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Coaching: quella voglia sottile di "cambiare" di Maria Cristina Caccia

7/1/2014

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L’unico modo per iniziare a fare qualcosa è smettere di parlare e iniziare a fare.
Walt Disney


Quante volte ci siamo detti: “Ora basta, da domani si cambia”. Forse nemmeno una, forse molte, troppe.

Nel primo caso, probabilmente, ci siamo sentiti spaventati dall’idea del “nuovo” e siamo rimasti accovacciati all’interno della nostra comoda “bolla di comfort”, dove ci addormentiamo, ci svegliamo, viviamo, ce la raccontiamo e nulla ci può turbare e dove, dunque, ci chiediamo, “perché cambiare?”. Nel secondo caso, abbiamo sicuramente sperimentato una voglia viscerale di stravolgere le circostanze, di attuare pseudo-miracoli, mossi da un impeto che non si placa e che ci conduce verso nuove strade, nuove sfide. Il cambiamento implica una trasformazione e la trasformazione avviene grazie al “coraggio di lasciare la sponda del proprio paradigma”* (*cit. Armando Lombardi) per accogliere un Sapere che apre a  nuove consapevolezze.

Molto facile attribuire “la colpa” al fato, al destino ingiusto e ingrato quando non otteniamo quello che vogliamo oppure ci scontriamo con difficoltà che mettono alla prova anche la più ferrata delle motivazioni. E ci sentiamo stretti in una morsa, quasi incapaci di decidere e di camminare lungo il viale dei nostri obiettivi.

Molti raggiungono – in diversi momenti della vita – la sensazione di essere immersi in un acquario. Un luogo nel quale nuoti, ma solo entro quelle quattro maledette mura trasparenti, che ti danno l’illusione di essere libero mentre non lo sei. I sassi sono sempre quelli, ogni tanto qualche altro pesce muore, ogni tanto qualche altro ne entra, ma tu sei sempre lì. In quel maledetto acquario. Lo senti quando inizia a pulsarti dentro l’idea che sia ora di cambiare qualcosa. (Daniele Trevisani, “Personal Energy”)

Così, la metafora dell’acquario come luogo angusto in cui “sguazzare”, rende molto chiaramente la dimensione dell’essere o del sentirsi “spinti” vorticosamente a respirare aria nuova. Forse qualcuno si sente a proprio agio all’interno di un “acquario esistenziale”* (cit. Daniele Trevisani), ma perde lo stupore di entrare in contatto con parti di Sé che ancora non gli sono manifeste e che fremono “per uscire fuori dall’acqua”, avendo molto da dire.

Girando sempre su se stessi, vedendo e facendo sempre le stesse cose, si perde l’abitudine e la possibilità di esercitare la propria intelligenza. Lentamente tutto si chiude, si indurisce e si atrofizza come un muscolo. (Albert Camus)

Il nostro compito è di realizzarci e, in un’ottica Rogersiana, dobbiamo alimentare quel “Pensiero attualizzante” che giace sommerso all’interno della nostra coscienza, sotto quel SuperIo che è convinto di bastare a se stesso, ingannandosi.

In una ricerca di senso nel modo in cui ci relazioniamo con il mondo, così come si fa grazie all’appoggio di un Coach, intercettiamo parti di noi che si mostrano come alleate per la nostra crescita personale ed evolutiva. Ma sta a noi “voler” vedere al di là degli orizzonti limitati e limitanti che spesso proiettano ombre sul nostro futuro.

La continuità ci dà le radici; il cambiamento ci regala i rami, lasciando a noi la volontà di estenderli e di farli crescere fino a raggiungere nuove altezze. (Pauline R. Kezer)

Cambiare è un po’ come volare: si ha timore, si rimane all’angolo, poi si fa un bel respiro, si chiudono gli occhi per un istante, mantenendo viva la vista della mente, e si fa il salto, si decolla, si sperimentano nuovi equilibri.

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