Per alcune persone, l’amore per il proprio cane è totalizzante. E’ famiglia. E quando il cane comincia a manifestare gli acciacchi degli anni o si ammala, la paura di perderlo, mette in campo ogni sforzo per sapere cosa stia accadendo e potervi far fronte.
In momenti così dolorosi e angoscianti succede di tutto: le corse dal veterinario, dibattiti in famiglia, pianti, ricordi di altri lutti.
Insomma, una situazione infelice, all'ombra di uno stato di impotenza dove la mente va sotto scacco.
Dato che mi capita spesso di condividere questo tipo di esperienze, propongo un’interpretazione diversa di come far fronte al possibile lutto, sofferenza e impotenza, che in queste circostanze si vive.
Chi è il protagonista della sofferenza?
E’ la nostra mente con la sua naturale capacità di identificarsi, organizzarsi e umanizzare ogni esperienza e relazione, cane compreso. Attraverso l’identificazione, i meccanismi protettivi e di controllo della mente, fanno sì che il cane diventi il prolungamento della nostra identità. Il cane diventa noi e la sua perdita diventa una sofferenza infinita. Che spesso non possiamo tollerare.
Ma il cane è il cane e noi siamo noi. Lui, soprattutto, è lui, con il suo vissuto ed esperienza. Va accompagnato nel suo modo di essere e di vivere, possibilmente non con ansia o catastrofismo.
L’intenzione che sta dietro gli sforzi di bilanciare la sofferenza è autoprotettiva e legittima, naturalmente, ma l’interpretazione dei fatti, cioè che il cane sta male e di conseguenza 'noi stiamo male', è sbagliata. E’ legittima, ma è sbagliata.
E quali sono i fatti?
Che il cane non è il prolungamento della nostra mente, come non lo è un membro della nostra famiglia, o amico. Il cane non è una nostra ‘proprietà’.
Con il nostro cane siamo entrati in relazione, abbiamo investito il nostro affetto, ci ha confortati ed emozionati, ma lui è lui e ora sta facendo la 'sua' esperienza.
Vogliamo veramente essergli vicino e fare qualcosa di buono che fa bene anche a noi?
Abituiamoci a una nuova fase della vita; ricordiamo le cose belle vissute insieme, ma pensiamo che lui è il nostro cane felice, che lui è lui, e che la morte non è la nostra morte, ma la sua e nostra, esperienza. Di cui andarne fieri.
In momenti così dolorosi e angoscianti succede di tutto: le corse dal veterinario, dibattiti in famiglia, pianti, ricordi di altri lutti.
Insomma, una situazione infelice, all'ombra di uno stato di impotenza dove la mente va sotto scacco.
Dato che mi capita spesso di condividere questo tipo di esperienze, propongo un’interpretazione diversa di come far fronte al possibile lutto, sofferenza e impotenza, che in queste circostanze si vive.
Chi è il protagonista della sofferenza?
E’ la nostra mente con la sua naturale capacità di identificarsi, organizzarsi e umanizzare ogni esperienza e relazione, cane compreso. Attraverso l’identificazione, i meccanismi protettivi e di controllo della mente, fanno sì che il cane diventi il prolungamento della nostra identità. Il cane diventa noi e la sua perdita diventa una sofferenza infinita. Che spesso non possiamo tollerare.
Ma il cane è il cane e noi siamo noi. Lui, soprattutto, è lui, con il suo vissuto ed esperienza. Va accompagnato nel suo modo di essere e di vivere, possibilmente non con ansia o catastrofismo.
L’intenzione che sta dietro gli sforzi di bilanciare la sofferenza è autoprotettiva e legittima, naturalmente, ma l’interpretazione dei fatti, cioè che il cane sta male e di conseguenza 'noi stiamo male', è sbagliata. E’ legittima, ma è sbagliata.
E quali sono i fatti?
Che il cane non è il prolungamento della nostra mente, come non lo è un membro della nostra famiglia, o amico. Il cane non è una nostra ‘proprietà’.
Con il nostro cane siamo entrati in relazione, abbiamo investito il nostro affetto, ci ha confortati ed emozionati, ma lui è lui e ora sta facendo la 'sua' esperienza.
Vogliamo veramente essergli vicino e fare qualcosa di buono che fa bene anche a noi?
Abituiamoci a una nuova fase della vita; ricordiamo le cose belle vissute insieme, ma pensiamo che lui è il nostro cane felice, che lui è lui, e che la morte non è la nostra morte, ma la sua e nostra, esperienza. Di cui andarne fieri.