“La nostra colpa maggiore sta nel preoccuparci delle colpe degli altri”
Kahlil Gibran
Il principio di causalità fa parte della nostra realtà psicologica e determinare “chi” o “che cosa” ci fa sentire in un determinato stato è un processo psicofisico intrinseco, automatico e spesso inconscio.
Al nostro “Io” non piace essere la causa del suo male per cui diventa naturale cercare la causa ultima in qualcosa di esterno e meglio ancora se “nell’altro”.
La “cultura della colpa” diventa quindi una sorta di esigenza psico-sociale di allentamento della tensione interiore.
Nella realtà odierna ci si focalizza sempre più spesso su quello che non va, su quello che è stato sbagliato e soprattutto su chi ha sbagliato, perdendo più tempo a cercare un colpevole piuttosto che a risolvere il problema.
Talvolta questa ricerca assume anche connotati psicologici deleteri e distruttivi, dove diventiamo giudici e imputati al tempo stesso, ricercando le colpe e sentendocele riversate addosso.
Diventa la guerra del chi vince, una lotta tra orangotango dove chi batte i pungi più forte sul petto prevale sull’altro e stabilisce il dominio fisico e psicologico.
Questo atteggiamento provoca una involuzione dell’individuo e della società; da una cultura potenziante che valorizza la persona, si passa ad una cultura depotenziante che sminuisce l’individuo. Il valore, la condivisione, la crescita lasciano spazio alle scuse, alle giustificazioni e infine alle colpe e ai colpevoli.
La vittoria in tutto ciò è ben poca cosa.
È una vittoria effimera e passeggera che porta disgregazione, distruzione, annichilimento; è una vittoria che altro non è affermazione di individualismo e cinismo; è una vittoria che genera risentimento, allontanamento, vendetta.
La cultura della colpa e del colpevole va innanzitutto ristrutturata, riequilibrata, reinquadrata in una ottica più grande e completa, volta al miglioramento continuo e alla crescita e valorizzazione del singolo individuo e del gruppo a favore della cultura stessa.
Spesso si sente dire “sbagliando si impara” ma poi nella realtà a chi piace sbagliare? A nessuno.
Sbagliare difficilmente fa piacere, riconoscere un errore e ammetterlo risulta difficile tanto che spesso tendiamo a coprire i nostri errori piuttosto che a parlarne apertamente.
Tuttavia, l’errore è parte integrante dell’essere umano e riconoscere questo aspetto significa riconoscere la nostra fragilità, il nostro bisogno di aiuto, la nostra naturale imperfezione.
Un clima aperto al dialogo, allo scambio e alla condivisione crea le basi per una crescita forte e robusta; una cultura che valorizza la persona in quanto essere umano, con i suoi pregi e difetti, permette una piena affermazione e realizzazione dell’individuo in quanto tale.
Alla fine trovare “il colpevole” ci fa stare bene fino al momento in cui non ci rendiamo conto che, guardandoci allo specchio, in fondo il colpevole che cercavamo siamo noi.
Copyright Lorenzo Savioli anteprima editoriale riservata
Kahlil Gibran
Il principio di causalità fa parte della nostra realtà psicologica e determinare “chi” o “che cosa” ci fa sentire in un determinato stato è un processo psicofisico intrinseco, automatico e spesso inconscio.
Al nostro “Io” non piace essere la causa del suo male per cui diventa naturale cercare la causa ultima in qualcosa di esterno e meglio ancora se “nell’altro”.
La “cultura della colpa” diventa quindi una sorta di esigenza psico-sociale di allentamento della tensione interiore.
Nella realtà odierna ci si focalizza sempre più spesso su quello che non va, su quello che è stato sbagliato e soprattutto su chi ha sbagliato, perdendo più tempo a cercare un colpevole piuttosto che a risolvere il problema.
Talvolta questa ricerca assume anche connotati psicologici deleteri e distruttivi, dove diventiamo giudici e imputati al tempo stesso, ricercando le colpe e sentendocele riversate addosso.
Diventa la guerra del chi vince, una lotta tra orangotango dove chi batte i pungi più forte sul petto prevale sull’altro e stabilisce il dominio fisico e psicologico.
Questo atteggiamento provoca una involuzione dell’individuo e della società; da una cultura potenziante che valorizza la persona, si passa ad una cultura depotenziante che sminuisce l’individuo. Il valore, la condivisione, la crescita lasciano spazio alle scuse, alle giustificazioni e infine alle colpe e ai colpevoli.
La vittoria in tutto ciò è ben poca cosa.
È una vittoria effimera e passeggera che porta disgregazione, distruzione, annichilimento; è una vittoria che altro non è affermazione di individualismo e cinismo; è una vittoria che genera risentimento, allontanamento, vendetta.
La cultura della colpa e del colpevole va innanzitutto ristrutturata, riequilibrata, reinquadrata in una ottica più grande e completa, volta al miglioramento continuo e alla crescita e valorizzazione del singolo individuo e del gruppo a favore della cultura stessa.
Spesso si sente dire “sbagliando si impara” ma poi nella realtà a chi piace sbagliare? A nessuno.
Sbagliare difficilmente fa piacere, riconoscere un errore e ammetterlo risulta difficile tanto che spesso tendiamo a coprire i nostri errori piuttosto che a parlarne apertamente.
Tuttavia, l’errore è parte integrante dell’essere umano e riconoscere questo aspetto significa riconoscere la nostra fragilità, il nostro bisogno di aiuto, la nostra naturale imperfezione.
Un clima aperto al dialogo, allo scambio e alla condivisione crea le basi per una crescita forte e robusta; una cultura che valorizza la persona in quanto essere umano, con i suoi pregi e difetti, permette una piena affermazione e realizzazione dell’individuo in quanto tale.
Alla fine trovare “il colpevole” ci fa stare bene fino al momento in cui non ci rendiamo conto che, guardandoci allo specchio, in fondo il colpevole che cercavamo siamo noi.
Copyright Lorenzo Savioli anteprima editoriale riservata