Arriva Carolina, scambiamo qualche parola, parlando del più e del meno, con la solita leggerezza. Ma all'improvviso si fà seria e mi dice di aver incontrato il marito di Mavi, la nostra compagna che non frequenta più a causa di un tumore, e che da lui ha appreso che Mavi è allo stadio terminale.
Sento che il mio respiro si ferma, entro in apnea, il mondo attorno scompare.
Arrivano le altre ragazze, ed io comincio a sdoppiarmi, mi sento pronunciare parole di benvenuto, mi vedo scegliere la colonna sonora della pratica che andremo a cominciare, mi ascolto mentre do il via alla pratica. Ma io sono come congelata. La mia mente è rimasta alle parole di Carolina “Mavi è alla fine”.
Grazie a Dio ci sono circa dieci minuti di respirazione, dove le ragazze stanno ad occhi chiusi, e io mi permetto di far uscire qualche lacrima. Quando le asana devono susseguirsi, e devo strutturare la lezione, la mia voce parte come un sussurro, forse verrà percepita come una carezza, che accompagna una lezione molto leggera, composta da posizioni che tutte conoscono, che mi permette di non espormi in correzioni, aggiustamenti, esortazioni che oggi non riuscirei a trovare. Poco a poco ritrovo la voce, ma seguo un percorso che conosco a memoria, agisco con meccanicità. In realtà sono paralizzata dentro di me, e mentre la pratica si svolge io fisso il punto in cui Mavi andava sempre. Il suo posto.
Conclusa la lezione scambio qualche parola con le ragazze, e quando rimango sola mi siedo e guardo il vuoto dentro e fuori di me. Non riesco a muovermi. Quando lascio lo studio vado a casa con il cuore che è un macigno che mi porto dentro, e sento le gambe spezzate. Salgo in ascensore, arrivo a casa, mi accorgo che ho dimenticato nel bauletto dello scooter un libro, scendo le scale a piedi, e cado.
Scivolo e cado.
Mi rialzo, mi fa male la caviglia, invece che prendere il libro vado al pronto soccorso. Le radiografie dicono che non c'è nulla di rotto. E' una distorsione di media entità: mi fanno un bendaggio che parte dal piede ed arriva al ginocchio. “deve stare a riposo per venti giorni, camminare con le stampelle, stare poco in piedi”.
Secondo un modo esoterico di interpretare la malattia e i traumi, incidenti compresi, questi non sono accidentali, disturbi causali senza un perché. Ma esprimono aspetti repressi, temuti e accantonati della nostra vita. Secondo Thorwald Dethlefsen, psicologo e psicoterapeuta di impostazione esoterica, nel corpo si esprimono le informazioni della coscienza, della psiche. Egli mette in luce gli aspetti metafisici della malattia. I sintomi patologici, considerati da questo punto di vista, si rivelano espressioni fisiche di conflitti psichici e possono smascherare con il loro simbolismo il problema centrale del paziente.
Sempre secondo Thorwald Dethlefsen la legge di risonanza fa sì che noi non possiamo venire in contatto con qualcosa con cui non abbiamo niente a che fare. Potremmo dire “noi ci cerchiamo i nostri incidenti”.
L'affermazione che gli incidenti sono inconsciamente motivati non è nuova. Già Freud nella sua “Psicopatologia della vita quotidiana” accanto alle azioni sbagliate (lapsus, dimenticanze, errori)
descrisse gli incidenti come il risultato di un'intenzione inconscia.
Nel mio caso ho trasferito sul piano fisico la sensazione di impotenza rispetto alla notizia ricevuta,
la sensazione di non aver saputo fare di più, e quindi il desiderio di fermarmi.
Dal sentirmi metaforicamente le gambe spezzate, le ho davvero fermate.