Il primo coach di ognuno di noi è senza dubbio la nostra mamma e può capitare che lei, del tutto in buona fede, pur avendoci colmato di tutto l’affetto e di tutte le coccole del mondo, non abbia saputo essere un buon coach in quello che è uno degli aspetti fondamentali del processo di coaching ovvero il percorso di autonomizzazione, quello che ci porta alla autoefficacia, all’autostima, che crea la nostra personalità, la nostra forza, il nostro coraggio, la nostra determinazione.
E così è successo che per la paura che ci facessimo male o ci allontanassimo troppo dal loro raggio di controllo, i nostri genitori non ci abbiano fatto sperimentare lo spazio a noi circostante con la modalità che tutti i bambini utilizzano per prima e cioè gattonando qua e là per la casa….la spiaggia…il parco giochi…
E così ci siamo persi la possibilità di esplorare, di toccare con mano, di imparare a separare il nostro spazio, il nostro territorio da quello degli altri, ci siamo persi il piacere di sporcarci mani e ginocchia con la terra, di sperimentare la prima forma di autonomia.
Questo ci ha fatto crescere come persone più proiettate verso la mente che verso il corpo, meno tattili, abbiamo sviluppato più le capacità mentali che quelle corporee e magari ci siamo a volte sentiti “diversi” dagli altri bambini, perché più insicuri, più timorosi di “sbagliare”…proprio perché ci mancavano quella forza e quel coraggio che derivano dall’aver toccato con mano ( e con tutto il resto del corpo) che a buttarsi e a cominciare a muoversi per il mondo da soli, con gli strumenti che abbiamo a disposizione, anche se diversi da quelli degli altri ed all’inizio più traballanti, non accade niente di male.
Prendere consapevolezza di tutto questo è molto importante e come coach di noi stessi dobbiamo ripeterci che non è mai troppo tardi per cambiare prospettiva e cominciare, perché no magari a 40 anni, a gattonare, a scendere a terra, riscoprendo il piacere della sperimentazione e dell’esplorazione, poiché la zona di rischio, il concetto di estremo in realtà non esiste, ma dipende dalla singola persona, dall’allenamento di ognuno.
E così è successo che per la paura che ci facessimo male o ci allontanassimo troppo dal loro raggio di controllo, i nostri genitori non ci abbiano fatto sperimentare lo spazio a noi circostante con la modalità che tutti i bambini utilizzano per prima e cioè gattonando qua e là per la casa….la spiaggia…il parco giochi…
E così ci siamo persi la possibilità di esplorare, di toccare con mano, di imparare a separare il nostro spazio, il nostro territorio da quello degli altri, ci siamo persi il piacere di sporcarci mani e ginocchia con la terra, di sperimentare la prima forma di autonomia.
Questo ci ha fatto crescere come persone più proiettate verso la mente che verso il corpo, meno tattili, abbiamo sviluppato più le capacità mentali che quelle corporee e magari ci siamo a volte sentiti “diversi” dagli altri bambini, perché più insicuri, più timorosi di “sbagliare”…proprio perché ci mancavano quella forza e quel coraggio che derivano dall’aver toccato con mano ( e con tutto il resto del corpo) che a buttarsi e a cominciare a muoversi per il mondo da soli, con gli strumenti che abbiamo a disposizione, anche se diversi da quelli degli altri ed all’inizio più traballanti, non accade niente di male.
Prendere consapevolezza di tutto questo è molto importante e come coach di noi stessi dobbiamo ripeterci che non è mai troppo tardi per cambiare prospettiva e cominciare, perché no magari a 40 anni, a gattonare, a scendere a terra, riscoprendo il piacere della sperimentazione e dell’esplorazione, poiché la zona di rischio, il concetto di estremo in realtà non esiste, ma dipende dalla singola persona, dall’allenamento di ognuno.