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'La consapevolezza di essere leader' di Lorenzo Savioli

31/12/2020

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Viviamo in un periodo di grandi cambiamenti che impattano significativamente sulla nostra vita lavorativa, privata ed ultimamente anche emozionale. Il mondo cambia rapidamente e spesso questo cambiamento è accompagnato da incertezza, malessere di fondo, irrequietudine.
 
Il modo di lavorare è cambiato, il modo di fare relazione è cambiato, il modo “essere” è cambiato.
 
In questo contesto anche la Leadership sta cambiando perché il “modo di fare le cose” sta cambiando. Da una Leadership basata sul “Fare” emerge sempre di più una esigenza di Leadership basata sull’”Essere”, che sappia valorizzare la persona, ascoltarla e metterla al centro del tutto.
 
Da dove partire per sviluppare questa nuova Leadership?
La risposta è nella capacità di coltivare la nostra Self Leadership. Spesso siamo focalizzati sull’essere Leader per gli altri dimenticandoci di noi stessi. Diventare Leader di noi stessi permette di trovare allineamento interiore, energia e dinamicità, senso di realizzazione.
 
La pratica della Self-Leadership si articola in tre pilastri fondamentali:
Self Awareness, Self Confidence, Self Efficacy.
 
Acquisire consapevolezza di sé stessi permette di “stare bene”, di gestire le emozioni e non farsi gestire da esse, di vivere al meglio il presente assaporando pienamente la presenza nel cosiddetto “qui ed ora”. Per acquisire Consapevolezza bisogna partire dal “Perché” delle cose, il perché legato ai nostri valori e alla nostra Identità. La domanda da porsi e a cui dare risposta è: quale è il tuo Perché?
 
Avere fiducia in sé stessi permette di essere consci delle proprie capacità, di valorizzarle per la unicità che ci conferiscono e di essere “felici” per quello che siamo, con i nostri pregi e difetti.
La fiducia in noi stessi è legata al “Come” facciamo le cose, Come che si ricollega alle nostre più profonde capacità di Fare ed Essere. La domanda chiave in questo caso è: quali sono le mie convinzioni depotenzianti e quelle potenzianti?
 
Essere efficaci, ossia riuscire a concretizzare i nostri obiettivi, permette di dare forma reale alla nostra progettualità, permette di realizzare e di realizzarci, permette di progredire giorno dopo giorno. Il senso di efficacia è legato al “Che Cosa” facciamo, e quel cosa facciamo diventa la differenza che fa la differenza. In questo caso la domanda guida è: quali sono i miei comportamenti utili?
 
“Non è la specie più forte che sopravvive ma quella che meglio si adatta al cambiamento” diceva Darwin parlando di evoluzione della specie; lo stesso vale per i Leader e la Leadership. Solo il Leader che è in grado di adattare la Leadership al Cambiamento sopravvivrà; spesso quel Leader siamo noi stessi e dalla capacità di adattare la nostra Self Leadership al cambiamento dipende il nostro senso di felicità, la nostra capacità di essere soddisfatti di quello che siamo e facciamo e il vivere pienamente la nostra realtà lavorativa e soprattutto privata.
 
Master STEP: Leadership Masterclass il 23-24 Gennaio 2021
Per info e iscrizioni
http://www.stepconsapevole.it
 
Copyright Lorenzo Savioli anteprima editoriale riservata
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'Deep Empty Inside' di Gianluca Capuzzo

29/12/2020

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La vita in se stessa è una tela vuota; diventa ciò che tu dipingi su di essa. Puoi dipingere infelicità, puoi dipingere estasi. Questa è la tua gloria.
(Osho)

 
Ma quando la tela resta vuota, quando cerchi disperatamente i colori…
“chi me li ha presi!”
“ne avevo tantissimi…!”
“non possono essere spariti tutti…!”

Quando fino a ieri la tela era un divenire di forme e colori, tutti ben accoppiati, ben intonati, ogni parte del dipinto era ben integrata nel contesto, era una gioia per gli occhi, colmava il cuore, non c’era spazio più per nulla, ma ci stava ogni nuova cosa che ti veniva in mente, sempre ben colorata, sempre ben al suo posto.

Poi tutto finisce, in breve tempo una gomma cancella tutto, la tela torna vuota, bianca, anzi macchiata di grigio, i colori svaniti, i pennelli scomparsi, vorresti disegnarci qualche cosa, “così non va bene!” risuona forte dentro di te, ma pare non ci sia via di uscita…
​
Quali domande è giusto farsi in queste situazioni?
Dove dirigere lo sguardo?
Dove trovare nuove energie quando le batterie sembrano essere addirittura sparite dal loro alloggiamento…?
Come sempre andando in fondo a noi stessi è difficile rispondere, o a volte è così terribilmente facile che non riusciamo a farlo.
Cosa stò cercando?
Cosa voglio adesso per me?
Posso averlo?

E’ come quando programmiamo un allenamento, è inutile porre un obiettivo troppo lontano dalle nostre possibilità, non lo raggiungeremo e creerebbe solo sentimenti di sfiducia, insoddisfazione, tristezza, e allora la domanda vera è un'altra ed appare più chiara…
Di che energie dispongo ora?
Cosa ci posso fare?

Se anche fossero poche, se anche di colore e pennelli non ce ne restassero più, ma ci fosse rimasto un dito sporco di rosso? In fondo i pittori sono sempre imbrattati di mille colori… se da qualche parte sul grembiule o sulle mani fosse rimasto qualcosa con cui dipingere?
Perché non usarlo, in fondo una tela grigia con un po’ di rosso o un po’ di blu cambierebbe già prospettiva.

Non sarebbe un gran capolavoro, ma il meglio che riusciremmo a fare in quel momento.
Non sarebbe un inizio? Meglio la stasi o il movimento? Poco movimento sempre movimento è…
Ed allora muoviamoci, per quel che riusciamo, con quelle poche energie che ci restano, dipingiamo quella tela anche solo con il colore che ci è rimasto sulle dita, intanto la ruota girerà di nuovo e magari un nuovo viaggio inizierà.

Può essere una prospettiva al vuoto profondo?
Secondo me si, o almeno non costa nulla provarci…
E allora… Buon lavoro…!
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'E' ora di sintonizzarci' di Lorenzo Manfredini

20/12/2020

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Probabilmente il nostro tempo sta fluendo in modo diverso dagli altri. Come i treni di inizio secolo, che partivano all’ora giusta dalla città di origine, ma non si incrociavano mai puntualmente (ogni città aveva il proprio orario), così noi abbiamo il nostro segnatempo interiore che fatichiamo ad armonizzare con quello degli altri.

Questo dipende dalla nostra organizzazione psicologica di impegni e scelte, ognuna delle quali è sempre ordinata quando la determiniamo, ma si scompiglia man mano che procediamo nella sua realizzazione. Questo processo si chiama entropia.

Nel nostro piccolo, viviamo l’entropia come qualcosa che passa, nel suo sviluppo, dall’ordine alla confusione. Ogni volta che prendiamo una decisione, questa è il frutto di una armonia di condizioni che, mentre si dispiegano, si scompongono e fanno sentire tutto il ’caos’ del loro svolgimento.

Quindi è naturale percepire il desiderio di superare il difficile momento che tutti attraversiamo: è l’espressione di un ordine interiore di alto livello. Così come è faticoso tenere insieme le ragioni che dipendono da quelle scelte: lavoro, studio, preparazione, verifiche. Quando le troviamo lungo la nostra strada come manifestazioni di forze centrifughe, e quindi ‘ansiogene’, non sembriamo essere gli artefici di quelle condizioni. Eppure, la nostra idea iniziale era chiara: ‘volevamo brindare al tavolo dei nostri desideri più ambiziosi’.

E ora che il bicchiere è caduto (le scelte sono fatte) ed i frantumi esplodono in mille direzioni (gli impegni ed i problemi si moltiplicano) facciamo in modo di modificare le frecce di quelle ‘fughe’ per rivoltarle al centro, una per una, all’idea originaria.

Quindi brindiamo al piacere di scelte consapevoli, il cui dispiegamento ci regala, sì, ‘caos’, ma soprattutto ‘scoperte’.
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'La difficoltà di esprimere le debolezze' di Ingrid Maddalena

19/12/2020

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Ho cambiato il titolo e l’argomento di questo post una quindicina di volte prima di arrivare al concetto che volevo esprimere.
Inizialmente avrei descritto come alcuni esercizi e riflessioni emersi nel primo incontro di questo Master mi siano stati utilissimi nella preparazione delle mie atlete. Avrei detto come due ori ed un bronzo siano stati il risultato di una applicazione efficace di queste tecniche e di come tutt’ora siano diventate parte integrante del mio metodo di preparazione delle agoniste.
 
Tuttavia, non è di questo che parlerò.
 
La verità è che mi mancava l’ispirazione di scrivere qualcosa di più intimo e personale. Forse ora, dopo due mesi e mezzo, ho capito: guardarsi dentro è difficile e lo è soprattutto ammettere di essere imperfetti e deboli. È estremamente arduo per alcune persone - spesso proprio per quelle che all’apparenza si pongono come dure, forti, sicure- ammettere di vacillare nella loro infinita umanità. È quasi un dolore a volte e spesso anche nei miei workshop mi ritrovo qualche studente che esce dall’aula piangendo. Io lavoro con il corpo e con i movimenti che sono espressione di quello che si prova e non si dice. Il corpo non mente: quando cerchi di sbloccarlo è estremamente delicato il momento in cui entri in contatto con te stesso. Se nascondi sotto un tappo quello che provi e cerchi di evitarlo, il tuo corpo non sarà mai fluido né esprimerà self-confidence, figuriamoci di fronte ad un pubblico o ad una giuria. Quando cerchi di togliere il tappo si apre un mondo.

A volte vedo ragazze distrutte psicologicamente dopo esercizi di improvvisazione e percepisco ciò che nascondono. Forse sono empatica, forse sono solo attenta (che poi, attenzione ed empatia sono sinonimi no?) ma mi accorgo sempre più che siamo fatti di emozioni e passiamo parte della vita a nasconderle.
Mi sono riproposta di portare avanti un esperimento che è iniziato poche settimane fa e che terminerà con una competizione a giugno: fare della più grande paura e debolezza di una delle mie ragazze il tema principale della sua performance. Sarà interessante seguirne lo sviluppo interiore e tradurre in punto di forza e di unicità, in movimento ed espressione artistica, quello che per lei rappresenta un ostacolo.  
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“Esserci” nella relazione: separare l’ascolto dalle attività di “espressione” e generare il “flusso empatico” di Daniele Trevisani

13/12/2020

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Nel testo del Libro Ascolto Attivo ed Empatia, l’autore, Daniele Trevisani, focalizza l’attenzione su diversi ingredienti dell’empatia. Riportiamo un passaggio dal testo.
 
Ps. Empatia PDF. Se vuoi leggere il testo completo della ricerca scaricabile sul tema Empatia e Ascolto attivo, scarica il PDF relativo Dispensa_Empatia_V_02 pdf
 
Poche delizie possono eguagliare la semplice presenza
di colui di cui ci fidiamo totalmente.
 (George MacDonald)
 
Nell’empatia, “esserci”, è importante. Per “esserci” è essenziale non confondere i piani, l’ascolto, e l’espressione. La comunicazione d’ascolto, e la qualità dell’ascolto, comprendono la necessità di separare nettamente, e prima di tutto mentalmente, le attività di attenzione alla comunicazione altrui, la sua comprensione (comunicazione in ingresso) dalle attività di espressione di nostri messaggi (comunicazione in uscita).
Possiamo parlare veramente di un “flusso”, un flusso empatico, un flusso bidirezionale che scorre tra due persone durante una comunicazione empatica. Un flusso che, a volte, ha qualcosa di magico. Attenzione: chiaramente il contenuto di questo flusso in termini di parole, frasi, espressioni del volto e ogni altro “contenuto comunicativo” viene espresso da chi parla, ma chi ascolta esprime un flusso altrettanto potente, persino ancora più potente, il flusso dell’attenzione e della presenza mentale. Due flussi di apertura, di accettazione, che creano un momento di condivisione umana unica e speciale. Se ti accade di sentirti dire “non mi sono mai sentito così capito come in questa conversazione, grazie davvero” è probabile che il tuo tasso di empatia sia stato alto.
 
Figura 9 - Separazione del flusso di espressione dal flusso empatico
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Quando sapremo separare bene questi due flussi, prima di tutto a livello mentale, poi sul piano fisico e comportamentale, sapremo come dare presenza, evitando di intromettere il flusso empatico con comunicazioni non appropriate. Quando sarà “il nostro turno”, saremo sempre e comunque empatici, “collegati” e pertinenti.
 
Ci sono persone che lasciano la loro presenza in un luogo anche quando non ci sono più.
(Andy Goldsworthy)

Altri approfondimenti Su Ascolto Attivo ed Empatia a questo link

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'La comunicazione nell'ERA del COVID' di Vincenzo Sangiovanni

13/12/2020

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Il titolo l’ho preso da una domanda di Daniele posta nell’incontro on line di Novembre.. Mi sono chiesto cosa era cambiato nella struttura delle relazioni interpersonali durante la crisi peggiore della nostra epoca.. Mentre cercavo le caratteristiche della comunicazione correlate a questa crisi, mi sono reso conto che in questo tempo risulta più semplice e immediato, per chi voglia indagare, esplorare la struttura ed i limiti delle Relazioni. Direi che vi sono le condizioni sperimentali ideali per una analisi del sistema di Relazioni... distanziamento sociale, isolamento, potenziamento emozionale e percettivo, tempi di introspezione adeguati (almeno per molti)..

Da mesi rifletto sul tema partendo dalla convinzione, maturata nel corso di anni di esperienza professionale, personale e di partecipazione a decine di corsi di varia natura, che l’anello debole della comunicazione interpersonale sia il FEEDBACK. In particolare in quasi tutti i corsi che ho frequentato il feedback rappresentava certamente l’aspetto più debole.. In alcuni di questi semplicemente non era previsto, in altri era ampiamente sacrificato in formule-questionari limitanti.. In una stretta minoranza invece era richiesto, a volte stimolato con insistenza.. ma niente da fare .. la maggior parte delle mie esperienze è stata negativa.. in tutte le variabili,  di quantità, qualità, raffinatezza linguistica, sospensione del giudizio.. i fb risultavano assenti o mediamente deludenti.. per non parlare in ambito di Relazioni interpersonali quotidiane, personali o professionali.. un disastro.. fb assai faticosi, usualmente edulcorati..

Quindi c’è qualcosa a monte che non funziona e non permette di dare e ricevere fb soddisfacenti.. Qual è il presupposto del feedback ?? Direi l’ASCOLTO. L’ascolto degli Altri e di Se per il Feedback e l’auto-feedback (auto-feedback questo sconosciuto..). Senza ascolto di Se e auto-feedback, a mio parere, non si crea quel terreno esistenziale, quella relazione con Se paradigmatica di tutte le relazioni con l’altro. Quella distanza tra se stessi e il proprio agire e pensare ed emozionarsi che permette un’auto-analisi costante e ripetuta. Senza auto-feed back non può esserci un feedback congruente così come senza auto-ascolto non può esserci un efficace ascolto dell’Altro.

Qual’è  il presupposto comportamentale che sta alla base dell’ASCOLTO ed AUTO-ASCOLTO..  ?
Ecco alla base di tutto sta l’ATTENZIONE. L’Attenzione è codificata tra le funzioni cognitive principali e sperimentalmente meglio testabili. Ma non voglio scomodare le neuroscienze per mostrare ciò che è sotto gli occhi di tutti.. E’ di qualche anno ormai lo studio, ampiamente rintracciabile su internet, riguardo la riduzione drammatica dello SPAN di ATTENZIONE medio delle persone. Che risulterebbe circa di 8 secondi.. Questo tempo può sembrare una provocazione .. un insulto alla nostra umana intelligenza.. Eppure sono fermamente convinto che questo risultato sia credibile..

Quindi che fare? Sempre che accettiamo questo assioma, cioè che investire sull’attenzione di Se e dell’Altro ci porterà ad un Auto-ascolto ed un ascolto più profondi ed efficienti. Certo, l’Empatia e altre risorse accessorie ci aiuteranno nel rafforzare la nostra motivazione e la nostra pratica di Ascoltare.

La relazione più problematica e complessa della mia vita è senz’altro quella con le mie figlie adolescenti..   Mi ricordo che a volte quando erano bambine in risposta a domande “impossibili” rispondevo loro di guardare la Natura.. “Come farebbe in questa situazione un Animale? Come farebbe un Albero?”. Questa risposta, se usata con parsimonia, spesso le spiazzava.. rompendo un circolo logico vizioso e spostando l’attenzione su un terreno nuovo, inesplorato, misterioso.. E’ un piccolo esempio delle infinite possibili DOMANDE che possiamo porre a noi stessi o agli altri per allargare i nostri limiti cognitivi ed esperienziali.. Allargando il perimetro di Se l’attenzione sarebbe trascinata per inerzia.. Cioè ampliare, espandere Noi stessi in tutte le direzioni.. in profondità (come l’esperienza subacquea).. in alto.. a destra e a sinistra.. ed in altre dimensioni, pragmatiche o spirituali che siano.. Certo quello che sto dicendo è un azzardo, un triplo salto carpiato.. ma se non vi siete persi da qualche parte tra le righe del testo..  ebbene se siete arrivati intatti sin qui.. la vostra ATTENZIONE ha fatto un piccolo passo avanti..
Allora: Che possiamo fare in questo tempo di pandemia per implementare l’attenzione, l’ascolto ed eventualmente il feedback? Cioè le basi strutturali e comportamentali della Comunicazione?? Torno ad un’altra frase di Daniele che ho trascritto negli appunti e la condivido così come l’ho accolta: ci invitava a “Donare l’Empatia! Cerchiamo, chiamiamo, ascoltiamo le persone!”. In questi mesi ho inviato (e continuo a farlo) molti messaggi di solidarietà, incoraggiamento, affetto (a volte conditi con cuoricini e faccine che sorridono..), foto di paesaggi suggestivi o di semplice vita quotidiana.. Uso abitualmente parole gentili partendo dal semplice classico BUONGIORNO! E parole di gratitudine, riconoscenza, affetto e fratellanza..

E soprattutto cerco di accogliere e ascoltare (in modalità messaggio, telefonica o in presenza) le persone che manifestano un bisogno, un disagio, un problema.. qualsiasi segnale di tensione, affaticamento, tristezza… CERCO.. Le persone che esprimono disagio sono molte e la mia energia non è infinita.. Spesso le manifestazioni di disagio sono espresse a distanza, molto più che in passato. La maggior parte delle relazioni familiari e amicali si esprimono in lontananza.. Allora CERCO di chiamare le persone e mi concentro sulle loro parole, sulle sfumature paraverbali e lascio scorrere il tempo.. cerco di non intervenire, lascio parlare.. a lungo, il più possibile.. finché il discorso dell’Altro si esaurisce naturalmente.. CERCO.. E’ molto difficile, a volte non ci riesco, altre volte mi mordo la lingua spostando (troppo) l’attenzione alla mia pulsione di intervenire, di parlare, di condividere interpretazioni o donare soluzioni.. Ecco, CERCO in sostanza di dosare il tempo tra l’ascolto e la Parola, immergendomi in uno stato di silenzio attento.. al mio stato interno e al discorso dell’Altro. Una sorta di danza della parola e del silenzio.. danziamo insieme, così lontani e così vicini…

Procediamo: che possiamo fare come COMMUNITY? Innanzitutto usare ciò che è già disponibile. Leggere le mail di Lorenzo, seguire il sito di Daniele, guardare i video, leggere e commentare i post.. Usare (con parsimonia) la chat di whatsapp.. Fare gli esercizi in videochiamata oppure (speriamo presto) nei weekend di corso.. partendo in primis  dall’attenzione alle regole proposte.. Rispettare i tempi e la procedura anche come esercizio di attenzione. Usare quelle domande nell’esercizio e sperimentarle anche su noi stessi.. una, dieci, cento volte se necessario.. finché non ne avremo colto il senso.. Dare feedback ogni volta che è possibile! Stiamo costruendo una CONSAPEVOLEZZA di ciò stiamo facendo. Partecipare e condividere l’esperienza del gruppo in quello che già c’è ed eventualmente proporre nuovi percorsi. 
​
Cosa aggiungere? Due semplici proposte per i nostri referenti Lorenzo e Daniele e Riccardo.. 1) Monitorare la qualità dell’attenzione durante il lavoro in presenza partendo dal rispetto basico delle regole e dei tempi degli esercizi.. e 2) Dare più spazio per feedback e auto-feedback nel modo che riterranno opportuno.
Forza ragazzi! Cerchiamo di arrivare almeno a 10 SECONDI !! 
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'Cosa nasconde un'emozione? di Gian Luca Capuzzo

5/12/2020

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Ogni tanto basta nulla, una musica, la scena di un film, una canzone sentita altre cento volte senza attenzione, ma quella volta capita qualcosa di diverso, scatta un meccanismo, qualcosa si muove improvvisamente e nasce un emozione, non sai che gusto ha, non sai di che colore è né da dove arriva e dove vuole condurti.

L’unica cosa che sai è che è terribilmente forte, ma dolce allo stesso tempo, ti strattona e ti abbraccia con dolcezza, ti riempie di gioia ed al contempo fa vibrare fortemente le corde della tua tristezza.

Muove dentro di te qualcosa di primordiale, un pot-purri di quel che sei, di quel che vorresti essere, dei tuoi affetti e di quelli che vorresti avere e non hai, di tutto ciò che hai raggiunto e di ciò che ancora ti manca, ma per cui stai lottando.

Rimani un poco sorpreso da tutto questo, e le domande sono diverse…
Cosa è questo?
Da dove nasce?
Lo lascio scorrere o lo blocco?
In questo caso non è difficile scegliere, non c’è un giusto o uno sbagliato, dipende da noi e solo da noi, cosa siamo disposti ad “assaggiare” oggi?
​
Vogliamo zittire questa voce? Nulla di male, se pensiamo sia giusto farlo, rimarrà sopita solo fino a che non saremo pronti per ascoltarla.
Vogliamo lasciar suonare questa musica dentro di noi? Bene godiamoci allora appieno tutto ciò che ci porta, senza freni di sorta e senza giudizi, godiamoci il qui ed ora.
Molto spesso ci troviamo a voler o dover sezionare le nostre emozioni per capirle, metabolizzarle, gestirle.
Nella nostra vita quante volte il “controllo” è il direttore d’orchestra?
Non potrebbe essere il caso ogni tanto di lasciar fluire un poco di sano Caos? Cosa mai potrebbe capitarci?
Non resta che provarci…
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'Il corpo del counselor nel colloquio di counseling' di Michela Dresseno

5/12/2020

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Questa riflessione parte dal mio corpo vissuto, parte dalla mia esperienza, da un ascolto profondo del corpo durante il colloquio di Counseling in veste di Counselor..
Premetto col dire che, secondo il mio modo di vedere e percepire la realtà, il corpo con tutto il suo sentire ed esprimersi è una fonte più veritiera di qualsiasi parola o meglio di qualsiasi altra forma espressiva.
Mi rendo conto che quest'ultima affermazione è forte e opinabile, ma sto parlando per come io sento e vivo la realtà.

Il mio corpo è lo strumento più efficacie e fedele per comunicare, la mia arte espressiva si manifesta con la danza libera, il mio corpo “ ringrazia” ed è al massimo della sua prestanza quando si trova a far fatica all'aperto, il mio corpo sente e si aggiusta alle vibrazioni di un altro corpo, ma soprattutto il mio corpo è il mio termometro delle emozioni!

Si, la chiamo così quell'esperienza che vivo, per esempio in Biodanza, quando muovendomi nello spazio con la musica sento il polso della situazione, soprattutto di quella interna.
Questo per me è meraviglioso!
Questa lunga premessa per dire che anche mentre sto in ascolto e in relazione con una persona, durante il colloquio di Counseling, vivo una sorta di movimenti corporei.
La prima fase del Colloquio è l'ascolto passivo e serve per comprendere il tema che porta la persona.

Mi piace il termine “ comprendere” perché deriva dalla parola cum – prendere ovvero prendere con me l'altro.
Questo prendere con me l'altro implica che io lo prenda totalmente: ne prenda la parola, la gestualità,la mimica,il suo stile personale...tutto!
​
L'ascolto nel Colloquio ha a che fare con due aspetti: l'ascolto di me e l'ascolto dell'altra persona.
L'ascolto di me riguarda l'ascolto del mio corpo e delle emozioni che mi suscita la narrazione della persona che ho davanti.
Infine, soffermandomi sull'ascolto del mio corpo ( ascolto recettivo) posso andare a sentire e chiedermi:
  • Com'è il mio respiro?
  • Come sto sulla sedia?
  • Che espressione ha il mio viso?
  • Cosa mi dice il mio tono muscolare?
  • Quale aggiustamento posso adottare?
 
Durante la fase dell'Ascolto credo sia importante prima di tutto prendersi un momento per sentirsi, ritrovare il proprio radicamento ( il grounding ) per poi poter vedere l'altro e poterlo accogliere con un'autentica e congruente presenza.
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'Il potere del perchè' di Francesco Cazzaro

26/11/2020

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Una delle domande da evitare durante una sessione di coaching è “perché”?
 
Cerchiamo di approfondirne il motivo …. è UNA DOMANDA che mi sono posto nel chiedermi appunto perché voglio scrivere un ebook? La risposta che mi sono dato al momento è che è un modo molto moderno ed efficace per mettere a disposizione di molte persone le mie conoscenze e per mettere al centro del mio Progetto Futuro di vita la mia capacità di divulgazione. Certo è anche un modo per poter ottenere una rendita passiva, ma soprattutto per me è una prova. Esattamente, perché facendo un test trovato in internet di Riza Psicosomatica è emerso che il MIO TALENTO PRINCIPALE è la mia capacità di DIVULGATORE.

Il perché allora mi fa pensare che possa individuare, dentro l’individuo, ciò che è eccitante per lui, ciò che lo fa agire liberamente, ciò che gli permette di avere sempre un fuoco acceso.
Scorrendo il primo corso di Roberto Re, Coach di te stesso, fascicolo n.1 della collana pubblicata da Tema promotional in edicola, al punto la Mission Personale: il “perché” più alto … continua dicendo che niente nell’universo è stato creato senza uno scopo e noi siamo qui per una ragione (pag. 83, fascicolo citato).

“Se vuoi una vita felice devi dedicarla ad un obiettivo, non a delle persone o a delle cose” dice Albert Einstein. Non proprio uno di noi, ma uno che ha saputo, andando contro ogni tipo di convinzione limitante esterna, imprimere un cambio di direzione all’umanità.

Credo che, anche senza dover scomodare un genio come Einstein, è proprio questa piccola domanda, “PERCHE’?” da ripetere probabilmente solo all’inizio di un percorso di coaching, molto utile e profonda per estrarre le vere motivazioni che spingono il nostro cliente all’azione. Così scopriamo che il “perché” è una domanda non solo “potente” ma anche apripista di un percorso che può davvero portare al successo, alla realizzazione dell’essere umano.

Perché, perché, perché, perché, sentire in fondo al cuore la voce della verità, della nostra verità più profonda che suona all’unisono con l’universo, che ci toglie tutte quelle resistenze, che rende tutto più fluido e che rende, come dice Tim Gallwey “calma la mente”.
Il cambiamento non è mai doloroso, solo la resistenza al cambiamento lo è. Buddha.

Questo nuovo approccio, questa apertura mentale, ci predispone a far uscire dal nostro profondo la risposta al “perché” vogliamo quello che vogliamo. Cerchiamo di comprendere come sia in linea ai nostri principi di fondo, a quella che viene definita etica, successivamente un bravo coach è in grado di creare una visione del futuro che sappia tener conto di questo scopo, nella definizione appunto di una vision e dei relativi obiettivi.

Se il tuo scopo è grande e i tuoi mezzi piccoli, agisci comunque; perché solo con l’azione essi possono crescere in te. Sri Auribondo.
Per concludere volevo citare una mia esperienza di coaching, in cui un amico che sta seguendo una scuola di Claudio Belotti mi ha eseguito l’allineamento dei livelli logici (PNL- Dilts).

L’esercizio che mi è stato fatto è potente e permette di allineare tutta una serie di valori, tra cui anche rivedere le proprie credenze e valori interni, causa dei nostri comportamenti. Senza l’analisi dei quali, difficilmente si riesce poi a cambiare strada e definire una nuova progettualità di vita.
Nel mio caso è emersa con grandissima forza, tale da essere nella prima posizione, la libertà che può avere tante definizioni. In ogni caso significa andando nello specifico, dover liberarsi da tutta una serie di lacci e lacciuoli, per proporre poi un modello di vita che senz’altro non può prevedere ad esempio di rimanere troppo tempo costipato in uno spazio chiuso.

A valle quindi di un’accorta indagine, con sapiente uso dei “perché”, si arriva poi alla valutazione della propria base di valori che va ad erigere le fondamenta della nuova identità che il coach aiuterà a costruire.
​
Successivamente, proprio per questo motivo, nelle sessioni successive non si andrà più a mettere in discussione con una domanda del tipo “perché” … i valori individuati.
 
Vorrei concludere l’articolo con una frase colta dal libro Ricordi:
Né tiranno né schiavo. 31 (pag. 53 ediz. Classici Bur Rizzoli 1984)
​
Ama quel po' di abilità che hai nell’arte tua, cerca di trovar pace in questa. E quanto ti resta della vita cerca di trascorrerlo convinto d’aver affidato agli Dei con tutta l’Anima intera le cose tue tutte quante, tu che non hai reso te stesso né tiranno né schiavo di nessun uomo.
Marco Aurelio Antonino.
​
Master Coaching – UP STEP Consapevole – Dott. Francesco Cazzaro
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'L'Era di una nuova leadership' di Lorenzo Savioli

22/11/2020

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Viviamo in una epoca di Cambiamento.
Un cambiamento rapido, repentino e impattante a cui non eravamo abituati e che, in parte, ha sconvolto la nostra Vita.
 
Quello che eravamo abituati a fare non va più bene, non è più efficace; deve quindi essere ristrutturato a livello fisico e mentale per dare un nuovo significato e trovare soddisfazione.
Viviamo in tempi di forte stress emotivo, dove il nostro sistema Relazionale ed Emozionale è duramente messo alla prova quotidianamente.
 
Lo stress non è più dato dalla quantità di “Cose” che dobbiamo fare bensì dalla quantità di “Emozioni”, purtroppo spesso negative, a cui siamo sottoposti e che riusciamo a gestire in modo efficace.
Tutto quello che non riusciamo a inquadrare, ristrutturare, definire ci pesa più di un macigno a livello interiore tanto da sentirci svuotati di ogni energia, di ogni azione e voglia di fare.
 
Serve quindi ristrutturare il nostro modo di approcciare alla realtà e al business.
Serve definire nuovi strumenti per poter lavorare in modo produttivo anche se distanti.
Serve disporre di nuovi metodi per poter comunicare efficacemente pur essendo lontani.
Serve definire un nuovo “modo” di essere Leader e condurre noi stessi, il nostro Team, Squadra, Azienda verso quello che sarà il prossimo Futuro.
 
Serve quindi una nuova Leadership; una Leadership che mette al centro la Persona e non più il Risultato.
 
Da qui nasce l’idea del Progetto ”Leader Carismatico”.
Un progetto contestuale a questo periodo storico che stiamo vivendo.
Un progetto che vuole contribuire a dare strumenti pratici, operativi e immediati per affrontare la realtà in modo efficace, efficiente e soprattutto per stare bene con noi stessi e gli altri.
 
Abbiamo convogliato l’esperienza di un Team variegato di esperti in modo da lavorare su strumenti, metodi e sulla Persona, perché siamo convinti che il centro del tutto è la valorizzazione dell’Unicità del nostro Essere.
 
Come Leader dobbiamo avere strumenti per stare bene con noi stessi, per gestire al meglio il nostro lato psico-emotivo oltre che psico-fisico. Questa la base.
Il passo successivo è disporre di buone pratiche operative per lavorare in modo focalizzato, efficiente ed efficace con il proprio Team e la propria Squadra a tutti i livelli.
L’Era del lavoro individuale è finita. La vera ricchezza del lavoro di Team risiede nella valorizzazione delle Differenze, nella Crescita comune, nella Rete Relazione che si viene a creare e che deve essere nutrita giorno dopo giorno, nella Vita cosi come nel Business.
 
Come fare?
Visita il nostro sito dedicato per info, programma e iscrizioni
 
https://leadercarismatico10x.com
​http://www.stepconsapevole.it/step-leadership.html
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'Sul distacco' di Claudio Cacco

16/11/2020

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Tornando a fare i conti con la nuova recrudescenza della pandemia da Covid, riaffiorano gli aspetti che accentuano la difficoltà a superare la sfida che la malattia ci può lanciare.

Tra questi, uno che mi ha sempre colpito nelle testimonianze che leggevo riguardava l’esperienza del distacco che si concretizzava a seguito del ricovero ospedaliero e conseguente isolamento.

Già dalle prime fasi, il malessere e l’inquietudine generate dall’allontanamento dai propri cari, l’impossibilità improvvisa di non poter condividere la difficoltà del momento, la mancanza di un contatto, di uno sguardo conosciuto intimamente che potesse in qualche modo sostenere la battaglia in corso venivano descritti come elementi di fortissimo disagio aggiuntivo.

Se non bastasse, a rendere il quadro ancora più drammatico erano le testimonianze dei medici che assistevano le persone che poi non ce l’avrebbero fatta, e che raccontavano proprio di questa disperazione amplificata dall’impossibilità di avere a fianco, in quei momenti, le persone amate dalle quali poter ricevere conforto.

Parlando in questi giorni con una mia carissima amica, alla quale è venuta a mancare poche ore prima la mamma, tra le varie considerazioni sul distacco appena vissuto, una frase da lei pronunciata mi è rimasta particolarmente impressa: “Dovrebbero prepararci fin da piccoli ad affrontare questi momenti; non arriviamo pronti ad affrontarli”.

Sono anch’io d’accordo sul fatto che per noi il distacco rappresenta un momento traumatico e non siamo preparati ad affrontarlo.

Concentrati a costruirci le nostre certezze, a pianificare le nostre vite ponendoci giustamente obiettivi da raggiungere per definire una nostra identità, pian piano ci affezioniamo a questo micro universo che ci circonda e che ci siamo creati.

L’idea di perdere pezzi di questa realtà ci fa stare male, provoca smarrimento, angoscia, ansia fino a diventare vera e propria disperazione.
Un possibile antidoto a questo processo penso ci sia reso disponibile dagli insegnamenti della filosofia buddista.

Tra i principi cardine di questa filosofia, ce n’è uno che si chiama “impermanenza”, ovvero la consapevolezza che tutto sia transitorio.
La capacità di cogliere questo aspetto, di vivere le situazioni per come si creano nel momento in cui accadono, permette di assumere contemporaneamente un ruolo di attore attivo ma anche di osservatore esterno, ricettivo ma non vincolato o vincolante.

Osservare con distacco consente una maggior consapevolezza, una pratica che conduce sempre più verso una propria realizzazione, ad una compiutezza del proprio vivere.
Consente, forse, di arrivare più preparati ad affrontare il momento del distacco assoluto, perché quest’ultimo rientra in un processo già in qualche misura sperimentato.

Il distacco, quindi, inteso come modalità di approccio, come esercizio costante, come atteggiamento rispetto agli eventi della vita assume un significato diverso dal distacco vissuto come evento traumatico connotato da aspetti solamente negativi.

L’immagine che mi viene è quella dell’astronave che nelle prime fasi del lancio nel viaggio verso le profondità del cosmo, ad un certo punto si stacca dagli elementi strutturali che hanno consentito di portarla fuori dall’atmosfera. Una fiammata, i serbatoi che si separano e cadono, la navicella che continua la sua corsa nel silenzio e l’attenzione che si concentra sulla Terra. Lì sotto restano tutti gli intrecci, le situazioni, le relazioni di un’umanità attiva che abita un Pianeta meraviglioso. Da questo punto di osservazione “distaccato” tutto diventa più chiaro e comprensibile, equilibrato nell’ordine di importanza.
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Mi piace pensare che seguire i consigli della filosofia buddista, praticare il distacco per come qui brevemente descritto, possa aiutare noi e che ci sta vicino ad affrontare e vivere al meglio i momenti di questa esistenza terrena. 
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'Paura vs covid19' di Francesco Cazzaro

8/11/2020

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Prima di dominare un nemico se ne deve conoscere il nome, le abitudini e la residenza.

Premessa
Con il passare del tempo, da quando è iniziata la chiusura per fronteggiare la pandemia, le informazioni hanno invaso tutti i mezzi di comunicazione. Abbiamo notato la prevalenza, nel prendere le decisioni di tipo politico, secondo indicazioni di un Comitato Scientifico. Alla prima ondata in qualche modo ci siamo affidati a queste decisioni, ma ora è sempre più diffusa una paura dettata dalle contraddizioni, proprio da quei personaggi che erano stati una guida durante la prima fase. Stanno emergendo le differenze e quindi noi, gente comune che mai si era interessata di questi fenomeni, si trova non solo sommersa dalle informazioni, ma con un inconscio che mette davanti scenari imprevedibili e quasi tutti o spesso negativi.
La mia riflessione vuol aiutare a distinguere quella che può essere una paura che normalmente è sotto il controllo della nostra mente, ma che oggi non riesce a trovare una bussola adeguata e saggia per fornire quella luce sempre necessaria per emergere da situazioni sconosciute.
Partendo da una guida spesso citata da molti formatori, quale è il libro di Napoleon Hill, “Pensa ed arricchisci te stesso”, voglio esprimere le mie riflessioni ed individuare una modalità che può aiutare la nostra mente a ritrovare il controllo.

Estratto da “Pensa e arricchisci te stesso” Napoleon Hill
Dubbi, Indecisioni, Timore il mix di queste 3 situazioni produce insuccesso, in ogni caso  ognuna di esse può generare la seconda e la terza situazione.
Ogni mente umana è dotata del controllo, dunque ogni pensiero che nasce può essere privo di paura e dotato del controllo. Per controllo si intende lo stato mentale, questa è l’unica cosa che possiamo controllare. Lo stato mentale è qualcosa che si assume, non la si può acquistare, dobbiamo crearlo.
Paure -> 6 paure basilari: della povertà, delle critiche, delle malattie, di perdere l’amore di una persona, della vecchiaia e della morte.
Paura della povertà: non vi è nulla di più umiliante. Anche chi non è povero ce l’ha, questo paralizza il corpo a percorrere la strada verso il successo. Questo è il maggior motivo per cui Napoleon ha scritto questo libro e per aiutare molte persone bloccate.
Riflessione: volendo ricorrere ad una esperienza personale, penso al film “alla ricerca della felicità”, in cui il protagonista vive due lati della medaglia, il manager in cerca di successo a wall street e il padre che protegge il figlio e se stesso dalla povertà.  Solo con la forza della disperazione e della determinazione, vivendo giorno per giorno, nascondendo le proprie angosce e restando allineato ed in controllo per il raggiungimento del ruolo di broker, il protagonista Will Smith riesce a mantenere una bussola orientata al successo piuttosto che ali margini della società americana.

Paura delle critiche: questo è il motivo per cui i produttori mettono nel mercato le mode ogni anno, i restyling delle auto, ecc. per offrirci l’occasione di cambiare ma secondo i loro parametri. I primi a criticarci sono i nostri parenti e amici creando un complesso di inferiorità. Chiaramente i produttori che dicevo prima, approfittano delle nostre debolezze per vendere.
Paura delle malattie: la mente umana può creare o distruggere! Le delusioni d’amore e d’affari sono in cima alla lista dei motivi che ci fanno ammalare.
Leggere i bugiardini, mettere da parte soldi per curare le malattie future, farsi commiserare ecc. sono tutti comportamenti dettati da questa paura.
Paura di perdere l’Amore: è la paura più dolorosa, a livello fisico e mentale. Sintomo principale è essere gelosi anche in maniera irrazionale ed ingiustificata. Come pure la mancanza di fiducia in sé e a volte l’eccesso nel gioco d’azzardo e nelle spese.
Paura della vecchiaia: associata a questa paura c’è quella già vista della povertà e della malattia, si inizia per così dire a “perdere colpi”. Il vestire in modo giovanile rischiando anche di diventare ridicoli.
Paura della morte: molti dicono sia questa la maggiore paura, in realtà è simile ad un lungo sonno. La medicina migliore è l’intenso desiderio di realizzarsi, sostenuto da congrui servizi resi agli altri. La mancanza di occupazioni porta il nostro cervello a riflettere più spesso alla malattia e alla morte.
Le 6 paure che abbiamo visto si traducono in uno stato di preoccupazione a causa dell’indecisione. Questo stato di dubbio che ci porta all’indecisione ed evidentemente non ci spinge all’azione ma ci colloca in una situazione di timore, fa nascere pensieri distruttivi e quindi “reazioni” negative.

La domanda che pone a questo punto Napoleon Hill è: come proteggersi dagli influssi negativi?
Raccolgo e riporto alcune domande utili a conoscersi e identificarci in questo momento:
  • A cosa pensate più spesso, al successo o al fallimento?
  • Chi vi ispira e influisce positivamente e per quale ragione?
  • Soffrite di una o più delle 6 paure fondamentali e quale?
  • Avete una tecnica per proteggervi dagli influssi mentali degli altri?
  • La vostra religione, il vostro credo, vi aiutano ad avere una mentalità positiva?
  • I vostri amici intimi, vi sono superiori o inferiori a livello mentale?

​Conclusioni

Partendo da un’esperienza personale ricordo nel 2016 di aver avuto problemi con il nervo sciatico che non mi facevano dormire, mentre provavo a guarire riflettevo sulla Paura più grande per me: la malattia. Leggendo poi un libro di Filippo Ongaro, coach degli astronauti, mi sono reso conto che potevo superare questo limite, anziché preoccuparmi iniziare a proteggere le mie cellule. Da allora sto prendendo omega 3 di ottima qualità quasi giornalmente e ne vedo i benefici.
La tecnica più pratica per migliorare lo stato mentale è la consuetudine di tenere la mente occupata con uno scopo preciso, sostenuto da un progetto ed una organizzazione. Nel mio tentativo di aver dato argomenti su cui riflettere, ho voluto con questo articolo offrire delle ricette utili a indirizzare i nostri pensieri, verso più sane abitudini tali da affrontare questo momento difficile. Saper distinguere le persone e circondarsi di quelle che favoriscono una nostra azione piuttosto che una preoccupazione, adesso può essere di vitale importanza.
 
Dott. Francesco Cazzaro (Master Coaching UP Step)
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'Amore e  passione, gli ingredienti necessari a restituire senso e capacità progettuale al nostro lavoro' di Cosimo D'Ambrosio

1/11/2020

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Dal momento che la nave è finalmente “salpata”, in questo secondo post desidero portare la mia e la vostra attenzione sui concetti di amore e passione verso se stessi, per il proprio lavoro e per gli altri, che Daniele Trevisani così efficacemente descrive nel capitolo 5 del suo libro “Psicologia della libertà” (2018, Edizioni Mediterranee).

Troppo volte ho sentito dire da colleghi avvocati e da altri professionisti che non bisogna appassionarsi troppo al proprio lavoro, in quanto i clienti, interessati solo ed esclusivamente al risultato finale, difficilmente comprenderanno gli sforzi prestati dal professionista per raggiungere l’obiettivo inizialmente condiviso.

Più di qualcuno tra i miei colleghi è arrivato persino ad affermare che il nostro “peggior nemico” è il cliente! Ma è davvero così?

Credo che, in qualunque attività professionale, non si debba confondere il valore della competenza professionale, legata al sapere ed al saper fare (hard skills), con le competenze relazionali del professionista, che richiedono invece consapevolezza del ruolo e, soprattutto, un sufficiente livello di “alfabetizzazione emotiva” (soft skills). Ecco, penso che in molti (troppi) casi manchi nei professionisti la consapevolezza dell’importanza della comunicazione con i clienti, che nulla ha a che fare con l’eloquenza, la capacità di persuasione o l’ostentato tecnicismo  dei c.d. “dottori della legge”.

Daniele Trevisani sostiene che il “senso di un coaching è produrre e alimentare valore verso… una causa, amore verso un progetto” e, a tal proposito, richiama il concetto di engrossment, mutuato dalla psicologia analitica, ovvero il sentimento di affetto che un padre sviluppa verso il figlio. Tale concetto si contrappone alla relazione meccanica e di distacco che spesso, invece, caratterizza la relazione tra professionista e cliente.

Occorre cercare o, semplicemente, riscoprire la passione perduta per il proprio lavoro o per gli ideali “dimenticati”, e cioè per quei valori che costituirono la spinta motivazionale per intraprendere, prima, quel corso di studi e, dopo, quella determinata professione. Si tratta, in altri termini, di un consapevole lavoro generativo da compiere per il proprio e l’altrui benessere.
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'Traiettorie evolutive' di Cosimo D'Ambrosio

22/10/2020

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Ho atteso quasi un mese prima di trovare l’ispirazione giusta per scrivere questo post.
Avevo bisogno di sedimentare le sensazioni provate nel corso del primo incontro e di aprirmi agli stimoli suscitati dalle letture e dagli approfondimenti suggeriti dai coaches.
Sento di aver iniziato un viaggio di cui mi è ancora ignota la destinazione, ma nutro un sentimento di profonda fiducia verso il “conducente” e provo stima e rispetto anche per i miei “compagni di viaggio”.
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Sono convinto, dunque, che la direzione sia ormai tracciata, perché il percorso mi ispira e mi motiva. Trovo, inoltre, che le riflessioni teoriche e i contenuti emersi dalle esercitazioni pratiche siano in linea con i miei valori, e credo che sia per questo che mi sento così galvanizzato.

Ci sono momenti nella vita in cui, dopo lunghi periodi di black out, intuiamo che la mancanza di senso percepita in una ricerca senza apparente costrutto sia servita, in realtà, a preparare una nuova traiettoria evolutiva, ad offrirci una prospettiva diversa e più rispondente ai nostri bisogni di crescita personale.

Probabilmente, è per questa ragione che possiamo sperimentare un vissuto emotivo equiparabile ad una vera e propria “rinascita”, con un sensibile aumento del livello delle nostre energie.

Per quello che mi riguarda, oggi mi sento stimolato a raccogliere l’invito di Lorenzo Manfredini a fare “un passo avanti e due dentro”.

Sì, perché questo è esattamente ciò di cui sentivo la necessità, in un percorso di crescita professionale molto orientato sulla performance della prestazione, con poco spazio per la mentalizzazione e la consapevolezza di quei bisogni autentici che i clienti non riescono a verbalizzare al di là delle richieste di semplice “contenuto”.
Da questo punto di vista, credo che, almeno in questa prima fase, gli studi e gli insegnamenti di Daniele Trevisani sulla “memetica” possano offrirmi un efficace modello euristico per cominciare a fare qualche passo “dentro”.

Il percorso mi sembra ormai tracciato e gli strumenti di bordo mi aiuteranno ad evitare di “navigare a vista”.
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'Il corpo ai tempi del Covid' di Michela Dresseno

15/10/2020

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Pensando a questa pandemia.
Passato lo stordimento iniziale, la paura, la confusione, l'emergenza, ci siamo adattati a rimanere chiusi in casa per molte settimane ci siamo abituati ad indossare la mascherina, ci siamo abituati a sentire parole tipo “distanziamento sociale”, ci siamo abituati a non abbracciare i nostri genitori.
Probabilmente, fra qualche tempo questa epidemia passerà, ci immunizzeremo, sarà insomma un brutto periodo da ricordare.
Quello che però non potrà passare con tanta facilità, quello che si è inscritto indelebilmente è nella memoria del corpo.
Il corpo, depositario di tutti i nostri vissuti, esperienze ricordi, si esprime in un costante dialogo tonico, ogni postura che assumiamo parla di noi e di cosa sta succedendo intorno a noi.
Quello che mi colpisce, in questo momento storico, è la prontezza e la destrezza con cui il nostro corpo si è tarato, adattato, ha assimilato dei gesti, degli atti motori veri e propri in risposta ad un ambiente che prevede “il distanziamento sociale.
La natura di queste riflessioni è duplice, ovvero c'è un'osservazione immediata, spontanea, data anche dalla mia esperienza di quando per esempio sono al supermercato a fare la spesa, e nell'incrociare una persona tra gli scaffali, il corpo ha imparato, ancor prima che sia la mente a guidarlo, a mettere in scena un pittoresco ed efficacie “balletto” per evitare una vicinanza che sia troppo vicina!
Altro gesto, che ha una valenza sociale e comunicativa altissima, la famosa stretta di mano appena si conosce una persona: abolita!  Come ci viene in aiuto il corpo?
Con una strepitosa mimica del viso, con accenni di inchini, con enfasi nel dire “Piacere”.
L'altro aspetto delle mie riflessioni è relativo allo sguardo specifico che ho sul corpo e i suoi vissuti, nell'ambito della mia professione di Psicomotricista.
La prima domanda che mi sono posta, quando ho ripreso a giugno a rivedere i bambini, è stata: “Quale Psicomotricità senza il corpo, il contatto?” Premetto col dirvi che lo Psicomotricista usa moltissimo il proprio corpo in relazione con l'altro. E' un corpo che contiene, che amplifica, che prolunga il gesto del bambino, che rallenta in risposta di un ritmo troppo veloce, è un corpo che si aggiusta continuamente. Il corpo è un vero e proprio strumento di lavoro e la maggior parte del dialogo, ha una qualità di dialogo tonico, che è la forma più arcaica di comunicazione e che continuerà nelle relazioni per tutta la vita. Il tono è legato alla sfera emotiva, al vissuto e alla storia che ha avuto quella persona, quel corpo e lo si percepisce attraverso la vicinanza, il contatto, lo scambio.
Mi sto chiedendo, con molta preoccupazione, com'è essere un bambino piccolo in questo periodo:
penso ai bambini che frequentano l'asilo Nido, per esempio: contatti limitati con gli altri bimbi, niente contenimenti e “rifugi” corporei, mascherine che nascondono sorrisi e parole da “leggere” sulle labbra (importante modo per apprendere il linguaggio verbale tra l'altro).
Nutro, d'altro canto, una illimitata fiducia nei bimbi e nelle loro risorse e credo troveranno altre modalità di contatto, andranno “oltre” il corpo, e come sta capitando anche a noi adulti, il corpo troverà strategie per compensare la distanza.
Questa è la mia parte razionale, la tendenza attualizzante che mi fa sperare in un superamento senza grandi traumi per questi bimbi, ma se ascolto lo sfondo emotivo di questo mio scritto, sento amarezza e preoccupazione. Rivedo Benedetta, una bimba di 4 anni, che è ritornata dopo un lungo periodo che non ci vedevamo e che è scoppiata a piangere perché le era difficile essere lì senza la sua mamma, e quando istintivamente le ho porto la mano, tra le lacrime mi ha detto “ma non ci possiamo più toccare noi adesso!”
Memoria e vissuto che resteranno impresse per sempre ogni volta che penserò a questa pandemia.
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Un nuovo modo di vedere le emozioni e le performance. Emozioni Alfa ed emozioni Beta

26/9/2020

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Articolo a cura di Daniele Trevisani
www.studiotrevisani.it www.danieletrevisani.it
www.comunicazioneaziendale.it
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​Test elaborato con modifiche dall’autore, tratto dal libro 
Self-power. Psicologia della motivazione e della performance, Franco Angeli editore. https://amzn.to/32ZDZJo
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Divertiti.
Ricorda, amico mio, di goderti il progetto così come il suo risultato,

perché la vita è troppo breve per riempirla di energia negativa.
Bruce Lee
 
La "soglia di efficacia personale" rende gli obiettivi facili o difficili
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L'intera questione delle emozioni alfa e emozioni beta ruota attorno a:
  • vivere intensamente il progetto, la via, il percorso - emozioni beta – come il valore di ogni falcata e di ogni atto di respirazione nella corsa, e
  • cosa proviamo per il risultato finale che vogliamo raggiungere o che ci assegnano - emozioni alfa, esempio, cosa proviamo verso l’idea di tagliare il traguardo o porci un tempo-obiettivo per correre una maratona
I mix emotivi che si generano nelle situazioni reali. Es, volere il risultato ma volerlo subito e detestare il percorso di costruzione che ti ci porta, oppure amare il viaggio sino a considerare irrilevante la meta, e tante altre condizioni intermedie.
Queste "faccende" sono talmente importanti per le performance, e piene di sfumature, che vanno affrontate obbligatoriamente, se vogliamo mai avere speranza di compiere performance davvero eccezionali ma anche avere un vissuto appagante nella vita di chi le compie.
Si, a volte diciamo che il viaggio è persino più appagante della meta. Ma per chi si occupa di performance, queste semplificazioni sono solo l'inizio. Vanno approfondite.
La tematica del raggiungimento di obiettivi è ampiamente trattata in campo strategico e aziendale.  Obiettivi. Obiettivi. Obiettivi. Tutto ruota attorno agli obiettivi, sino a perdere di vista chi è che li deve raggiungere - esseri umani e non macchine - e quali energie mentali servano, in che stato sono queste "macchine".
Immaginate di dare un obiettivo semplicissimo ad una persona depressa. Una persona realmente depressa troverà difficile persino alzarsi dal letto.
L'obiettivo diventa semplice o facile in funzione di dove si posiziona la soglia di efficacia personale.
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Figura 1 - Posizione di diversi obiettivi rispetto alla soglia di efficacia personale
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Ognuno di noi può esercitarsi nell'individuare:
  • Obiettivi di tipo A1: quello che sento di poter fare con assoluta tranquillità, qualcosa di "tranquillo", niente di sfidante per me.
  • Obiettivi di tipo A2: quello che sento di poter fare ma mi richiede un impegno e attenzione particolari. Rientra comunque tra "ciò che sento di poter fare".
  • Obiettivi di tipo B1: obiettivi "quasi alla portata", ciò che riuscirei a fare bene ma solo in parte, e sento che per poterlo fare bene devo ancora apprendere qualcosa, o mi serve ancora qualche ingrediente.
  • Obiettivi di tipo B2: obiettivi con larga probabilità di fallimento, temi su cui qualcosa conosco, qualcosa so fare, ma per raggiungerli sento che devo ancora apprendere molto, li sento ancora molto lontano e difficili.
  • Obiettivi di tipo C: non è fattibile ora, ma non è molto lontano da quello che sento di poter fare, se iniziassi ad esercitarmi. Per ora è fuori dalla mia portata ma non è detto lo sia per sempre.
  • Obiettivi di tipo D: troppo lontano, troppo difficile, impossibile per me, adesso e per sempre.
 L'asticella con cui misuriamo questi obiettivi diventa il Potere Personale.
Figuriamoci cosa accade quando diamo un obiettivo ad una persona demotivata. O, se lo riceviamo noi stessi e non ci crediamo. Cosa facciamo?
Possiamo cercare di aumentare il nostro Potere Personale, alzare l'asticella con cui misuriamo gli eventi, o abbandonarne persino l'idea. Cosa fare, in questo caso, diventa un modo di vivere la vita.
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Obiettivi ed emozioni
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Le emozioni determinano “a cosa” dedichiamo il nostro tempo migliore, le energie più belle, cosa facciamo più volentieri, e a quali azioni dedichiamo meno tempo possibile, sino al punto di negarle o posticiparle sino alla morte.
Il mondo del time management, la gestione del tempo, e più in generale delle risorse limitate - fa troppo conto su fogli di Excel e poco conto sul mondo delle emozioni che proviamo nel fare qualcosa, o nel dirigerci verso uno scopo.
Sembrano due terreni diversi, ma in realtà lo sfondo emotivo è il vero substrato dei risultati.
Noi dedichiamo il nostro tempo migliore e le nostre risorse migliori a ciò che ci nutre, a ciò che ci gratifica, e fuggiamo tutto il resto.
Una cultura della consapevolezza deve portare le persone ad essere più consce di quali obiettivi o stati vuole raggiungere, e di come utilizza il suo tempo. Una scarsa consapevolezza vede invece le persone in uno stato di divario, di scostamento, tra ciò che desideri e come utilizzi realmente il tuo tempo.
Percepisci una dissonanza, un allarme, ogni volta che senti di dedicare tempo a qualcosa che non senti essere la tua vera vita. O cerchi un perchè in quello che fai, e questo perchè non lo trovi o fai sempre più fatica a trovarlo.
La ricerca del perchè, la ricerca di un bisogno di "senso" è sacra. Si tratta solo di ascoltarla.  
In molte aziende ci si dedica alla pianificazione solo quando si è obbligati, mentre guidare un “muletto” o una ruspa gratificherebbe di più. Riempiamo le giornate - e a volte interi brani di vita -  a correre come formiche anziché concentrarci su cosa è importante. Sul cosa fare e sul perché.
Cerchiamo invece di impegnarci in una vocazione o interesse, e impariamo a sentire il fluire delle energie, la dove prima vedevamo solo azioni vuote. Tutto cambierà.

Emozioni Alfa ed emozioni Beta
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Un approccio che centri il fronte emotivo di come una persona vive gli obiettivi, deve procedere verso due specifiche aree di analisi
le emozioni viscerali che sento verso un certo effetto o end-state: sento davvero mio un certo obiettivo? Lo sento come qualcosa che mi tocca davvero? Provo passione per un certo obiettivo o lo vivo come uno dei tanti momenti che mi tocca fare, o un momento obbligato? Lo sento importante per i miei valori?  Quanto? Voglio davvero vedere quel risultato finale raggiunto? Mi attiva emotivamente l’immagine di un certo risultato? La situazione che voglio si produca è davvero importante per me? O è un risultato più o meno burocratico, che non mi cambia la vita, che non mi attiva veramente? Denominiamo qui le emozioni verso l’obiettivo emozioni alfa.
Le emozioni che provo per le azioni necessarie (operations), le attività quotidiane, o i singoli step di un percorso. Mi annoiano le operazioni intermedie e vorrei solo vedere il risultato finale raggiunto? Provo invece piacere dell’azione, gusto del fare e dell’agire? Le operations mi annoiano o mi energizzano, le vorrei saltare o “guai a chi me le toglie”? Denominiamo qui le emozioni che accompagnano l’azione emozioni beta.
 
Il senso che le emozioni Alfa, quelle verso il lo scopo finale, è ben espresso nella seguente metafora: 
 
‎"Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi;
non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro...
Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare
 lontano e sconfinato.
Appena si sarà risvegliata in loro questa sete
si metteranno subito al lavoro per costruire la nave".
(Antoine-Marie-Roger de Saint Exupéry)
 
Il leader o motivatore che  riesce a far visualizzare e apprezzare il risultato finale atteso, potrà generare motivazione autonoma.
Questa è una delle due strade.
Immaginiamo un vetraio di Murano, a Venezia, intendo nel produrre bicchieri artistici. Quanto è importante per lui arrivare a fine giornata ad avere prodotto X bicchieri (emozioni alfa)? Quanto sono importanti il gesto del produrre il bicchiere, del soffiare dentro alla cannuccia, del vedere il bicchiere prendere forma? Sono attività di per se gratificanti (emozioni beta)? 
O ancora, esaminiamo il lavoro di un pittore. È mosso dal piacere di usare la tela e i colori, dall’idea di trovare un luogo o soggetto che lo ispira, o ogni singola attività gli è di peso e vorrebbe vedere il quadro finito prima possibile?
Ogni artista vive in modo diverso sia l’effetto da produrre (il quadro) che il modo di produrlo (le operations).
Le sfumature in questo campo sono molteplici.
Anche un pilota di aereo intento in una missione di salvataggio vive due momenti emotivi: sia voler vedere raggiunto un certo risultato strategico finale a cui contribuisce con la sua missione (salvare la persona), oppure essere ammaliato dal piacere del volare, energizzato dalle operazioni di volo, dall’adrenalina dell’azione, al di la degli effetti che l’azione avrà (essere parte di un processo).
Possiamo avere persino casi in cui non interessi assolutamente il perché della missione (emozioni alfa azzerate) ma interessi unicamente il fatto di farla bene, il piacere che si prova durante,  la totale gratificazione che accompagna il gesto (emozioni beta massimizzate).
 
Io non mi sono mai sentita tanto viva come dopo una battaglia dalla quale sono uscita viva e indenne. [...]
È dopo aver vinto quella sfida che ti senti così vivo.
Vivo quanto non ti senti nemmeno nei momenti più ubriacanti di gioia o nei momenti più travolgenti d'amore.
Oriana Fallaci, da Accetto la morte ma la odio, 2006
 
Chi ha praticato boxe o arti di combattimento lo sa bene. Usciti dal ring e dopo una doccia sembra di avere un'altra occasione per vivere. Sembra che il mondo, prima ostile, sia diventato un posto migliore. Questa è una delle gratificazioni maggiori di chi fa sport estremi.
Ma entriamo nel mondo del lavoro, analizziamo le performance di un venditore: le emozioni alfa si attivano nel volere fortemente il risultato finale (vedere la vendita conclusa), le emozioni beta si attivano quando il venditore è emotivamente e positivamente coinvolto nella trattativa di vendita, nella strategia di preparazione, vede le trattative  in sé come attività comunicativa e persuasiva interessante, come relazione di aiuto, o come sforzo di condivisione, o come esercizio di tattica e strategia, come sfida con se stesso, o come palestra del proprio stato o condizione mentale (attivazione delle emozioni beta).
Lo stesso per uno scrittore: siamo attivati unicamente dall’idea di vedere il libro finito, o si prova piacere nello scrivere? Se nessuna delle due aree attiva la persona, non avremo mai uno scrittore compiuto. E  non avremo mai un buon libro.
Trattare di performance, di effetti da produrre, e di operazioni tattiche, tocca inevitabilmente il fronte delle emozioni soggettive.
Posso avere emozioni alfa plurime – più di una motivazione – verso la meta, ed emozioni beta plurime – più di una sensazione positiva collegata all’azione.
Per esempio, un formatore può avere emozioni alfa plurime se è interessato al compenso economico del suo lavoro, ma anche al vedere un corso terminato, e ad avere trasmesso bene i concetti che voleva lasciare. Allo stesso tempo può avere emozioni beta plurime: il piacere di avviare un contatto umano ad inizio attività, il piacere di vedere le persone all’opera durante, il gusto di un lavoro che scorre fluido e con un clima positivo.
Così come si arrabbierà quando qualcuno si comporta con maleducazione verso il formatore, verso altri studenti e verso la sacralità del momento formativo. E glielo dirà. Senza paura.
 
Agirò senza paura ogni volta in cui vorrò dire qualcosa in cui credo...
Daniele Trevisani ©

 
Quanto più le emozioni sia alfa che beta sono forti e numerose, tanto maggiore sarà l’attivazione verso lo scopo e la performance.
Chi non crede più a niente difficilmente riuscirà in qualcosa.
Quanto più invece sono assenti, deboli o invece negative le emozioni verso lo scopo o verso le attività da compiere, quanto più l’attività sarà considerata un peso o peggio una frustrazione, o verranno accettate passivamente riduzioni rispetto ai propri ideali, amputazioni e umiliazioni.
 
Ma vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa
e parlare diventa un obbligo.
Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico
al quale non ci si può sottrarre.
Oriana Fallaci
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'Quando è tempo di spiccare il volo' di Sara Giardino

1/7/2020

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“Troviamo comfort tra coloro che sono d’accordo con noi – crescita tra coloro che non lo sono” (Frank Clark)

Ci sono situazioni in cui con il passare del tempo ci adagiamo, sguazzando nella comodità del noto, anche quando non lo condividiamo totalmente, quando non ci rappresentano completamente, quando ci stanno un po’ strette… però le conosciamo, ci sono familiari, non ci spaventano, sappiamo che possiamo gestirle senza un particolare investimento di energia.
E così può capitare di ritrovarsi a condividere la vita con qualcuno per paura di restare soli, a fare un lavoro che non ci piace o non ci gratifica per non doversi rimettere in gioco.

In questo modo però rischiamo di accontentarci di una vita al di sotto delle nostre potenzialità, e per rassicurarci mettiamo a tacere quella vocina che ostinatamente tenta di farci aprire gli occhi, o forse le ali, quella vocina che continua a sussurrarci che dovremmo osare, sognare, valutare e poi spiccare il volo.

Quali sono le vere ragioni che ci tengono bloccati in queste situazioni eternamente insoddisfatti del presente, sempre un po’ demotivati ed annoiati e mai realmente carichi e pronti ad intraprendere una nuova via?

Perché continuiamo a crearci alibi, per giustificare agli altri situazioni che a ben vedere non accettiamo neanche noi stessi? Perché continuiamo a coltivare questa zona di confort che realmente non ci dà né soddisfazioni né gratificazioni…
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Magari uscendovi potremmo iniziare uno splendido viaggio alla ricerca di noi stessi e di ciò che realmente vogliamo a prescindere da cosa gli altri si possano aspettare da noi.
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'Coaching e non solo: winetelling, idee nate per crescere' di Riccardo Fabbio

29/6/2020

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Un blog che racconta di esperienze nel mondo enologico
Durante il periodo Covid ho deciso di concretizzare quello che da tempo era un progetto nel cassetto, ovvero il poter racchiudere le mie esperienze legate al mondo del vino in un blog.
Una spinta mi è stata data anche nell'ultimo incontro del Master che abbiamo fatto, dove ho esposto l'intervento sulla differenza tra metodo classico e metodo charmat e l'interesse suscitato nei colleghi di master!
Oltre all'esperienza diretta dell'esercizio di public speaking in questi mesi sono stati fatti diversi incontri virtuali con Veronica dove io ho fatto da coach a lei e lei a me. In queste occasioni ho focalizzato sempre di più questa grande passione e di volta in volta abbiamo posto un mattoncino per concretizzare qualcosa inerente al mondo del vino e alla mia esperienza in questo.
Armandomi di pazienza ho iniziato a cercare una via percorribile nel costruire un sito web e trovando un template wordpress che mi piaceva ho iniziato a barcamenarmi in questa nuova esperienza, studiando come lavorarlo e contemporaneamente scrivendo contenuti.

Le tematiche trattate sono tutte inerenti al mondo enologico ed il sito si divide in 5 sezioni principali:
AZIENDE, dove sono descritte le aziende con cui collaboro nella promozione/distribuzione;
COLLABORAZIONI, con alcune aziende che si occupano della produzione di oggettistica correlata (bicchieri, cavatappi..);
EVENTI, che organizzo in locali, bar, ristoranti ed altre location;
le visite IN CANTINA;
ESPERIENZE di viaggio collegate al mondo enologico.
http://www.winetelling.it 
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'Convinzioni per vivere o vivere per le convinzioni?' di Lorenzo Savioli

29/6/2020

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“L’uomo ha assolutamente bisogno di idee e convinzioni generali che diano significato alla sua vita e che gli permettano di individuare il suo posto nell’universo”
Carl G. Jung
 
Il bisogno di “certezze” è un aspetto intrinseco della realtà umana; permette di gettare solide basi per interagire nel nostro mondo fisico e psicologico, supporta nello sviluppo di relazioni sane e costruttive.
 
Le convinzioni che abbiamo su come “vanno” le cose nel mondo rientrano nel più generale concetto di “sicurezza”, bisogno basilare da cui nasce lo sviluppo del nostro “Io”. Sapere “come andrà” un qualcosa ci fornisce il senso del controllo, ci fa sentire padroni della situazione e ci fa interagire al meglio con gli altri.
 
Sulla base delle nostre esperienze costruiamo e radichiamo in noi determinate convinzioni che col tempo ci guidano nella vita, nelle scelte e spesso determinano anche il nostro futuro.
Tanto più profonde tanto più diventano un aspetto essenziale del nostro essere.
 
La capacità di saper riconoscere le nostre convinzioni e periodicamente valutarne l’efficacia è la caratteristica di quelle persone “vincenti”, quelle a cui sembra andare tutto bene, che sanno muoversi in molteplici ambiti e trovare soluzioni produttive alle problematiche.
 
Il malessere nonché senso di inadeguatezza nasce quando invece rimaniamo vittima delle nostre stesse convinzioni e iniziamo a vivere per essere e non sulla base di esse.
 
La nostra stessa creazione diventa scolpita nella pietra e quasi viene percepita come una imposizione esterna, una legge universale a cui dover rendere conto o sulla base della quale essere in costante giudizio di noi stessi.
 
A volte, incapaci di agire, restiamo intrappolati in una sorta di fatalismo e\o vittimismo che rende la nostra vita in bianco e nero.
La dinamicità lascia spazio all’immobilità; l’energia fisica e psicologica viene trasformata in una sorta di buco nero che tutto risucchia e nulla lascia scappare lasciandoci impotenti.
 
Come uscirne?
La capacità di saper riconoscere le nostre convinzioni è la chiave per gestire al meglio e in modo autonomo questi aspetti strutturali del nostro essere.
 
Il supporto di un coach e/o uno psicologo è sicuramente utile al fine di affiancarci in questo percorso e permetterci di sondare il nostro subconscio in modo attivo e consapevole.
 
Infine concedersi l’opportunità di avvicinarsi, scavalcare, rompere il muro che a volte costruiamo per proteggerci da noi stessi e dagli altri diventa il primo passo e forse quello più importante per costruire consapevolmente quello che vogliamo essere, cogliendo e valorizzando la nostra unicità.
 
 
Copyright Lorenzo Savioli anteprima editoriale riservata
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'E se fosse il punto di vista a fare la differenza?' di Sara Giardino

24/6/2020

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Spesso dinnanzi ad un evento inaspettato e con risvolti negativi tutti ci poniamo la domanda “Ma perché è successo proprio a me? Perché sono così sfortunato!”.

Queste espressioni possono essere frutto del nostro disappunto, della nostra rabbia, della nostra rassegnazione o semplicemente dell’incapacità di affrontare il nuovo evento.

In questi frangenti la domanda che più comunemente ci poniamo è “cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?”

Talvolta però nel ricercare una risposta poniamo l’attenzione unicamente all’esterno di noi stessi, riversando così “la colpa” dell’accaduto sugli altri, anche quando forse una vera colpa non c’è. Così facendo ci costruiamo attorno il ruolo della vittima alla quale non resta alcuna alternativa all’autocompassione.

Questa scelta però ci mette nella posizione di vederci come gli unici esseri che soffrono, le uniche persone alle quali la vita ha riservato delle difficoltà, smettiamo di apprezzare gli aspetti e gli accadimenti positivi della nostra esistenza, che ovviamente continuano ad esserci.

E se provassimo a spostare il nostro sguardo?
Se quando ci poniamo la fatidica domanda “cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?” scegliessimo di guardarci dentro, con serenità e con affetto?
Potremmo trovare delle spiegazioni o alcune delle cause dell’accaduto nei nostri comportamenti, nelle nostre abitudini, nei nostri modi di fare.
Potremmo scoprire che a volte siamo noi a determinare, anche parzialmente più o meno volontariamente, alcuni eventi.
Potremmo anche scoprire che non sempre c’è un vero legame tra le nostre azioni e l’accaduto e che questo legame  potrebbe anche non esserci con la volontà altrui.

E così facendo potremmo scoprire che talvolta ciò che accade non è frutto di una colpa, ma non è neanche una punizione, è solo una cosa accaduta.
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'Le paure dalle radici antiche' di Maurizia Pambianco

22/6/2020

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Voglio raccontare questa storiella che riprende anche Jorge Bucay nel un suo libro “Lascia che ti racconti”, perché mi ha fatto riflettere moltissimo, non la conoscevo.

La storia s’intitola “L’elefante incatenato” e narra di un elefante che si esibiva in un circo.

“Durante il suo spettacolo l’elefante faceva sfoggio del suo enorme peso, la sua impressionante massa corporea e la sua forza. Dopo il suo numero e fino ad un momento prima di entrare in scena era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una zampa. Niente fa pensare alla sua forza. Il paletto non è altro che un pezzo di legno piantato nel terreno per poco più di due centimetri. L’elefante, che possiede la forza di sradicare un albero con tutte le radici, potrebbe facilmente liberarsi da questo paletto e scappare. Perché non lo fa? Che cosa lo trattiene? Forse il fatto di essere ammaestrato? E allora se è ammaestrato, perché mai deve essere tenuto incatenato? La risposta è: l’elefante del circo non si libera perché già da piccolo è stato abituato a essere legato a quel paletto e non conosce nessun’altra condizione. Ogni piccolo elefante infatti viene tenuto legato sin dalla nascita. All’inizio cerca di tirare la catena per liberarsi, ma nonostante tutti i suoi sforzi non ci riesce perché il paletto è ben ancorato a terra. Quotidianamente il piccolo elefante ci riprova fino a che un giorno, per lui decisivo per il futuro della sua vita, la sua anima si rassegna alla sua impotenza e accetta il suo destino. L’enorme e potente elefante non scappa perché crede di non poterlo fare. Tale è il ricordo della sua impotenza sperimentata da piccolo. La cosa peggiore è che questo ricordo non viene più messo in discussione. L’elefante non ha più avuto il coraggio di mettere alla prova la sua forza.”

Questa storia richiama tutte quelle paure che generano delle convinzioni che limitano il nostro agire e pensare. Mi sono venute in mente tutte quelle volte che ho rinunciato a farmi valere e a ribellarmi per un quieto vivere, forse non era quieto vivere ma era una paura con il sapore dell’infanzia, dei rimproveri o dei castighi da parte di qualcuno tanto grande e io tanto piccola.
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Oppure il trattenersi a mostrare la mia fragilità perché immediatamente mi risuonano le risate e le burle degli altri bambini o peggio dei miei genitori e viene in mente quella sensazione di calore e rossore al visino e le gambe pronte per scappare a nascondermi, sentendomi sbagliata.

A volte ci dimentichiamo di essere ormai adulti, capaci di affrontare le situazioni con più risorse di quella bambina o bambino, eppure ci rimangono quelle convinzioni nella testa “sei sbagliata/o” oppure “fai la brava o bravo, altrimenti …”, quanti paletti abbiamo raccolto dentro di noi che ci impediscono di essere liberi? L’adulto può iniziare ad individuare i propri paletti, sfilarli e liberarsi da quelle catene per recuperare il proprio potere personale, iniziando ad analizzare le proprie convinzioni e a contestualizzare le situazioni. Può essere una ricerca che dura tutta la vita e ritengo che ne valga la pena.

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'L’insondabile segreto della bellezza' di Maurizia Pambianco

4/6/2020

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Come suggerisce il titolo, il mio pensiero nel definire la bellezza è ancora nel percorso dell’esplorazione. Credo sia uno di quei concetti astratti che più cerchi di definirli e più ti sfuggono ed alla fine concludi con “è sicuramente molto di più”.

In molti hanno cercato di definirla.
Quando si pensa alla bellezza viene subito in mente l’Arte, ogni forma di arte ha il compito di esprimere la bellezza, di manifestarla. L’arte in realtà è uno strumento che utilizziamo per esprimere ciò che vediamo e sentiamo, è un’espressione del nostro mondo interiore che racconta ciò che vede e sente e lo porta da dentro a fuori. Nasce così la bellezza artistica, letteraria, musicale, matematica, filosofica, linguistica e altre ancora.

Mi nascono tante domande. In certe situazioni, a seconda di come mi pongo, trovo nella natura, nella vita, nelle persone e nelle relazioni una straordinaria bellezza e possono essere attimi o giornate e poi scompare, non lo rivedo più nel momento in cui cambio prospettiva o atteggiamento. Cosa succede?

Quante volte una persona l’ho considerata “non bella” e poi conoscendola ho iniziato ad intravedere la sua bellezza, cosa è successo dentro di me? Ha toccato le corde della mia anima? L’ho trovato armoniosa? E allora cosa significa armonia?
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A volte la bellezza la intravedi subito e a volte si svela a poco a poco, cosa significa? Che la comprendo? Che entro nella stessa risonanza?
I quadri di Pollock per me esprimono bellezza eppure come faccio a spiegare la bellezza dei suoi quadri? Tutte quelle linee apparentemente sconclusionate hanno significati inconsci e personali che fanno provare emozioni e appagamento.

La neuroestetica, fondata da Semir Zeki nel 1994, cerca di integrare la bellezza estetica con la bellezza biologica, e osserva che nel percepire la bellezza si ha un’attività neuronale dell’area field A1 del cervello deputata all’elaborazione delle emozioni ed è situata nella corteccia orbito frontale mediale. Più intensa è l’esperienza e più intensa è l’attività registrata in questa area. Questo non spiega cos’è la bellezza ma ci dice cosa suscita, emozioni.

Come osserva Ken Mogi, nel suo libro” Il piccolo libro dell’ikigai”, il popolo giapponese ha un concetto di bellezza molto legato all’ esperienza sensoriale. Nell’esecuzione di attività di produzione hi-tech o di artigianato pongono molta attenzione alla moltitudine di esperienze sensoriali necessarie per la messa a punto di un manufatto, a volte con operazioni estremamente minuziose. Nella visione giapponese ogni singola qualità sensoriale equivale a una divinità.
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Esiste una bellezza soggettiva ed una bellezza universale, sicuramente essa va a contattare dei codici, dei simboli e dei tratti dentro di noi, soggettivi o universali che stimolano sensazioni ed emozioni positive che ci portano ad attribuire la bellezza al soggetto.
A me la bellezza ultimamente risveglia un senso di gratitudine e mi fa stare bene e viceversa, quando mi pongo in un atteggiamento di gratitudine vedo e sento bellezza intorno a me e dentro di me.
La bellezza non può essere spiegata, va vissuta.
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'Intelligenza artificiale e coaching' di Paolo Marinovich

3/6/2020

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Credo che sia utile approfondire il tema dell’intelligenza artificiale e delle sue implicazioni anche nel mondo del coaching e di altre discipline di supporto. Naturalmente, se si crede nell’aggiornamento socio-culturale come elemento qualificante della professione.
 
Nel dicembre 2019, il filosofo, giornalista e imprenditore britannico Calum Chace, autore di tre libri sulla materia, ha scritto che da qui al 2030 l'intelligenza artificiale simbolica – quella  che egli definisce la “buona vecchia intelligenza artificiale” – evolverà verso l'apprendimento automatico e le macchine inizieranno a mostrare segni di buon senso. Tuttavia, saremo ancora – dice – molto lontani dall'intelligenza generale artificiale, o AGI; ossia dal disporre di una macchina con tutte le capacità cognitive di un essere umano adulto.

​Potremmo pensare che l’AGI starà all’AI, la “buona vecchia intelligenza artificiale”, come il calcolo infinitesimale sta all’aritmetica elementare. Dovremmo allora preoccuparci di questo scenario? Se l’AGI fosse una macchina dotata delle stesse capacità cognitive di un essere umano, cioè assimilabile ai nostri simili, alle creature (apparentemente) più evolute con cui abbiamo a che fare già oggi, perché dovremmo preoccuparcene?
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Ciò che farà la differenza non sarà soltanto la velocità di elaborazione di miliardi di dati, ma l’assenza di emozioni e la presenza, invece, di un sistema di riferimento, per quanto complesso, pre-giudiziale. Immagino che le risposte di una macchina dotata di AGI rifletteranno valori e intenzioni di chi – persona o organizzazione – l’avrà costruita, ma non generata; programmata, ma non educata; collaudata, ma nella rigidità di algoritmi astratti e non nella libertà di scelte responsabili.

Eppure, si chiede Chace, sapremo – e come – quando sarà veramente “nata” la prima macchina dotata di AGI? Il motivo della domanda è che “qualunque cosa così intelligente da essere etichettata come super-intelligente, lo sarebbe sicuramente al punto da non rivelare la sua esistenza fino a quando non abbia preso le precauzioni necessarie per garantire la propria sopravvivenza”.

In altre parole, qualsiasi macchina super-intelligente, in grado di superare un test di Turing, sarebbe così intelligente da decidere di non superarlo! Vale a dire, banalizzando parecchio l’esempio, che una macchina AGI fingerebbe di fallire un riconoscimento CAPTCHA (quanti ne incontriamo e dobbiamo superare per accedere a certi siti web?) o altro test comparativo, anche quando avesse la certezza di saperlo superare; e questo suggerisce che l’AGI potrebbe essere in azione “dissimulata” già oggi.

Ovviamente io non so se sia così, ma l’argomentazione non mi pare fantascientifica e qualche possibile effetto lo vedo. In verità, alcune inquietudini e malesseri di clienti – senso di subordinazione ai sistemi, impossibilità di modificare scelte operate da macchine, percezione di scarso valore del proprio operato – se non frequenti, iniziano a essere di attualità. Qual è il modo più efficace di affrontarle nel coaching o nel counseling?
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'Non ti frequento più!' di Lorenzo Manfredini

31/5/2020

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Gli altri sono una risorsa per ciascuno di noi. Le loro chiacchiere, il loro affetto, il loro sorriso, il loro corpo, il loro abbraccio. E ci danniamo un sacco per creare buoni rapporti di famiglia, vicinato, amicizia, lavoro. Ma capitano anche periodi in cui non si ha voglia di parlare con nessuno, di vedere nessuno, di uscire con nessuno.

Talvolta è il nostro carattere timido a prendere il sopravvento, a volte siamo delusi da rapporti superficiali, talaltra siamo stanchi, con le batterie a zero, depressi. In ogni caso i motivi sono buoni per non comunicare. ‘Non ho voglia di aprirmi’, dice il timido, ‘non ho voglia di essere criticato’, dice il deluso. ‘Non ho voglia di lamentele e giudizi’, dicono la maggioranza.

Sappiamo che il pettegolezzo (a piccole dosi, ‘altruista’ per così dire) è un ottimo strumento anti-stress. Tutti lo pratichiamo con lo scopo di mitigare le azioni sbagliate degli altri e talvolta per sogghignare e farci quattro risate. A dosi massicce, però, diventa l’esercizio di un’invidia malevola sulla reputazione del malcapitato, a cui non mancherà l’occasione di ricevere la critica dei colleghi, il giudizio dell’amico, le maldicenze della gente.

Tutto questo a volte è troppo e così perdiamo la pazienza per il cinismo altrui, le critiche eccessive e le richieste di qualsiasi natura. Perdiamo la voglia di compiacere chi non ci aggrada, di amare chi non sa amare, di sorridere a chi non ci sorride.

Non ci accontentiamo più del provincialismo e dei pettegolezzi. Non sopportiamo più le persone rigide e inflessibili. Vogliamo lealtà, sicurezza, incoraggiamento.

Insomma, ci sono buone ragioni per dire ‘interessante quello che dici, ma dimmi qualcosa che mi interessi davvero!’

Dovunque andiamo nella vita lasciamo cose e parole: battute di spirito, chiacchiere, conforto. Ovunque lasciamo il nostro segno. Tutti questi segni sono ciò che noi siamo. Proviamo a lasciare buone impronte che valgano la pena di essere ricordate. E permettiamo a noi stessi di esprimere chi siamo con qualità emotiva.
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Oggi e anche domani, al bar, dal parrucchiere, al lavoro, in casa, cominciamo col pronunciare correttamente il nostro nome. E’ un buon inizio.

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'Gestione del cambiamento o cambiare gestione?' di Lorenzo Savioli

31/5/2020

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“Non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a fare nello stesso modo”
Albert Einstein
 
Il cambiamento è un processo intrinseco alla realtà stessa.
Non c’è crescita senza cambiamento.
 
Il punto non è tanto “cambiare” ma affrontare il cambiamento e utilizzarlo a proprio vantaggio dove possibile.
 
Sentiamo spesso parlare di cambiamento e a volte dietro questo processo ci nascondiamo, a volte lo usiamo anche come una scusa; buttiamo indistintamente nel “calderone del cambiamento” tutto quello che non riusciamo a gestire risolvere. Ci ripetiamo “devo/voglio cambiare” ma poi di fatto poco viene fatto in quella direzione.
 
Cambiare significa tutto e niente se non definiamo da dove partiamo, cosa vogliamo cambiare e dove vogliamo arrivare. Questo vale per la vita personale cosi come per il business.
È sicuramente un aspetto essenziale e importante ma non è l’unico a dover essere preso in considerazione.
 
Spesso parlando di cambiamento ci si focalizza sugli aspetti operativi e poco si quelli sistemici e strutturali.
 
Sapere dove vogliamo arrivare senza una strategia efficace che ci guida lungo il percorso solitamente è la principale causa di fallimento sulla base della quale poi ci rassegniamo al fatto che non possiamo cambiare, “cambiare è difficile”, “non cambierò mai”, “son fatto così” etc…
 
Diventa quindi utile nonché essenziale capire non tanto “cosa” cambiare ma “come” cambiare.
Il “come” racchiude in sé razione, struttura, strategia; è svincolato dall’oggetto e in questo modo può essere applicato trasversalmente per vari processi.
 
Dal cambiamento passiamo quindi alla gestione del cambiamento.
 
Gestire significa avere delle strategie più o meno efficaci per affrontare una data situazione.
Il punto diventa capire quali sono le nostre modalità operativo-emozionali-razionali per gestire il cambiamento e se queste modalità sono produttive o meno per noi.
 
Diventare consapevoli delle nostre strategie mentali ci permette di affrontare l’aspetto strutturale ed affrontarlo in modo sistematico; “non so cosa cambierò ma so come cambiare”.
 
Spesso restiamo “incastrati” nel cambiamento o ci appare “difficile” proprio perché di fatto non abbiamo strategie ottimali e diversificate per gestirlo.
Trattiamo le varie situazioni con la strategia “chiodo e martello” quando a volte ci serve un martello ma non un chiodo oppure non ci serve ne un martello e tantomeno un chiodo.
 
Cambiamento va di pari passo a miglioramento e questo sarà il post della prossima settimana.
Concludo introducendo il tema del miglioramento con una frase di Elon Musk, in onore dell’impresa recente che lo ha visto sotto la luce dei riflettori:
“Molti dicono di fare le cose in modo diverso, pochi di farle in modo migliore”
 
Copyright Lorenzo Savioli anteprima editoriale riservata
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    COVID SECONDA ONDATA
    ​di Lorenzo Manfredini

    In questo video ti parlo di un vaccino, che oltre a quello del covid, si dovrà trovare per la fragilità del nostro tempo, delle nostre istituzioni e delle nostre guide interiori.

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