Non voto, non ne vale la pena, non serve.
E’ stato indetto un referendum per modificare alcuni articoli del Codice Deontologico degli psicologi e impedire agli stessi di insegnare a terzi, professionisti non psicologi, il loro sapere.
In Italia ci sono 30.000 psicologi e una miriade di professioni emergenti (coach, counselor, istruttori, filosofi, pedagogisti, professionisti dell’aiuto, etc.). La lotta è dura, sia per identificare i confini delle professionalità, degli interventi, dell’efficacia, sia per gli spazi di lavoro risicati.
Partiamo da ciò che identifica gli atti di un intervento psicologico. Lo psicologo usa gli ‘strumenti’ della parola, della comunicazione, della relazione. Tecnicamente è un esperto del colloquio, dell’intervista, dell’osservazione, dei test. Ha approfondito gli studi da cui derivano teorie, modelli, costrutti che spiegano le attività cognitive, emotive, relazionali e motivazionali di esperienze umane quali: ansia, angoscia, disagio, intelligenza, personalità, conflitti. Ha integrato teoria, tecnica e metodologia, e realizzato una professione compiuta verso uno scopo e con un intento chiaro: stimolare la conoscenza e modificare la realtà psichica dei soggetti, alleviando, nel caso dello psicoterapeuta, sintomi psichici.
Ora, le domande che si aprono alla riflessione sono queste: ‘Perché gli altri professionisti non dovrebbero usare nelle loro attività le competenze acquisite in ambito psicologico? Per quale motivo gli psicologi debbono arrogarsi il diritto della loro competenze sulla carta quando non se la sono conquistata sui vari campi del lavoro, dello sport e più in generale nelle professioni?’
Facciamo alcuni esempi.
In un ambito sportivo dove la cosa fondamentale di un coach è avere atleti motivati, un gruppo che funziona o risultati, perché mai non dovrebbe avere competenze psicologiche per aiutare i propri ragazzi a cambiare comportamenti e a raggiungere mete?
In fondo le differenze di intervento tra un coach e uno psicologo sono rilevanti, per il contesto, per gli obiettivi, per le motivazioni.
In ambito aziendale, dove contano le idee, i team, l’organizzazione, i comportamenti, i risultati, come mai un coach, o un counselor, o un motivatore, non dovrebbero avere competenze psicologiche per aiutare le aziende, i manager o i dipendenti a raggiungere i loro obiettivi?
In una corsia d’ospedale, l’infermiere, o nella scuola il counselor, perché mai non dovrebbero avere competenze psicologiche per far al meglio il proprio lavoro?
La psicologia in tutti questi casi è uno strumento, non ‘lo’ strumento.
Tutto questo mi fa pensare che nella lotta senza quartiere del lavoro si sia perso di vista il fare bene le cose, nel contesto appropriato, perché funzionano e perché è sul campo che si costruisce la validità di una professione.
E’ stato indetto un referendum per modificare alcuni articoli del Codice Deontologico degli psicologi e impedire agli stessi di insegnare a terzi, professionisti non psicologi, il loro sapere.
In Italia ci sono 30.000 psicologi e una miriade di professioni emergenti (coach, counselor, istruttori, filosofi, pedagogisti, professionisti dell’aiuto, etc.). La lotta è dura, sia per identificare i confini delle professionalità, degli interventi, dell’efficacia, sia per gli spazi di lavoro risicati.
Partiamo da ciò che identifica gli atti di un intervento psicologico. Lo psicologo usa gli ‘strumenti’ della parola, della comunicazione, della relazione. Tecnicamente è un esperto del colloquio, dell’intervista, dell’osservazione, dei test. Ha approfondito gli studi da cui derivano teorie, modelli, costrutti che spiegano le attività cognitive, emotive, relazionali e motivazionali di esperienze umane quali: ansia, angoscia, disagio, intelligenza, personalità, conflitti. Ha integrato teoria, tecnica e metodologia, e realizzato una professione compiuta verso uno scopo e con un intento chiaro: stimolare la conoscenza e modificare la realtà psichica dei soggetti, alleviando, nel caso dello psicoterapeuta, sintomi psichici.
Ora, le domande che si aprono alla riflessione sono queste: ‘Perché gli altri professionisti non dovrebbero usare nelle loro attività le competenze acquisite in ambito psicologico? Per quale motivo gli psicologi debbono arrogarsi il diritto della loro competenze sulla carta quando non se la sono conquistata sui vari campi del lavoro, dello sport e più in generale nelle professioni?’
Facciamo alcuni esempi.
In un ambito sportivo dove la cosa fondamentale di un coach è avere atleti motivati, un gruppo che funziona o risultati, perché mai non dovrebbe avere competenze psicologiche per aiutare i propri ragazzi a cambiare comportamenti e a raggiungere mete?
In fondo le differenze di intervento tra un coach e uno psicologo sono rilevanti, per il contesto, per gli obiettivi, per le motivazioni.
In ambito aziendale, dove contano le idee, i team, l’organizzazione, i comportamenti, i risultati, come mai un coach, o un counselor, o un motivatore, non dovrebbero avere competenze psicologiche per aiutare le aziende, i manager o i dipendenti a raggiungere i loro obiettivi?
In una corsia d’ospedale, l’infermiere, o nella scuola il counselor, perché mai non dovrebbero avere competenze psicologiche per far al meglio il proprio lavoro?
La psicologia in tutti questi casi è uno strumento, non ‘lo’ strumento.
Tutto questo mi fa pensare che nella lotta senza quartiere del lavoro si sia perso di vista il fare bene le cose, nel contesto appropriato, perché funzionano e perché è sul campo che si costruisce la validità di una professione.