità di raccogliere le proprie forze per affrontare una realtà difficile. In situazioni simili l’unica cosa che è opportuno fare è semplicemente offrire con gentilezza la propria presenza, senza suggerire nulla, senza trovare soluzioni che nella maggior parte dei casi nessuno sta richiedendo. L’autenticità soggettiva viene espressa nel saper offrire all’altro i sentimenti più nobili che riescono ad emergere in noi nel momento in cui accogliamo la nostra fragilità. Questo significa non avere un cuore duro (secondo la suddetta citazione di Gibran)