Eh già, perché dopo pagine e pagine dedicate a cercare di tradurre sulla carta e vestire di definizioni qualcosa di assolutamente percepibile ma non letteralmente palpabile come è l’empatia, si sente la necessità di qualche indicazione praticabile più che percepibile, qualche strumento che possa calare più empatia nel campo del coaching.
Infatti, in un setting di coaching il tempo non è eterno, ma scade dopo un quantitativo di minuti ben codificato, e soprattutto deve tradursi in un tempo produttivo.
Il coaching, in omaggio a uno dei primi significati della radice di questa parola che designava le carrozze trainate da cavalli, deve portare il cliente attraverso un viaggio arricchente ad acquisire nuove competenze e abilità, o anche a prendere coscienza di quelle che già possiede e rafforzarle.
"ll coaching è un processo che ha l'obiettivo di aiutare la persona ad acquisire una maggiore competenza professionale e/o a superare barriere che ostacolano il miglioramento della sua performance". (Wikipedia - Coaching).
Allora, come posso far entrare l’empatia in un processo che, diversamente dal counseling che lavora maggiormente sulle emozioni, è più volto ad un problem solving, alla individuazione di strumenti pratici da fornire al cliente per la riscoperta e attuazione delle proprie capacità latenti?
La risposta è semplice ma non facile: infatti, se nel counseling lo spazio per la rievocazione, lettura e trasformazione delle emozioni del cliente è ampio, dedicato e condiviso dal counselor, che a sua volta può restituire al proprio cliente le proprie emozioni riguardo il narrato, nel coaching l’empatia deve essere, più che un abito mentale, un tessuto interno talmente comodo e abituale da poter essere sempre presente sebbene il coach abbia a disposizione poche parole per la costruzione di frasi brevi. La semplicità e la sintesi non sono sempre il traguardo più facile, lo sono invece quando la pulizia a monte è reale, cioè quando il terreno è stato ben dissodato e preparato (mi riferisco all’auto-empatia di cui a pag.6 e seguenti).
Qualsiasi formazione presuppone una qualche forma di cambiamento da parte di chi la riceve, e questo è argomento molto delicato, perché per molte persone cambiare significa perdere qualcosa, una parte della propria identità, oppure una serie di vantaggi, quindi di sicuro il coach non può assumere uno stile confrontazionale, non può schierarsi aprioritariamente in favore del cambiamento senza essersi prima sintonizzato empaticamente sul proprio coachee.
Lo schieramento (advocacy) indica in sostanza il concetto del tono sotteso alle affermazioni del tipo <<Lo so meglio io, ascoltami>>. Poche di queste risposte possono essere sufficienti per rovinare un intero colloquio, seduta o relazione terapeutica. Quindi ricordiamo che le peggiori modalità di atteggiamento di schieramento sono:
1. Discutere per il cambiamento
2. Assumere il ruolo dell’esperto
3. Criticare, imbarazzare o incolpare
4. Etichettare
5. Affrettarsi
6. Pretendere la priorità (Stephen, 2004)
Infatti, è necessario che un coach sia assolutamente autentico e impeccabile nella propria sospensione di giudizio (non uso qui le parole “assenza di giudizio” sapendo quanto l’essere umano sia incline a formarsi una propria opinione, quantunque subconscia, nei primi secondi in cui viene a contatto con un’altra persona) e nella creazione di un clima empatico come tessuto di fondo, che non si esplica solo nel primo incontro, in cui il cliente a maggior ragione deve trovare spazio per raccontarsi, ma che costituisce la trama di tutte le sedute, per non accendere reattanza e per consentire di creare agganci, l’instaurarsi di quel “common ground” che può innescare una motivazione autentica nel cliente.
Ancora prima del momento in cui il coach sta ricercando un aggancio, un common ground che attragga l’attenzione (e soprattutto le spinte motivazionali interiori) del proprio cliente, l’empatia serve al coach per valutare attentamente i prototipi cognitivi del proprio cliente, ed essere in grado di valutare le eventuali distanze comunicative che intercorrono tra sé stesso e il cliente, in termini biologici e di identità, oppure a livello di semiotica e, a maggior ragione a livello valoriale o di vissuto personale (Modello di lettura della Incomunicabilità in distanze comunicative 4DM di Daniele Trevisani); infatti, soprattutto nelle letture delle distanze valoriali o del vissuto l’empatia servirà al coach anche più in profondità.
Infatti, in un setting di coaching il tempo non è eterno, ma scade dopo un quantitativo di minuti ben codificato, e soprattutto deve tradursi in un tempo produttivo.
Il coaching, in omaggio a uno dei primi significati della radice di questa parola che designava le carrozze trainate da cavalli, deve portare il cliente attraverso un viaggio arricchente ad acquisire nuove competenze e abilità, o anche a prendere coscienza di quelle che già possiede e rafforzarle.
"ll coaching è un processo che ha l'obiettivo di aiutare la persona ad acquisire una maggiore competenza professionale e/o a superare barriere che ostacolano il miglioramento della sua performance". (Wikipedia - Coaching).
Allora, come posso far entrare l’empatia in un processo che, diversamente dal counseling che lavora maggiormente sulle emozioni, è più volto ad un problem solving, alla individuazione di strumenti pratici da fornire al cliente per la riscoperta e attuazione delle proprie capacità latenti?
La risposta è semplice ma non facile: infatti, se nel counseling lo spazio per la rievocazione, lettura e trasformazione delle emozioni del cliente è ampio, dedicato e condiviso dal counselor, che a sua volta può restituire al proprio cliente le proprie emozioni riguardo il narrato, nel coaching l’empatia deve essere, più che un abito mentale, un tessuto interno talmente comodo e abituale da poter essere sempre presente sebbene il coach abbia a disposizione poche parole per la costruzione di frasi brevi. La semplicità e la sintesi non sono sempre il traguardo più facile, lo sono invece quando la pulizia a monte è reale, cioè quando il terreno è stato ben dissodato e preparato (mi riferisco all’auto-empatia di cui a pag.6 e seguenti).
Qualsiasi formazione presuppone una qualche forma di cambiamento da parte di chi la riceve, e questo è argomento molto delicato, perché per molte persone cambiare significa perdere qualcosa, una parte della propria identità, oppure una serie di vantaggi, quindi di sicuro il coach non può assumere uno stile confrontazionale, non può schierarsi aprioritariamente in favore del cambiamento senza essersi prima sintonizzato empaticamente sul proprio coachee.
Lo schieramento (advocacy) indica in sostanza il concetto del tono sotteso alle affermazioni del tipo <<Lo so meglio io, ascoltami>>. Poche di queste risposte possono essere sufficienti per rovinare un intero colloquio, seduta o relazione terapeutica. Quindi ricordiamo che le peggiori modalità di atteggiamento di schieramento sono:
1. Discutere per il cambiamento
2. Assumere il ruolo dell’esperto
3. Criticare, imbarazzare o incolpare
4. Etichettare
5. Affrettarsi
6. Pretendere la priorità (Stephen, 2004)
Infatti, è necessario che un coach sia assolutamente autentico e impeccabile nella propria sospensione di giudizio (non uso qui le parole “assenza di giudizio” sapendo quanto l’essere umano sia incline a formarsi una propria opinione, quantunque subconscia, nei primi secondi in cui viene a contatto con un’altra persona) e nella creazione di un clima empatico come tessuto di fondo, che non si esplica solo nel primo incontro, in cui il cliente a maggior ragione deve trovare spazio per raccontarsi, ma che costituisce la trama di tutte le sedute, per non accendere reattanza e per consentire di creare agganci, l’instaurarsi di quel “common ground” che può innescare una motivazione autentica nel cliente.
Ancora prima del momento in cui il coach sta ricercando un aggancio, un common ground che attragga l’attenzione (e soprattutto le spinte motivazionali interiori) del proprio cliente, l’empatia serve al coach per valutare attentamente i prototipi cognitivi del proprio cliente, ed essere in grado di valutare le eventuali distanze comunicative che intercorrono tra sé stesso e il cliente, in termini biologici e di identità, oppure a livello di semiotica e, a maggior ragione a livello valoriale o di vissuto personale (Modello di lettura della Incomunicabilità in distanze comunicative 4DM di Daniele Trevisani); infatti, soprattutto nelle letture delle distanze valoriali o del vissuto l’empatia servirà al coach anche più in profondità.