Dopo una settimana di ‘wow, a casa, che bello!’, lo capisce anche un bambino: le cose sono drammaticamente cambiate per tutti, per la scuola, la famiglia, il lavoro.
I nuovi luoghi di lavoro, le stanze di casa e i percorsi obbligati, sono diventati la nostra nuova realtà.
E in questa nuova realtà sta succedendo qualcosa che bussa fino ai confini della nostra sopravvivenza e creatività. Confine dei rapporti, che sono sottoposti a notevoli pressioni. Frontiere della creatività che esplodono per nutrire nuove certezze.
Come riuscire a vivere dentro queste pause obbligate e far germogliare il loro potenziale generativo?
In questi momenti, le cose che siamo riusciti a fare meglio e le carenze che ne hanno accompagnato le ombre, sono emerse con una turbolenza impietosa. Abbiamo sentito sulla nostra pelle il bisogno degli altri, il bisogno di nuovi paradigmi, il bisogno di stressare le situazioni e tirar fuori nuove idee per il futuro. E che siano anche buone, queste idee.
Ma come farlo? Come riuscire ad attrarre la nostra attenzione come fa quel bambino che dopo uno stress si dispera, ma poi si mette a giocare? Come facciamo a recuperare quella capacità di gioco, quel sorriso, quel mondo immaginifico, quell'energia creatrice di fronte a una realtà che ci fa piangere?
Cosa vuol dire per ciascuno ridere con quello che ci sta capitando?
Anche se non c’è proprio niente da ridere, vuol dire ridere di noi, dei nostri difetti, delle nostre abitudini, delle nostre debolezze, scoprendo che nel trattarci male ci vogliamo bene. Parlare male di noi, degli altri o delle situazioni, ci serve a porre le domande giuste, quelle stressanti, quelle inopportune, quelle scomode, quelle che affrontano le nostre paure, quelle parti che non vorremmo mai mostrare al mondo.
Dobbiamo prendere quelle parti di noi più impaurite, quelle frammentate e nascoste, e obbligarle a parlare dei massimi sistemi e prendere posizione con domande che tagliano la carne.
Insistendo. Cos'è che ancora non ho capito di questa situazione? Cosa mi sfugge? Qual è l’aspetto che il mio bambino interiore non riesce ancora a capire?
In pratica, occorre uscire dallo stereotipo: ‘tu sei bravo, tanto ce la fai!’ O il suo contrario: ‘tanto non dipende da te!’ Se no, è finita! Siamo obbligati alla mancanza di ossigeno delle nostre abitudini, ruoli e pregiudizi.
In un certo senso, occorre risvegliare il morto! E cioè fargli (e dunque farci) le domande più strampalate anche quando ‘dorme’, imprigionato nella propria realtà.
Con quale scopo? Creare attenzione, nuove connessioni, nuova vita, nuova realtà, nuove idee!
Non so, ovviamente, cosa significhi per ciascuno avere ‘nuove idee o creare una nuova realtà’, ma abbiamo la grande opportunità di litigarci, con questa realtà, e riconfigurarla in maniera più interessante. Ci conto! Per me, per te, per noi!
I nuovi luoghi di lavoro, le stanze di casa e i percorsi obbligati, sono diventati la nostra nuova realtà.
E in questa nuova realtà sta succedendo qualcosa che bussa fino ai confini della nostra sopravvivenza e creatività. Confine dei rapporti, che sono sottoposti a notevoli pressioni. Frontiere della creatività che esplodono per nutrire nuove certezze.
Come riuscire a vivere dentro queste pause obbligate e far germogliare il loro potenziale generativo?
In questi momenti, le cose che siamo riusciti a fare meglio e le carenze che ne hanno accompagnato le ombre, sono emerse con una turbolenza impietosa. Abbiamo sentito sulla nostra pelle il bisogno degli altri, il bisogno di nuovi paradigmi, il bisogno di stressare le situazioni e tirar fuori nuove idee per il futuro. E che siano anche buone, queste idee.
Ma come farlo? Come riuscire ad attrarre la nostra attenzione come fa quel bambino che dopo uno stress si dispera, ma poi si mette a giocare? Come facciamo a recuperare quella capacità di gioco, quel sorriso, quel mondo immaginifico, quell'energia creatrice di fronte a una realtà che ci fa piangere?
Cosa vuol dire per ciascuno ridere con quello che ci sta capitando?
Anche se non c’è proprio niente da ridere, vuol dire ridere di noi, dei nostri difetti, delle nostre abitudini, delle nostre debolezze, scoprendo che nel trattarci male ci vogliamo bene. Parlare male di noi, degli altri o delle situazioni, ci serve a porre le domande giuste, quelle stressanti, quelle inopportune, quelle scomode, quelle che affrontano le nostre paure, quelle parti che non vorremmo mai mostrare al mondo.
Dobbiamo prendere quelle parti di noi più impaurite, quelle frammentate e nascoste, e obbligarle a parlare dei massimi sistemi e prendere posizione con domande che tagliano la carne.
Insistendo. Cos'è che ancora non ho capito di questa situazione? Cosa mi sfugge? Qual è l’aspetto che il mio bambino interiore non riesce ancora a capire?
In pratica, occorre uscire dallo stereotipo: ‘tu sei bravo, tanto ce la fai!’ O il suo contrario: ‘tanto non dipende da te!’ Se no, è finita! Siamo obbligati alla mancanza di ossigeno delle nostre abitudini, ruoli e pregiudizi.
In un certo senso, occorre risvegliare il morto! E cioè fargli (e dunque farci) le domande più strampalate anche quando ‘dorme’, imprigionato nella propria realtà.
Con quale scopo? Creare attenzione, nuove connessioni, nuova vita, nuova realtà, nuove idee!
Non so, ovviamente, cosa significhi per ciascuno avere ‘nuove idee o creare una nuova realtà’, ma abbiamo la grande opportunità di litigarci, con questa realtà, e riconfigurarla in maniera più interessante. Ci conto! Per me, per te, per noi!