“Tutti schiamazzano
ma chi vuol ancora sedere in silenzio sul nido a covare le uova?”
Nietzsche
Ci sono tante forme di schiamazzo e tante occasioni per vendere la propria professionalità. Qualcuno usa apporsi anche etichette per gridare al mondo che lavoro fa. Lo fa però in modo inadeguato.
L’etichetta rappresenta l’insieme delle esplicitazioni, delle indicazioni, dei marchi di fabbrica o di commercio che si riferiscono ad un determinato prodotto. Normalmente essa dovrebbe rappresentare la denominazione finale che descrive ciò che costituisce il prodotto.
L’etichetta rappresenta l’insieme delle esplicitazioni, delle indicazioni, dei marchi di fabbrica o di commercio che si riferiscono ad un determinato prodotto. Normalmente essa dovrebbe rappresentare la denominazione finale che descrive ciò che costituisce il prodotto.
Nella quotidianità si tende spesso ad etichettare “persone, situazioni, relazioni” prima che si siano delineati i contorni caratterizzanti la forma delle stesse; allora abbiamo, per esempio, relazioni affettive ufficializzate con un nome “fidanzato, compagna, ecc..” ma nella sostanza altra è la forma e la percezione degli attori in essa coinvolti. Del resto, lo si sa e Watzlawick [1] lo sottolinea, le parole sono abitate ma l’attenzione cui vorrei dirigere lo sguardo della riflessione è non solo sul contenuto della parola etichetta ma sulla potenzialità del gesto di etichettare e sui tempi dell’etichettatura.
[1] P.Watzlawick - J.H. Beavin - D.D. Jackson, Pragmatica del- la comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971.
Non si inventa l’etichetta di un buon vino e poi si tenta in un mese di farlo.
[1] P.Watzlawick - J.H. Beavin - D.D. Jackson, Pragmatica del- la comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971.
Non si inventa l’etichetta di un buon vino e poi si tenta in un mese di farlo.
”Il vino è un composto di umore e luce”. Galileo Galilei
“Non di solo pane vive l’uomo” ma ci sono nutrimenti per l’anima di cui professionisti come un buon coach o un buon formatore divengono parte, o quantomeno, veicoli.
Come per un buon vino, per il coach non possiamo anticipare con una, pur ben pensata, etichetta la professionalità ma dobbiamo pensare che la possibilità di contenuto dell’etichetta si definisca man mano e, soltanto come punto di arrivo e non di partenza, essa connoti una professionalità.
Troppo spesso si trovano presentazioni del proprio sapere professionale su siti predisposti dove, dopo un breve percorso, qualcuno si dichiara da subito coach ma….ancora è molto lontano dall’esserlo; viene spontaneo allora chiedersi quali siano gli elementi professionalizzanti che definiscono un buon coach.
Il coach competente
Quali sono le competenze di un buon coach?
Il termine competenza rappresenta una parola chiave della stagione socioeconomica in cui siamo attori. Nell’uso comune, la parola competenza indica un campo di conoscenze e abilità proprie di una determinata professione: di professionisti, quindi, che sanno fare delle cose e sanno come farle nei diversi contesti.
Una competenza è un sistema di gestione “nel qui ed ora” di abilità e conoscenze, di un sapere ed un saper fare che trova senso grazie ad una mobilitazione di una risorsa interna, sollecitata da una richiesta esterna. Conoscenze ed abilità vengono di volta in volta declinate ad una situazione, grazie ad un a disponibilità affettiva verso il mondo esterno di cui è necessario stare in ascolto.
L’ idea di competenza rimanda al concetto di qualificazione professionale così per leggere la professionalità del coach proviamo a delineare alcune competenze che lo connotano.
Quali sono le competenze di un buon coach?
Il termine competenza rappresenta una parola chiave della stagione socioeconomica in cui siamo attori. Nell’uso comune, la parola competenza indica un campo di conoscenze e abilità proprie di una determinata professione: di professionisti, quindi, che sanno fare delle cose e sanno come farle nei diversi contesti.
Una competenza è un sistema di gestione “nel qui ed ora” di abilità e conoscenze, di un sapere ed un saper fare che trova senso grazie ad una mobilitazione di una risorsa interna, sollecitata da una richiesta esterna. Conoscenze ed abilità vengono di volta in volta declinate ad una situazione, grazie ad un a disponibilità affettiva verso il mondo esterno di cui è necessario stare in ascolto.
L’ idea di competenza rimanda al concetto di qualificazione professionale così per leggere la professionalità del coach proviamo a delineare alcune competenze che lo connotano.
Il sapere
Un professionista deve possedere conoscenze sia di tipo teorico che di tipo pratico.
Le conoscenze teoriche costituiscono il riferimento che conferma oppure orienta un sapere pratico. Si tratta di saperi che riguardano le scelte strategiche, le teorie che servono da sfondo relative all’apprendimento dell’adulto e dell’adulto in gruppo, le dinamiche di costruzione di gruppi, ecc..che provengono dalla psicologia, dalla pedagogia, dalla filosofia…
Le conoscenze procedurali sono il patrimonio di chi si è sperimentato: un complesso di conoscenze acquisite mediante l’agito; un agito pensato e rielaborato.
Grazie alla riflessività sulle pratiche, le conoscenze di processo divengono idee, le esperienze diventano concetti e le conoscenze si organizzano in saperi.
Ecco che con la riflessività conoscenze le teoriche prendono senso e conoscenze pratiche si orientano, raffinandosi.
Il saper fare
Un buon coach dovrebbe..
1. Saper ascoltare quindi possedere una capacità di decodificare e interpretare in modo globale la persona e l’evento prestando però attenzione ai microsegnali; farsi accogliente e saper attendere; gestire le tracce raccolte con non giudizio e rigore; in un procedere fenomenologicamente orientato e con l’inclinazione perenne a porsi interrogativi, con lo sguardo curioso e lo stupore dell’esploratore di mondi nuovi ma di chi sa fare tesoro del già visto, del già sperimentato, del noto.
2. Saper pensare e avere competenze progettuali, possedere una visione del percorso e percezione delle sensazioni del viaggio, deve farsi mappa e viaggiatore, saper fissare la meta e renderla punto di partenza. Occorre avere consapevolezza della propria cultura, dell’origine delle proprie credenze e dei valori.
3. Saper realizzare. Guidare e organizzare un apprendimento significa acquisire consapevolezza dell’idea di apprendimento che orienta il proprio agire, delle possibilità dell’altro, degli stili cognitivi, delle diverse intelligenze, dei vissuti e delle preconoscenze.
Come penso che un adulto possa apprendere? Con quali stimoli? Con quali consapevolezze? Con quali strategie? Con quali tempi? Quali sono le conseguenze dell’apprendere? Quali cambiamenti e riorganizzazioni comporta? Come cambia la percezione di sé? Come questo incide nella relazione con gli altri?
Se apprendere come dice Bruera è dotarsi di schemi nuovi per comprendere il reale, alllora per cambiare punto di vista occorre imparare, crescere, dotarsi di strumenti per cum-prendere il reale intorno a noi.
4. Saper entrare in relazione, con delicatezza e misurati passi, con decise voci sussurrate e carezze orientanti. Gestire una relazione è, per un coach, organizzare una dimensione in cui creare un “tango emotivo” per dirla alla Goleman.
5. Saper comunicare
La capacità di comunicare e l’apertura al dialogo sono elementi che, incontrandosi o allontanandosi, generano diverse situazioni comunicative con esiti diversi sul piano relazionale. Ce ne parla chiaramente la matrice semplice di classificazione delle situazioni comunicative (Trevisani, 2005) che mostra gli effetti dell’assenza o della minor presenza di questi elementi, in relazione tra loro.
La presenza di alte capacità comunicative con alta disponibilità di apertura all’altro, definisce la situazione ottimale dove la condivisione e la cooperazione sono indice di massima interazione. La persona competente nella comunicazione non solo sa gestire le sfide ma le cerca, ridisegna il contesto esterno in continua ri-creazione, è in cambiamento, cresce; competente della propria competenza si diverte nel farlo e comunica il piacere di comunicare. E sta bene. Sta bene perché sperimenta l’esperienza ottimale.[1] Si parlerebbe per ore….da un coach così non si vorrebbe proprio andar via...
6. Stupirsi, emozionarsi, amare il proprio lavoro e darsi occasioni per trovare il senso in ogni cosa, trasformare il rifiuto in risorsa e riprogettare il frame trasformando la pesantezza in occasione. Parte significativa e motore della competenza è la disponibilità affettiva a farne uso. Questo non significa voler essere a tutti i costi positivi vendendosi come supercoach con la bacchetta magica e quindi diventando abili venditori di se stessi. Essere positivi nelle relazioni di accompagnamento dell’altro non vuol dire banalizzare l’angoscia dell’altro: essere positivi vuol dire invece incontrare i problemi dell’altro, paziente o cliente, assumendo però un nuovo sguardo sul termine “problema” che se ben decodificato, ben letto e ben definito, da problema, portatore di pesantezza ed ansia, si possa rileggere in “condizione”. La condizione è una “situazione convivente” che prevede un compito. Se dal problema passiamo alla condizione, avremo voglia di agire, diventeremo progettuali e l’emozione come ex motu, ci avvierà in un movimento procedurale intenso che porta a nuove forme di sé e a nuove forme delle cose.
7. Ricordarsi di un’etica professionale. Un comportamento eticamente corretto procede tenendo per mano la propria coscienza, il sistema di valori e procede con senso della misura. Per entrare nel termine forse, come suggerisce Gustavo Zagrebelski, è necessario attuare una distinzione tra etica e morale.
La morale riguarda il retto agire, dettato dalla coscienza; tuttavia non sempre in senso assoluto la morale è eticamente corretta, anche perché tutto ciò che è “morale” riguarda strettamente la sfera personale; l’etica invece è una morale declinata al contesto; essa riguarda un retto agire secondo la funzione che si è chiamati a svolgere nel gruppo sociale d’appartenenza. Questo rende possibile l’esistenza di infinite forme d’etica, interpretabili secondo il posto o ruolo occupato con etiche diverse, secondo le professioni.
Per un buon coach, in particolare, è centrale un’etica della parola [2]riprendendo il pensiero della Mortari, un’etica legata alla capacità di trattenersi nell’eccedenza delle cose. E’ bello pensare che possa esistere una parola porosa e che sia possibile lavorare sulla parola per imparare a stare in attesa e in ascolto dell’esperienza, esercitando la pratica del sottrarre peso al linguaggio e al movimento del pensiero. E’ bello pensare che sia possibile cercare una parola che dice.[3]
8. Autoformarsi
Come si diceva in apertura, chi crede di essere arrivato non è mai partito.
Pensare sui pensieri, fermarsi a riflettere per capire il proprio punto di vista, le proprie modalità di lettura degli eventi, sapersi ri-progettare e accompagnare se stessi per saper accompagnare gli altri.
Occorre guardare l’esperienza. Dedicarvi pensieri, ricordando che ciò che si rende visibile «quando parliamo delle esperienze psichiche non è mai l’esperienza stessa ma tutto ciò che ne pensiamo allorché vi riflettiamo» dice Hannah Arendt, quindi comunicare con l’esperienza mettendosi in ascolto della stessa significa non solo parlare di comunicazione bensì pensare a come essa si è mostrata e come è stata trattata.
È fare ricerca educativa che ha cura della propria esperienza e dell’esperienza dell’altro, facendosi accogliente. È stare in ascolto dei propri respiri.[4]
Il saper essere
In conclusione… come diceva Nietzsche, Tutti schiamazzano ma chi vuol ancora sedere in silenzio sul nido a covare le uova? La professione del coach non ha bisogno di gente che schiamazza e si propone come supercoach espertissimo ovunque ma ha bisogno di persone misurate, consapevoli, necessita di cura e calore, di tempo e responsabilità.
Per leggere un po’…
Mortari L. Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Milano, 2002
Trevisani D., Negoziazione interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali, Franco Angeli, Milano 2005.
Cancelli S, Il peso delle parole, Editrice La Scuola Brescia, 2010
[1] S.Cancelli, 2010, Il peso delle parole, Editrice La Scuola Brescia
[2] Mortari L. Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Milano, 2002
[3] ibidem
[4] S. Cancelli, 2010, Il peso delle parole, Editrice La Scuola Brescia
Un professionista deve possedere conoscenze sia di tipo teorico che di tipo pratico.
Le conoscenze teoriche costituiscono il riferimento che conferma oppure orienta un sapere pratico. Si tratta di saperi che riguardano le scelte strategiche, le teorie che servono da sfondo relative all’apprendimento dell’adulto e dell’adulto in gruppo, le dinamiche di costruzione di gruppi, ecc..che provengono dalla psicologia, dalla pedagogia, dalla filosofia…
Le conoscenze procedurali sono il patrimonio di chi si è sperimentato: un complesso di conoscenze acquisite mediante l’agito; un agito pensato e rielaborato.
Grazie alla riflessività sulle pratiche, le conoscenze di processo divengono idee, le esperienze diventano concetti e le conoscenze si organizzano in saperi.
Ecco che con la riflessività conoscenze le teoriche prendono senso e conoscenze pratiche si orientano, raffinandosi.
Il saper fare
Un buon coach dovrebbe..
1. Saper ascoltare quindi possedere una capacità di decodificare e interpretare in modo globale la persona e l’evento prestando però attenzione ai microsegnali; farsi accogliente e saper attendere; gestire le tracce raccolte con non giudizio e rigore; in un procedere fenomenologicamente orientato e con l’inclinazione perenne a porsi interrogativi, con lo sguardo curioso e lo stupore dell’esploratore di mondi nuovi ma di chi sa fare tesoro del già visto, del già sperimentato, del noto.
2. Saper pensare e avere competenze progettuali, possedere una visione del percorso e percezione delle sensazioni del viaggio, deve farsi mappa e viaggiatore, saper fissare la meta e renderla punto di partenza. Occorre avere consapevolezza della propria cultura, dell’origine delle proprie credenze e dei valori.
3. Saper realizzare. Guidare e organizzare un apprendimento significa acquisire consapevolezza dell’idea di apprendimento che orienta il proprio agire, delle possibilità dell’altro, degli stili cognitivi, delle diverse intelligenze, dei vissuti e delle preconoscenze.
Come penso che un adulto possa apprendere? Con quali stimoli? Con quali consapevolezze? Con quali strategie? Con quali tempi? Quali sono le conseguenze dell’apprendere? Quali cambiamenti e riorganizzazioni comporta? Come cambia la percezione di sé? Come questo incide nella relazione con gli altri?
Se apprendere come dice Bruera è dotarsi di schemi nuovi per comprendere il reale, alllora per cambiare punto di vista occorre imparare, crescere, dotarsi di strumenti per cum-prendere il reale intorno a noi.
4. Saper entrare in relazione, con delicatezza e misurati passi, con decise voci sussurrate e carezze orientanti. Gestire una relazione è, per un coach, organizzare una dimensione in cui creare un “tango emotivo” per dirla alla Goleman.
5. Saper comunicare
La capacità di comunicare e l’apertura al dialogo sono elementi che, incontrandosi o allontanandosi, generano diverse situazioni comunicative con esiti diversi sul piano relazionale. Ce ne parla chiaramente la matrice semplice di classificazione delle situazioni comunicative (Trevisani, 2005) che mostra gli effetti dell’assenza o della minor presenza di questi elementi, in relazione tra loro.
La presenza di alte capacità comunicative con alta disponibilità di apertura all’altro, definisce la situazione ottimale dove la condivisione e la cooperazione sono indice di massima interazione. La persona competente nella comunicazione non solo sa gestire le sfide ma le cerca, ridisegna il contesto esterno in continua ri-creazione, è in cambiamento, cresce; competente della propria competenza si diverte nel farlo e comunica il piacere di comunicare. E sta bene. Sta bene perché sperimenta l’esperienza ottimale.[1] Si parlerebbe per ore….da un coach così non si vorrebbe proprio andar via...
6. Stupirsi, emozionarsi, amare il proprio lavoro e darsi occasioni per trovare il senso in ogni cosa, trasformare il rifiuto in risorsa e riprogettare il frame trasformando la pesantezza in occasione. Parte significativa e motore della competenza è la disponibilità affettiva a farne uso. Questo non significa voler essere a tutti i costi positivi vendendosi come supercoach con la bacchetta magica e quindi diventando abili venditori di se stessi. Essere positivi nelle relazioni di accompagnamento dell’altro non vuol dire banalizzare l’angoscia dell’altro: essere positivi vuol dire invece incontrare i problemi dell’altro, paziente o cliente, assumendo però un nuovo sguardo sul termine “problema” che se ben decodificato, ben letto e ben definito, da problema, portatore di pesantezza ed ansia, si possa rileggere in “condizione”. La condizione è una “situazione convivente” che prevede un compito. Se dal problema passiamo alla condizione, avremo voglia di agire, diventeremo progettuali e l’emozione come ex motu, ci avvierà in un movimento procedurale intenso che porta a nuove forme di sé e a nuove forme delle cose.
7. Ricordarsi di un’etica professionale. Un comportamento eticamente corretto procede tenendo per mano la propria coscienza, il sistema di valori e procede con senso della misura. Per entrare nel termine forse, come suggerisce Gustavo Zagrebelski, è necessario attuare una distinzione tra etica e morale.
La morale riguarda il retto agire, dettato dalla coscienza; tuttavia non sempre in senso assoluto la morale è eticamente corretta, anche perché tutto ciò che è “morale” riguarda strettamente la sfera personale; l’etica invece è una morale declinata al contesto; essa riguarda un retto agire secondo la funzione che si è chiamati a svolgere nel gruppo sociale d’appartenenza. Questo rende possibile l’esistenza di infinite forme d’etica, interpretabili secondo il posto o ruolo occupato con etiche diverse, secondo le professioni.
Per un buon coach, in particolare, è centrale un’etica della parola [2]riprendendo il pensiero della Mortari, un’etica legata alla capacità di trattenersi nell’eccedenza delle cose. E’ bello pensare che possa esistere una parola porosa e che sia possibile lavorare sulla parola per imparare a stare in attesa e in ascolto dell’esperienza, esercitando la pratica del sottrarre peso al linguaggio e al movimento del pensiero. E’ bello pensare che sia possibile cercare una parola che dice.[3]
8. Autoformarsi
Come si diceva in apertura, chi crede di essere arrivato non è mai partito.
Pensare sui pensieri, fermarsi a riflettere per capire il proprio punto di vista, le proprie modalità di lettura degli eventi, sapersi ri-progettare e accompagnare se stessi per saper accompagnare gli altri.
Occorre guardare l’esperienza. Dedicarvi pensieri, ricordando che ciò che si rende visibile «quando parliamo delle esperienze psichiche non è mai l’esperienza stessa ma tutto ciò che ne pensiamo allorché vi riflettiamo» dice Hannah Arendt, quindi comunicare con l’esperienza mettendosi in ascolto della stessa significa non solo parlare di comunicazione bensì pensare a come essa si è mostrata e come è stata trattata.
È fare ricerca educativa che ha cura della propria esperienza e dell’esperienza dell’altro, facendosi accogliente. È stare in ascolto dei propri respiri.[4]
Il saper essere
In conclusione… come diceva Nietzsche, Tutti schiamazzano ma chi vuol ancora sedere in silenzio sul nido a covare le uova? La professione del coach non ha bisogno di gente che schiamazza e si propone come supercoach espertissimo ovunque ma ha bisogno di persone misurate, consapevoli, necessita di cura e calore, di tempo e responsabilità.
Per leggere un po’…
Mortari L. Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Milano, 2002
Trevisani D., Negoziazione interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali, Franco Angeli, Milano 2005.
Cancelli S, Il peso delle parole, Editrice La Scuola Brescia, 2010
[1] S.Cancelli, 2010, Il peso delle parole, Editrice La Scuola Brescia
[2] Mortari L. Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Milano, 2002
[3] ibidem
[4] S. Cancelli, 2010, Il peso delle parole, Editrice La Scuola Brescia