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'Salto o non salto?' di Laura La Barbera

13/12/2018

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“Per tutti i cambiamenti importanti dobbiamo intraprendere un salto nel buio.” (William James)

Quante volte abbiamo sentito e ci siamo, forse, ripetuti la frase “L’unica costante della vita è il cambiamento”.
 
Il cambiamento questa grande parola che fa costantemente parte della vita di ogni essere vivente. Ma cos’è il cambiamento? Il cambiamento in senso figurato, io me lo immagino un pò come fare un salto da una parte all’altra, e, a seconda di quanto è grande o profondo, il salto è più o meno lungo o alto e più o meno “spaventoso”.
 
Ma prima di saltare dove siamo? Siamo lì seduti sul ciglio della roccia a decidere se saltare oppure no, o a capire se ce la faremo a farlo oppure no.

Se siamo arrivati lì sul ciglio, forse quello che c’è dietro potrebbe non appartenerci più ma lo conosciamo, mentre quello che c’è all’orizzonte cosa sarà, che poi a volte l’orizzonte nemmeno lo vediamo, magari c’è solo la nebbia e allora stiamo li seduti ad aspettare che la nebbia salga.. ma poi a volte anche se è tutto chiaro può esserci qualcosa che ci frena.
 
Ma di cosa abbiamo paura esattamente? Di saltare là dove non siamo mai stati, di saltare in terre sconosciute che pensiamo siano piene di insidie… o di non farcela a saltare …
 
Cosa c’è davvero dietro la paura di cambiare oltre al timore dell’ignoto? C’è forse, l’insicurezza nelle nostre capacità, c’è la paura di andare oltre la nostra comfort zone anche se ormai ci sta stretta e ci fa male, almeno la conosciamo.
 
C’è il rischiare di “perdere” qualcosa che già conosciamo bene e che ci ha accompagnato fino a lì. In tutti i cambiamenti piccoli o grandi che siano, si “rinuncia” a qualcosa per fare spazio ad altro ma molto spesso non sappiamo se questo “altro” ci “riempirà” come ciò che è stato.

E a me, una riflessione che mi viene da fare però è, se siamo arrivati proprio lì, sul ciglio della roccia, non vorrà dire che siamo pronti a fare quel salto, che le nostre gambe, il nostro cuore e il nostro respiro ci sorreggeranno e che il rischio di rimanere lì sul ciglio è ancora più grande di quello che corriamo se saltiamo?

Cosa succederebbe alla farfalla se non avesse il coraggio di compiere la propria trasformazione fino in fondo, non utilizzando le proprie ali per iniziare a volare?
​ 
“Ci deliziamo nella bellezza della farfalla, ma raramente ammettiamo i cambiamenti a cui ha dovuto sottostare per raggiungere quella bellezza” (Maya Angelou)
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'Chi o cosa dobbiamo ringraziare?' di Lorenzo Manfredini

13/12/2018

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Ringraziare qualcuno o qualcosa che ci fa sperimentare abbandono, insicurezza o angoscia, sembra una presa in giro. Eppure, questa fase del lutto è una fase piena di atti costruttivi.

Ci si concentra sul ringraziamento dell’altro per i bei momenti vissuti insieme e per l’opportunità di aver condiviso una relazione che ci ha fatti crescere e scoprire un mondo.

Per quanto banali e ovvi possano sembrare questi atti di rivisitazione del passato, va ribadito con forza e intensità quanto quel rapporto d’amore fosse nutriente e abbia permesso di fatto il nostro rafforzamento.

Se è il ricordo di un genitore amorevole o di una persona cara i ricordi saranno numerosi ed emozionanti. Se si tratta di una perdita diversa, ad esempio un mentore severo, questi sarà più lo specchio riflesso di una la realtà che ci ha accompagnati fino a quel momento e a cui essere grati per le lezioni di vita. Se è una situazione di perdita conflittuale, i ricordi verranno inizialmente negati, ma sarà ugualmente interessante trovare gli spunti che ci hanno resi più forti.

Questa fase ha un’importanza cruciale sulla reale chiusura del rapporto e rappresenta il primo inizio del riappropriarsi di cose che riguardano la separazione. E’ una fase dove le emozioni si trasformano, le parole diventano positive e i comportamenti più flessibili.

Si inizia a mettere nero su bianco frasi di questo tipo: ‘sei stato molto importante per me perché…’. ‘Grazie a te ho potuto…’. ‘Senza di te non avrei mai capito…., imparato a…. scoperto che…’. Ricordo come fosse oggi il momento…’.
​
Non solo si sono potuti vivere momenti di felicità, conseguenti alla connessione tipica dell’esperienza d’amore, ma si sono apprese e rinforzate delle risorse nella relazione.

La cosa interessante inizia quando la persona verifica che il dolore si trasforma gradualmente in momenti di spensieratezza e piacere, la tristezza in gratitudine e riconoscenza, il vuoto in conforto e sorrisi.

Di tanto in tanto, si respira un’aria diversa e la calma filtra oltre lo smarrimento.
 
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'La fine è solamente l'inizio' di Sabrina De Chirico

12/12/2018

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Osservo allontanarsi pian pianino un’immagine di colori sfumati in mille tonalità, in sottofondo un suono di variopinte melodie che si intrecciano in un’unica armonia, ma che lentamente dirada…. Prende spazio il silenzio, rumoreggia l’assenza di forme. A dipingere il ricordo è una danza di emozioni che ricopre ogni pensiero, lo trasforma nella più bella e romantica fantasia. Un sogno che sembra reale, sembra possa essere il futuro, e come un fuoco la speranza accende nuovi orizzonti… solamente dipinti. Totalmente preda della visione di un passato che non vuole rimanere tale. Si trasforma in una piccola trappola: io dentro la gabbia, incapace di vedere che la porta è lì davanti, aperta, spalancata. Preferisco danzare e girare in questo turbine di fumo, lasciarmi trasportare, piangendo la speranza disillusa. Non respiro, vedo in bianco e nero, mi lascio penetrare dal lutto di una fine. Ci resto. Mi tengo stretta. Accetto la scelta della rinuncia. Colgo la saggezza nel rifiuto dell’amore. Paralisi totale.

Ma devo tirare il fiato, sospiro profondamente. Inizio nuovamente a respirare. L’aria è fresca, è luce, riempie. Fiori colorati a riempire i vuoti, sono profumati. E’ vita che inizia a germogliare. Un lampo di colori illumina il grigiore del nulla. Una scheggia cristallina crea un varco, poi un altro, e il cuore ricomincia a pulsare. I miei occhi iniziano a vedere, il mondo è tornato ad esistere. La tristezza resta, ma per esaltare la bellezza. Mi permetto di stare a metà, con il cuore sofferente e l’anima che respira vita. Aspetto. Ho fiducia. Il giorno nuovo sta per arrivare, sarò pronta. Potrò presto accogliere tempeste di arcobaleni. Sarò forte. Sarò più consapevole. Sarò nuova. Posso già vedere questo meraviglioso miraggio di realtà.
​
Infinita gratitudine lega passato, presente e futuro in un unico istante. Mi commuovo. E proseguo il mio cammino, respirando dal cuore. 
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'Esprimere i sospesi' di Lorenzo Manfredini

12/12/2018

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Se si è riusciti a dire ‘la storia è finita, la relazione è finita, mi separo da te!’ ci si apre alla prateria delle emozioni, alla possibilità di esprimerle e soprattutto di provare a chiudere le cose sospese: le cose non dette, gli sbagli, le incomprensioni, i malintesi.

In ogni relazione, dalla più traumatica, perché non attesa, a quella naturale, perché doveva andare così, la separazione avviene dopo un più o meno lungo periodo di disallineamento dall'altro, dove non sempre la comunicazione è stata aperta e chiarificatrice.

Anzi, è molto frequente il contrario: comunicazioni contraddittorie, comportamenti che feriscono o emozioni che allontanano.

In questa seconda fase, pertanto, il libro delle comunicazioni chiarificatrici si apre con lo scopo di definire i sospesi, se ce ne sono, esprimere eventi, emozioni vissute di conseguenza e reazioni avute. Sia proprie che dell’altro.

In un certo senso si prende la spinta per ripulire le negatività accumulate mediante l’espressione e ci si congeda dall'altro senza il peso di non aver detto o fatto qualcosa.

Le frasi del non detto potrebbero essere espresse con: ‘quello che non ti ho mai detto è…’, ‘quello che non ho potuto dirti è…’.
I dispiaceri nascosti potrebbero essere manifestati con: ‘mi dispiace molto quando ti ho fatto, detto, non ho fatto …’.
Le sofferenze patite o inflitte potrebbero essere spiegate con: ‘ho sofferto molto quando tu … ‘, ‘mi dispiace di averti fatto soffrire in quella occasione …’. E così via.

Qual è il problema di questa fase?

Riuscire ad esprimere contemporaneamente parole chiarificatrici, emozioni sentite e riflessioni sistemiche che considerino non solo l’altro, verso il quale ci si scusa e ci si chiarisce, ma anche l’altro dentro di sé. 

Il problema per cui molte persone non riescono ad esprimersi e provare sollievo in questa fase è quella di non voler tornare dentro certi dispiaceri che come calamite risucchiano e disorientano. Non vogliono essere disorientate da se stesse e dalla propria solitudine, rituffate nel proprio lago interiore, in balia di una mancanza di fiducia, energia e direzione, nonostante le chiarificazioni.

Perché questo? Perché l'altro non c'è più e non ci può ascoltare veramente?!

E' vero, l'altro non c’è più, le cose dette sono state tante, le emozioni anche, ma non si tratta ‘solo’ di dire tutto o 'svuotare il sacco', va chiarita la volontà di trovare delle risposte dentro la propria esperienza e confusione: ’cosa sarà di me e come affronterò le ansie della mia vita?’.

In sintesi, oltre alla chiarificazione dei sospesi, occorre sperimentare come in un Koan Zen, l’esperienza del proprio buco nero (un esempio di un Koan Zen è il seguente:  ‘focalizzati sulla mano che parla’, scompariranno i pensieri, svaniranno i bisogni e osserverai la natura della tua esperienza).

In pratica, non bisogna temere di sostare nel proprio vuoto e trovare le risposte che sono insite in quello stato. Anche a lungo.

Ci sono buoni esercizi e buoni motivi, per farlo. 
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'Il processo di separazione' di Lorenzo Manfredini

11/12/2018

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Separarsi da qualcosa è un andirivieni. Si va avanti, si torna indietro, si rimugina sulla perdita, si mantiene un legame fantastico e virtuale con il mancante, ma c’è un compito fondamentale da realizzare in questa prima fase del processo di separazione: inviare al cervello biologico un messaggio di chiusura, chiara e definitiva, della relazione.

La metafora di una tragedia come il naufragio su un’isola deserta può aiutarci a capire quanto sia complessa questa fase. Dopo il naufragio su una spiaggia sperduta e aver realizzato dove si trova, il protagonista prende atto che deve trovare riparo, esplorare il territorio, cibarsi, scrivere un messaggio in bottiglia o fare segnali di fumo. Viceversa, muore.

In pratica, il protagonista ‘deve’ accettare il naufragio e con esso la mancanza di strade alternative oltre alla realtà dei fatti. Qualsiasi fantasia viene stroncata dalle evidenze e dal tempo che passa e va riconosciuta. Invece di sperare e di fantasticare recuperi reali o simbolici, il protagonista dovrà tagliare la legna per fare un fuoco, scaldarsi e fare una zattera di salvataggio.

La metafora del naufragio ci aiuta a comprendere che in un cambiamento drammatico … ‘o ti adatti, o muori!’.

Per ritornare alla nostra relazione, che non c’è più, le parole da dire sono semplici e chiare: ‘la storia è finita, la relazione è finita, mi separo da te!’

Cosa succede invece?

Si attivano rituali opposti. Si rafforza la memoria della perdita e si compiono azioni e giuramenti che tengono in vita i ricordi in una sorta di legame virtuale, criogenico.

Nella nostra metafora del naufragio ci si accascia sconsolati, spiaggiati e ripiegati nel dolore. Si arriva a desiderare di lasciar morire qualche parte di sé e di lasciar naufragare ogni barlume di vita e di speranza: ‘tanto è inutile’.

Prima di poter dire ‘chiudo la relazione, mi separo da te per sempre, ti lascio andare’ si fanno i conti con promesse, fissazioni e rituali che congelano il lutto e lo paralizzano.

Le promesse (‘non sarò mai più così …’, ‘senza di te non potrò realizzarmi, essere, amare ...’,‘tu sei mio per sempre!’), le fissazioni (atteggiamenti che apparentemente riducono il malessere e fanno sentire ‘a posto’) ed i rituali (comportamenti che reificano la presenza del mancante) diventano la prigione di un io diviso, esausto e incapace di reagire.

Questa fase, che è la prima di sei fasi dell’elaborazione del lutto, a mio parere è la più difficile. La persona vive in una bolla senza tempo e senza spazio e ha continue riedizioni dello stesso film.

Qual è il problema di questa fase? Non riuscire a innescare nuove configurazioni neurali. La persona fatica a vivere i propri momenti come ‘esperienza’, non individua la propria capacità di reazione di fronte al vissuto paralizzante e di conseguenza non riconosce le ‘magie’ di cui può essere capace in determinate situazioni.

Veniamo al dunque. Le promesse sono un impegno a compiere determinati atti o a tenere determinati comportamenti; le fissazioni sono pulsioni che non trovano sbocco; ed i rituali servono a preservare l’equilibrio della propria identità. In pratica sono soprattutto ‘esperienze soggettive’.

Il problema allora si ribalta. Non è più la mancanza di qualcosa o qualcuno, ma l’esperienza della mancanza: ‘che tipo di esperienza è mantenere una promessa, percepire le proprie pulsioni bloccate o sentir vacillare la propria identità?’

Prima di riuscire a dire ‘chiudo la relazione, mi separo da te per sempre, ti lascio andare’ la persona ha bisogno di esplorare e gestire le proprie sensazioni creando una base che gli permetta di riconoscere il passaggio da impotente, incapace, annichilito a ’sento qualcosa, in questa situazione potrei gestirla in questo modo, qui potrei fare così, e così via’.

In pratica, utilizzando delle domande, si creano i presupposti per operare su due piani paralleli. Si opera con il corpo attraverso piccoli movimenti ripetuti e facendo domande mirate, oppure si creano le condizioni per uno stato di rilassamento dialogando in un leggero stato di trance.

Si fissa una base di partenza e si individuano i piccoli passi che portano alla meta di questa prima fase del lutto: ‘quanto è difficile vivere in questa condizione da 1 a 10? Quello che provi, come lo provi?  Che speranze hai rispetto al vissuto di questa condizione? Che margine di tempo ti concedi? Quanto forte percepisci la tua capacità di reagire a questa situazione da 1 a 10? Possiamo valutare insieme cosa ti aiuterebbe a passare da 3 a 4 nella tua capacità di …? Etc. 

Solo riuscendo a ritrovare rilassatezza, parole e risorse, la persona sarà in grado di accedere al proprio potenziale di reazione e affermare le fatidiche frasi: ‘mi fa male, ma sto comprendendo che non ci sei più’; ‘non lo vorrei, ma è bene che mi separi da te’; ’ti vorrei avere qui con me, ma capisco che ti debbo lasciare andare’.

In seguito approfondiremo tecnicamente.

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'Il dolore ha un nome' di Lorenzo Manfredini

9/12/2018

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La gestione di una perdita, come abbiamo provato tante volte nella vita, comporta una gamma di emozioni che non è controllabile o dominabile a nostro piacimento. All'inizio, soprattutto, non è definibile ciò che si prova.

L’evento in sé è chiaro, è mancato qualcuno, è finito qualcosa, abbiamo subito un trauma, il dolore ha un nome, ma quello che si sperimenta affacciandosi a quella finestra, è indefinibile: il dolore e le sue espressioni non trovano casa.

A livello fisico possono apparire dei sintomi: insonnia, perdita dell’appetito, mal di testa, nausea, utilizzo di medicinali, situazioni di abuso (es. alcol, sigarette, etc.). A livello psicologico si possono manifestare: crisi di pianto improvvise, confusione mentale, senso di spossatezza, apatia, depressione, senso di colpa, rancore, rabbia.

Si provano tante sensazioni e stati mentali che si confondono in un abisso buio e profondo. Appigli esterni non ce ne sono, bisogna trovarli dentro. Occorre fermare quella caduta, muoversi a tentoni, essere presenti a se stessi e cercare di andare oltre il dolore della separazione e del distacco e passare da una definizione del problema (‘senza te perdo me stesso e non sono più nessuno’) a un cambio di paradigma (‘grazie a te ho potuto trovare un pezzo di me e scoprire chi sono’).

La ricerca di una connessione con l’amore vissuto precedentemente crea un ponte non risolutivo, ma utile per aprire un nuovo scenario mentale: ‘ti ringrazio, con te sono stato bene, ho provato certe cose, mi sono conosciuto meglio’.

La presenza dell’altro ha creato attaccamento, sicurezze e investimenti emotivi che ora non ci sono più. E’ necessario, in questa fase, creare un’esperienza alternativa al cervello, una presa di coscienza, un ponte di sostegno, atti di consapevolezza che non interferiscano con il suo preziosissimo lavoro di riparazione.

Le decisioni prese in questa prima fase non hanno un potere effettivo totale, ma rappresentano un primo passo affinché la separazione sia presa in considerazione e si realizzino due fenomeni: l’individuazione ‘io sono io’ e l’autonomia ‘grazie a te ho provato, ho vissuto e sono cresciuto … ma io sono io e tu sei tu’.

Già solo ripetere queste frasi crea le basi per alleggerire il carico emotivo, percepire un senso di padronanza, di autostima e consapevolezza delle proprie risorse individuali.

E’ un momento estremamente delicato dove soffrire, soffocare, contenere, sono tutt'uno.

In quel magma, che non solo riguarda la perdita di qualcuno o di qualcosa ma anche passaggi della vita e crisi evolutive, dobbiamo promettere a noi stessi, fin dall'inizio, fin da prima che accada qualcosa che non vorremmo, che: ‘qualsiasi cosa accada faremo il possibile per dare il meglio di noi’.

Riuscirci sempre è un’altra storia, ma provarci è un buon inizio.

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'Le difese dal dolore' di Lorenzo Manfredini

8/12/2018

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Abbiamo visto che nelle prime fasi di elaborazione di un lutto ci si protegge con meccanismi di difesa per fuggire dal dolore.

Fuggire dal dolore fa pensare a qualcosa che ha a che fare con la sopravvivenza immediata da un pericolo travolgente e possiamo considerarla, almeno in prima istanza, sana e naturale.

Ogni meccanismo che andremo ad analizzare, pertanto, potrà avere angolazioni utili, lati sfavorevoli e durata più o meno giustificabile.

I meccanismi di difesa individuati da Freud e successivamente integrati da altri autori sono oltre 20. Ne esamineremo alcuni legati alla elaborazione del lutto, che sono: rabbia, negazione, svalorizzazione, autosvalutazione, idealizzazione, dare la colpa ad altri e rimuginare sulla domanda infinita: ‘perché ...?’

Rabbia
La rabbia nasce dalla primordiale reazione-azione di attacco e fuga e la sua zona di attivazione si situa nel nostro cervello rettiliano. Secondo autori come P. Mc Lean, è la prima risposta alla conservazione della nostra integrità e sopravvivenza. Nasce come reazione alla frustrazione di una perdita, ma contemporaneamente maschera il dolore. Ecco, la rabbia aiuta a sfogarsi, ma non permette al dolore di essere espresso. Il dolore espresso è sofferenza, dispiacere, amarezza, angoscia, disperazione, tristezza, lacrime e parole. Provando rabbia nascondiamo il dolore, ma è lì che dobbiamo andare.

Negazione
E’ il tentativo di isolare il dolore, di trovargli uno spazio tutto suo e di perdere le chiavi. Ecco, senza la consapevolezza di questo processo di difesa tutto automatico, il dolore diventa un fantasma. L’affetto viene negato e rimane solo il dato: ‘quella persona non c’è più, quel rapporto è finito’. Quando si nega l’affetto e quindi l’evento con la sua carica emotiva, ci impediamo di inviare messaggi all’io biologico di chiusura definitiva della relazione e ci allontaniamo da una risorsa fondamentale che è la capacità di reagire agli eventi.

Svalorizzazione e Autosvalutazione
La perdita va a inquinare il giudizio su di sé e la conseguente diminuzione di valore nei propri confronti e nelle proprie possibilità. E’ un vero e proprio attacco all’autostima: ’io non valgo, io non sono degno, io non me lo merito, etc.’

Idealizzazione
L’idealizzazione, invece, è una manovra che permette di identificarsi con gli aspetti positivi dell’altro, di un vissuto o di una situazione, assumendoli come propri. E’ come sentirsi proprietari di una casa senza pagarne l’affitto. In apparenza c’è un tetto sopra la testa, ma si nasconde al mondo che ciò è falso. In pratica, si vive l’illusione di avere sotto quel tetto, una sorta di ‘completamento relazionale interiore’, tutto proprio.

Dare la colpa agli altri
Lo scopo è quello di salvaguardare se stessi e il proprio mondo emotivo. L’obiettivo è attribuirne la colpa agli altri. Significa evitare di mettere in discussione o di compromettere il confronto, le ragioni e le qualità affettive di sé che non si riconoscono o non si accettano.

Rimuginare sulla domanda infinita
Riguarda più cose. Da una parte ci si relaziona con gli altri cercando risposte, senza mai trovarle appaganti. Dall'altra cercando nella persona sbagliata qualcosa che appartiene a qualcun altro del passato.

Ricapitolando, le difese legate alla perdita isolano dal dolore (rifiuto), proteggono l’ego (negazione), confondono il giudizio (isolamento), giocano con le tre carte (gioco di prestigio sulle identificazioni), riducono le emozioni e le responsabilità (paura-depressione- tristezza), e dilatano il tempo del processo del lutto (venire a patti con la realtà). Insomma, niente di buono e questo niente di buono può durare mesi e anni. Una terra di nessuno nella quale si girovaga senza meta.

L’altro processo non positivo di tutta questa complessa fase si attualizza nella negazione del processo di attuazione del distacco (accettazione, perdono e rinascita).

Naturalmente, tutta questa gamma di reazioni emotive non è controllabile e dominabile a piacimento. Spesso si rimane bloccati e in quel blocco un aiuto lo possono dare gli amici, gli affetti, un nuovo modo di guardare le cose per addentrarsi nella ‘selva oscura’ alla ricerca della propria elevazione coscienziale e spirituale.
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Dovremo avere la forza di cambiare segno e di pensare che anche senza l’altro … la nostra anima ha un buon paio di ali.
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'Soffrire va oltre l'esperienza psichica' di Lorenzo Manfredini

7/12/2018

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La sofferenza per i malati, per un amore che finisce, per una persona che non c’è più, va oltre lo psichico e tocca il biologico. Nel vissuto dell’attaccamento e della separazione, la naturale divisione tra esperienza mentale e corporea, tra sé e l’altro, tra presenza e assenza, tocca le radici stesse della sopravvivenza individuale. Scardina le strategie di gestione dell’angoscia e del dolore, travolge gli schemi comportamentali acquisiti nell'infanzia, toglie ossigeno ai comportamenti adulti, imprigiona il futuro e blocca l’elaborazione e lo sviluppo di alternative.

Ecco come ci sentiamo quando viviamo esperienze di separazione, lutto e dolore: viviamo dentro una gabbia, separati dai nostri processi vitali.

Questa cosa ci tocca in profondità. Siamo senza arti emotivi, senza legami vitali, senza gli stimoli sani della sopravvivenza. Il nostro corpo biologico va in pezzi.

Il dramma della perdita ha un prima, un durante e un dopo che ci fa sperimentare l’abbandono, la solitudine, la paura, il senso di colpa e la nostra vulnerabilità.

La perdita di un legame mette in discussione la capacità di provvedere a sé stessi e sopravvivere. Per un periodo più o meno lungo si vaga nel vuoto, senza appigli e senza avere un compito da svolgere che abbia un significato vitale.

Non ci sono risorse, sostegni, strategie di gratificazione che tengano o strategie di letture della realtà che giustifichino i fatti. Inizialmente prevale la preoccupazione, l’impotenza, l’inadeguatezza. In una parola, si sperimenta la ‘morte’.

Una parte di noi non accetta la perdita e un’altra parte registra una sorta di impossibilità a sopravvivere: ‘come farò a continuare a vivere e a cavarmela?’

Ogni legame ha un ché di connaturato con la sopravvivenza e ogni perdita è realmente vissuta come un ‘pericolo di vita’. In età adulta ovviamente ciò ha a che fare l’impossibilità di percepire la fiducia di ri-innamorarsi, di riuscire a cambiare lavoro, di lasciare le vecchie abitudini o di accettare le esperienze dolorose come fatti della vita.

La risposta dell’organismo a tutto questo? La produzione di sintomi e segnali di pericolo!

All'inizio, quando si ‘realizza’ la perdita, prevale un terremoto esistenziale con un senso di smarrimento e di mancanza, del tutto sano e naturale. Se non si è ‘preparati’, invece, si assiste a un processo di cronicizzazione fatto di due aspetti. Da una parte si attuano meccanismi di difesa per fuggire dal dolore, dall'altra, si attualizza la negazione del processo di accettazione del distacco.

In pratica ci si confonde con i lacrimogeni (meccanismi di difesa) e si mette in quarantena il processo del distacco dall'oggetto d’amore e tutto ciò che lo riguarda (potenzialità, risorse, reazioni).

Ogni perdita però va gestita e va elaborata. Se lo facciamo ci fa crescere. Se non lo facciamo, perdiamo la nostra anima e non siamo più nessuno.
Se lo facciamo, grazie all'altro che non c’è più, scopriamo quella dimensione della nostra anima che ci fa dire: ‘io ci sono, sono qui, sono vivo, la vita va avanti!’

Tutto ciò riguarda un processo che evolve per fasi. Le vedremo insieme.  
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'Un modo di fare ‘colloquio’ in acqua' di Riccardo Manfredini

6/12/2018

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In acqua sono riuscito a trovare una metafora, una palestra e un ambiente in cui verificare le basi del colloquio nella relazione d'aiuto: il setting, la preparazione, la disponibilità, la fiducia, l'ascolto passivo, l'ascolto attivo, l'accompagnamento. Lavorare sotto le parole per andare nel corpo. Una sensibilità davvero profonda per condividere un'esperienza con l'altro. Un modo di mettersi in discussione e restare in attesa e in ascolto.
 
Tralascio pensieri e distrazioni. Mi predispongo alla relazione. Ti prendo le mani e creiamo un sistema duale. Il resto rimane fuori. Ti guardo, respiro e con un cenno del capo ti chiedo il permesso d'iniziare. Le parole non servono.

Tu ti affidi all'acqua, io ti sostengo e ti avvicino a me. Sento il tuo peso, sento le piccole onde che lambiscono la pelle. Ti osservo galleggiare e ci diamo il tempo di trovare il nostro assetto. Ricerco la mia comodità, stabilità e serenità per permetterti di fare altrettanto.

Chiudo gli occhi e ascolto. Provo a cogliere le variazioni. Il mio respiro e il tuo respiro diventano il nostro respiro. Le nostre individualità restano ben distinte ma s'incontrano. Anche se sei vigile lentamente ti rilassi. So che dovrò avere ancora più riguardo. Non mi riverso su di te e non mi distanzio. Mantengo l'equilibrio nel contatto.

In base al tuo appoggio sulle mie braccia mi accorgo del tuo graduale abbandono. Mi concentro per essere con te, per stare con te.

Ti tocco le mani e le braccia, ti lascio il tempo di accogliere. Poi procedo con leggere pressioni e carezze. Percepisco la tua consistenza, eventuali tensioni e le forme. Inizio a muoverti nello spazio. Comincio piano per poi aumentare. Le mie sono proposte e le tue reazioni mi aiutano a comprendere.

Ti ascolto. Noto la fluidità e il grado di rilassamento in base alle risposte che mi rimanda il tuo corpo. Non conosco il tuo passato ma sono consapevole di come questo abbia modificato la tua postura, il tuo atteggiamento. Se mi accorgo che mi assecondi nel movimento cerco di distoglierti. Se sento rigidità rallento e sto nei tuoi confini. Provo a discernere tra ciò che credo giusto, piacevole, interessante per me da ciò che in realtà è buono per te e ti seguo. Non punto sulla forza o sulla prestazione o al bel movimento, sono con te, per te.

Più riuscirò a rispettarti e più ti potrai lasciar andare.

Puoi lasciare, puoi cambiare, puoi regredire mentre ti accompagno. Posso sembrare io a condurre ma in realtà sei tu che guidi. Mentre provo, sperimento, oso, tu mi lasci il campo entro cui agire. Se esco da questa dimensione diventa un mero esercizio di stile. Se resto centrato possiamo evolvere e andare lontano.
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Grazie acqua... ma soprattutto grazie a te.
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'Passi indietro per ri-salire' di Lorenzo Manfredini

6/12/2018

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Ogni crisi, nel profondo, cela una configurazione che per quanto casuale è risolutiva sia nella caduta che nella ri-salita.

Nell'abisso della crisi c’è qualcosa che può giocare a favore, l’inconscio è neutrale, e c’è qualcosa che può giocare contro, l’io si dissolve. Le emozioni si confondono, specialmente quelle delle anime sensibili.

Per non farsi troppo male, occorre trovare la porta della crisi, mantenere al massimo la calma, permettere ai nostri programmi interiori di manifestarsi e ai nostri occhi di adattarsi. Le colonne portanti sono la caduta e la risalita di un’anima errante.

Bastano poche cose: accompagnare l’Io terrorizzato dalla crisi, saper cadere nel buio dell’abisso e assestare un bel calcio agli eventi minacciosi. Cioè, agire senza perdersi d’animo e collaborare con gli alleati interiori. Gli alleati sono nuove idee sui fatti, nuove intuizioni sugli avvenimenti, imitazioni di azioni sagge e lungimiranti.

Il metodo migliore?
Agire come se fossimo saggi, attori di un’imitazione alternativa e riproduttori di immagini di noi stessi pronti al cambiamento. Fischiare in poesia e vibrare alla ricerca di una sublimazione del dolore.

Ma come si fa quando ci sono in atto conflitti, scelte difficili o dubbi?
La risposta è nella percezione che abbiamo di noi stessi. In quell'ascolto che se anche ci vede immobili come le pietre, ci lascia un margine per compiere un passo in avanti e un movimento di danza. Possiamo farlo perché non siamo in prigione, la prigione è mentale.

La prigione, o meglio la limitazione, è la catena al piede dell’elefante (la nostra forza), è il collare al collo della tigre (le nostre emozioni), è l’acqua che arriva alla gola (i nostri desideri), è il sole che brucia le ali (le nostre idee), e può essere trasformata in opportunità.

E’ vero, gli episodi avversi ci rovesciano, ma se non ci uccidono, ci migliorano. Di questo dobbiamo esserne certi, si possono trasformare gli eventi sfavorevoli in opportunità. Ce lo raccontano le storie in ogni salsa e le esperienze di ogni dove.

Così è vero anche il contrario, teniamo un piede sulla barca e una sul molo, e così non sperimentiamo il coraggio, non compiamo il passo dell’amore, sperimentiamo la paura di vivere e quando siamo pronti il momento è già passato. Ci inventiamo un mondo immaginario, collochiamo la felicità nel futuro e sogniamo di raggiungerla. Succede anche questo.

Ma quando sviluppiamo lo sguardo di un io personale che osserva con ammirazione anche una pietra, allora contattiamo quell’io essenziale che sa vedere nelle circostanze, oltre le cose, il miracolo dell’esperienza. Sa apprezzare le forze in gioco che ci guidano e continuano a manifestarsi.

Stiamo attenti ai falsi maestri di luce, a quelli che ci portano con troppa razionalità a dimenticare, a quelli che ci conducono altrove o a quelli che hanno visto qualcosa ma che non sanno dire che cosa.

Quello che dobbiamo fare con umiltà è muovere le cose, fare esperienza di sensazioni e compiere atti naturali. Aprirci un varco oltre la foresta, superare i pregiudizi ed esplorare il nostro essere oltre quel buio.

Facendo esperienze di vita scopriremo che le aggressioni e il dolore che proviamo, sono mutilazioni di un amore inespresso a cui dobbiamo rispondere con azioni, cambiamenti, maturità.

Il vero motore delle nostre realizzazioni diventa allora la sintesi di un dolore che consuma e di un piacere che fa crescere. Il dolore non va giudicato, va incanalato senza sposarlo e il piacere va lasciato andare quando scade.

Ci salviamo se ci apriamo, se riconosciamo un pensiero collettivo e se accettiamo l’idea di agire con gli altri.

La nostra forza si moltiplica se non ci sentiamo più soli e nell'istante in cui accadono le cose condividiamo lo stesso spazio, lo stesso tempo e la stessa coscienza.

Pertanto, rallegriamoci per il tempo trascorso con chi ci ha lasciati, ma non soffriamo inutilmente per il tempo in cui saremo soli. Custodiamo nel cuore i morti che abbiamo amato, ma non rinchiudiamoci nella bara insieme a loro.

Rimangano pure nella nostra memoria, nutriamoci della loro bellezza, ma permettiamo alla vita di essere quello che è … energia, movimento, esperienza.
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'La ricchezza dei legami' di Lorenzo Manfredini

5/12/2018

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La nostra ricchezza sono i legami. I sensi estendono il nostro Io nell’ambiente, la memoria registra quell’incontro, l’immaginazione conferisce sacralità ad ogni scoperta e relazione, l’azione del dare diventa un prendere e portare a sé, e quello che non si dà si spegne dentro.

Noi creiamo legami e questi diventano la nostra realtà, la nostra estensione, la nostra verità. In ogni legame investiamo energia, la trasformiamo in simboli e abbiamo l’opportunità di vedere la realtà sotto diversi punti di vista.

Siamo in grado di trasformare le nostre debolezze, limiti e difetti in opportunità. Nei legami che creiamo con le cose, con gli animali, con le altre persone, con la spiritualità, creiamo fari di luce che ci vedono immortali, illimitati, onnipotenti, onnipresenti, perfetti.

In ogni ruolo, dal genitore al medico, dal comandante al semplice essere umano, giorno dopo giorno, sperimentiamo il bisogno di crearci un’anima (come dice il filosofo di origine russa Gurdjieff) da coltivare e far crescere.

Cresciamo negli amori imperfetti, negli affetti senza carezze, nell’amicizia senza affetto, nell’attaccamento senza presenza e desideriamo tutto il contrario: saldare le nostre certezze e ancorarle per sempre all’amore.

Così, quando sperimentiamo l’abbandono, un lutto o un cambiamento, non siamo pronti. Non siamo pronti per il dolore, per nuovi significati, per nuove trasformazioni.

Quando siamo colti alla sprovvista da qualcosa che ribolle dentro di noi e che ci chiede di affrontare la realtà e risolvere i nostri problemi, abbiamo bisogno di carezze. Di qualcuno che senza secondi fini, senza nessuna dimostrazione di potere, con rispetto e attenzione gentile, comunichi con il nostro io essenziale, al di là della sofferenza, e ci trasmetta il desiderio di continuare a vivere.

Detestare la vita perché i nostri legami si sono frantumati o amare l’esistenza per quella che è, è una questione di scelta. La scelta di penetrare nei labirinti della memoria e distruggere quel giudice interiore che impedisce di riconoscere le pulsioni della morte e le devianze della personalità, fino ad avere il coraggio di dire: ‘questa è la vita, questa è la morte, questo sono io’.

Essere in grado di affrontare le ‘molestie della vita’ non è da tutti. Richiede una pazienza infinita e un amore profondo per i processi di riparazione. Richiede di attivare modi artistici di essere e di vivere che prima agiscono nei sogni e poi diventano realtà.

Ogni lutto, malattia, abbandono, ci ripiega su noi stessi, ma ci invita anche a riconoscere la realtà, a migliorare il rapporto con noi stessi e a riformulare necessità, desideri, sentimenti e idee.

Una rivoluzione che ci fa dire ‘riparto da qui!, dall’esperienza, da una sensazione, da un sentimento, da un atto naturale di sepoltura da cui può nascere un fiore e una visione diversa della morte e della vita’. 
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Costellazioni: la malattia è un dono?' di Lorenzo Manfredini

3/12/2018

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Credo sia evidente a tutti che esiste una coscienza famigliare e collettiva.

Ma, è una buona idea rimettere ordine alle ingiustizie avvenute nelle generazioni precedenti?

Secondo Hellingher (Psicologo e Psicoterapeuta delle costellazioni famigliari) certamente ‘sì’, altrimenti si potrebbe rimanere segregati in tre tipi di possibili irretimenti.
1. Qualcuno è morto prematuramente? ‘Ti seguo nella morte, nella malattia o nel destino’;
2. Qualcuno ha sofferto? ‘Preferisco morire io al posto tuo’, o ‘preferisco andare io in vece tua’,
3. Qualcuno ha commesso gravi errori? ‘Voglio espiare la tua (o mia) colpa.

Chissà se da bambini, o da adulti, abbiamo avvertito che nella nostra famiglia qualcosa non ha funzionato, se si sono percepiti dei torti o si è avvertito una irresistibile esigenza di compensare tali soprusi senza riuscirci?

Se sì, quale tipo di situazioni stiamo rappresentando o soffrendo in vita affinché possiamo ritrovare un ordine? Un ordine interiore evidentemente, pena una ‘coercizione ripetitiva sistemica’.

Qual è il problema, secondo Hellinger, per chi vive da vicino tutto ciò?
Che ripetere gli errori non rimette a posto le cose. Inoltre, sobbarcarsi il destino degli esclusi, di quelli che inconsapevolmente si accollano la coscienza della stirpe, significa mettersi sul capo una bella corona di spine.

I veri colpevoli, quelli che hanno creato i problemi, non necessariamente se la cavano male. Hanno agito, nel bene o nel male e hanno pagato in vita le loro azioni. Chi si accolla le conseguenze nelle generazioni successive, invece, è il sistema e in particolare qualcuno del sistema, anche se innocente.

La coscienza del gruppo, pertanto, è tremenda perché non ha un senso di giustizia per i discendenti, ma solo per i predecessori. I predecessori se la cavano, ma lasciano in eredità qualcosa di cui qualcun’altro se ne dovrà occupare.

E’ questo uno dei motivi che può spiegare la sensibilità alle sofferenze che subiamo in vita e che ci esorta a riconoscere dinamiche collettive più profonde?

Il senso della vita rischia di perdersi se le cose spiacevoli si ripetono senza farci nulla, o quando perdiamo il diritto di appartenenza a un sistema o subiamo un’ingiustizia. In quei casi, la mancata risoluzione, si trasforma in irretimento. Beffa e danno, dunque: non si è responsabili, perché i responsabili sono altri, non si è consapevoli di un danno, perché non si è colpevoli e si vive una responsabilità sistemica, senza esserne al corrente.

In qualche modo siamo responsabili di ciò che è accaduto nel nostro sistema. Il sistema è il luogo senza tempo e senza spazio dove viviamo problemi che richiedono di essere risolti.

E’ possibile tutto ciò? E come si fa?

Nell'ordine delle cose si recuperano i fatti, la tolleranza emotiva, l’accettazione e il senso della vita, e si crea una nuova costellazione. Qualcosa che ha un senso profondo per noi. E la si esplora per far emergere chiarezza, risolvere le paure e vedere la realtà.

E’ una catarsi. Viene di dire che la ‘malattia’ diventa dono, almeno in questa prospettiva.

Quando si esce da una identificazione malata, si accettano le cose così come sono in accordo con la malattia, la morte e il destino proprio e degli altri. Si smette di espiare per qualcuno o per qualcosa. Si accetta che i propri sforzi a volte non servono e che la propria sofferenza non può salvare nessuno, soprattutto quelli che non ci sono più. 
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'Costellazioni famigliari: destino d'amore' di Lorenzo Manfredini

2/12/2018

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E’ ancora attuale il tema delle costellazioni e della terapia sistemica della famiglia, nata dalle esperienze con i clan tribali e con famiglie riconoscibili, in un contesto come quello attuale dove le famiglie sono sempre più allargate, la società sempre più liquida e l’individuo, sempre più simile a una testuggine, pronto a difendere il proprio ‘ego’ e le apparenti conquiste della propria indipendenza e libertà’?

Siamo cresciuti con Freud e Jung che ci hanno invitato a un serio esame di coscienza nel cercare dentro di noi le cause dei nostri condizionamenti, drammi e segreti, anche famigliari. E mi chiedo: 'non è che le trasformazioni attuali della società, della famiglia e anche del singolo, sono solo palliativi, illusori e compensatori, del nostro destino quotidiano?

La società evolve e noi continuiamo ad interrogarci sulle responsabilità e sulle colpe del nostro vivere e a barattare molto spesso il prezzo della nostra felicità e salute.

Secondo Hellingher (Psicologo e Psicoterapeuta delle Costellazioni Famigliari), non esistono solo dei ‘sentimenti primari’, in relazione diretta agli avvenimenti che ci feriscono, o ‘sentimenti secondari’, in sostituzione dei sentimenti primari che ci difendono, esistono anche dei ‘sentimenti acquisiti’, sentimenti di altri significativi (genitori, parenti, mentori) di cui respiriamo la matrice e il loro vissuto, inconsapevolmente.

E questo è un aspetto tremendamente interessante: non siamo soli, siamo immersi in un tessuto di relazioni, di cui volenti o nolenti ci facciamo carico con le nostre paure, angosce, dolori, distanze.

Vogliamo stare meglio? Vogliamo ‘guarire’ da qualcosa?

Dobbiamo assecondare il flusso dell’amore. E cioè, riprendere il moto dell’amore verso i genitori e la vita e trasformare i sentimenti di rabbia, collera, rimpianto o disperazione, e trasformarle da difese dal dolore a moti d’amore.

Dolore e amore sono due polarità da non temere, si sostengono senza vedersi e si abbracciano quando si mettono in scena.

Bisogna ‘solo’ lasciare andare i ‘sentimenti superficiali’ che li accompagnano, anche se fanno parte di un vissuto drammatico, e andare subito verso un movimento rigeneratore di amore. Un amore adulto.

‘Lasciare’ e ‘andare’, significa scoprire i movimenti interrotti, riprenderli e dar loro vigore. Lasciare le ferite e raggiungere una profonda pace interiore per realizzare nuove mete.

Dietro ogni comportamento, anche quelli più deleteri, c’è sempre amore. E’ nascosto dalle polarità amore/odio, amore/disprezzo, amore/disinteresse, amore/indifferenza, ma l’amore agisce sempre: ‘quella è la radice e quella è la soluzione’.

Occorre superare la mancanza dell’affetto ricevuto e le ferite della vita, andando a scoprire che dietro ciò che non meritiamo, dietro i nostri sensi di colpa e paure, dietro l’autoflagellazione, è necessario accettare da dove veniamo  e assecondare il nostro destino ... possibilmente in amore. 
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'Come essere leader oggi e non affogare nel proprio 'ego'' di Lorenzo Manfredini

1/12/2018

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Come può un’esperienza come il Master in Mental Training e Coaching rendere più forte la leadership di una persona, un professionista o un capo?

La risposta è semplice e complessa allo stesso tempo. Stimolando flessibilità e adattabilità con programmi di sviluppo personale e valorizzando i talenti della leadership di ciascuno nelle proprie dimensioni chiave.

E se è così, di quale formazione abbiamo bisogno per diventare persone capaci, forti e sensibili, allo stesso tempo? Pronti a realizzare un impatto significativo sulla nostra vita e quella degli altri?

E quali sono le caratteristiche chiave che aiutano ciascuno di noi a fare qualcosa di diverso e nuovo? Un nuovo lavoro, una nuova professione o nuove scelte per un cambiamento di vita?

Queste domande hanno ispirato il nostro progetto, il Master in Mental Training e Coaching, e tre condizioni virtuose: il rilassamento, le esperienze che ci fanno crescere e una formazione che consolida i nostri cambiamenti.

La prima domanda è questa: ‘dove dovremo rivolgere il nostro sguardo?’
In pratica, per essere leader dovremo capire dove siamo noi e dove va il mondo. Riconoscere le matrici che fanno incontrare il mondo interiore, tradizionale e legato a idee, immagini e sensazioni tutte nostre, con la velocità delle innovazioni, degli affari e del cambiamento.

La questione è legata allo sguardo che rivolgiamo al lavoro e alla vita privata.
Dove guardiamo per anticipare i cambiamenti? Ci guardiamo dentro? Ci nutriamo di libri e di lauree?  Accendiamo le nostre intuizioni o la nostra creatività? Ci colleghiamo con gli altri in modo più stretto?

Se la risposta è nel calendario, perché non abbiamo più tempo a disposizione, con chi passiamo il nostro tempo, cosa facciamo? Dove viaggiamo e cosa leggiamo? E poi, come utilizziamo tutte queste cose nella nostra vita? In che modo ci sentiamo preparati e pronti, adesso?

Che impatto desideriamo avere nella nostra vita?
Si tratta di capire come ogni cosa abbia un impatto nella vita di ciascuno - ecco perché vale la pena lavorare in gruppo.  Significa riuscire ad applicare strategie e anticipare nuove mosse ed equivale a camminare a testa alta per quanto la nostra vita sia stata 'stretta'.
Si tratta di sbirciare dietro gli angoli, modellare il proprio futuro e non solo reagendo ad esso.

Quanta diversità è presente nella nostra rete di interessi personali e professionali?
Si tratta di sviluppare delle relazioni con persone diverse da noi. Di apprezzare le differenze, sviluppare collaborazione e fiducia nei loro confronti, trovare soluzioni e raggiungere obiettivi comuni.

Quindi una rete diversificata, una rete di relazioni basate sulla fiducia, la collaborazione, la sinergia.

Quando c’è abbastanza coraggio, curiosità e intraprendenza per abbandonare un’abitudine a cui siamo affezionati, siamo più capaci di dire ‘sì’, di andare d’accordo con gli altri e andare avanti.

In sintesi, se siamo quello che siamo e va bene così, partecipando a questo Master manterremo ciò che è familiare e comodo, ma anche oseremo sperimentare cosa significhi essere migliori. Capaci di costruire una maggiore resistenza emotiva ai temi interiori, alle persone, a una nuova professione o una brillante carriera.

Insomma, non solo un passo in avanti, ma un salto in avanti. Non solo programmi di studio, ma domande ed esperienze che vanno al cuore del nostro essere migliori e preparati per una realtà che oggi e per i tempi a venire è ancora piena di risposte e opportunità.

Ti auguro la miglior vita possibile.
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'L'arte di ascoltarsi' di Laura La Barbera

27/11/2018

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Amo terribilmente il mare, amo il suo profumo, il suo rumore, la sua maestosità, la sua libertà. Amo stare in silenzio, a occhi chiusi ad ascoltarlo, sentendolo entrare con la sua energia potente. Non chiede entra e basta.

Vi è mai capitato di camminare in riva al mare e un’onda cosi improvvisa vi ha colto di sorpresa e fatto un bagno inaspettato? A me si … perché il mare è cosi, prima è calmo, vi accoglie, vi rassicura e poi accade che un’onda altissima arrivi e vi sorprenda.

Ma siamo sicuri che quel mare non ci abbia dato dei segnali, siamo sicuri che in fondo da qualche parte non c’era il principio di quell’onda che, se avessimo osservato un po' più in là, e se avessimo ascoltato più in profondità avremmo visto e cosi forse avuto il tempo di schivarla e non bagnarci dalla testa ai piedi?

A me, che piace trovare sempre le connessioni con quello che accade in Natura e quello che accade a “noi”, che siamo elementi della Natura anche se spesso ce lo dimentichiamo… mi fa pensare proprio che questo sia quello che succede quando non ascoltiamo noi stessi, eh si perché il nostro corpo, la nostra mente, e la nostra anima anche loro ci danno segnali continui, e quella è la bussola di che cosa accade dentro di noi …

Quante volte vi sarà capitato di dire: “è solo un mal di testa”, “è solo un mal di pancia”, “non riesco a dormire perché oggi al lavoro è stata una giornata intensa” o magari di avere il respiro un po' più corto.
E se fosse il nostro corpo a chiederci più attenzioni?
E se noi non ascoltiamo i segnali che il nostro corpo ci manda, magari per dirci “ehi non sarà il caso di rallentare”, che cosa potrebbe accadere?

Accade che il tempo passa e quella voce diventa un urlo ... da essere solo un segnale di qualcosa che non va, se continuiamo ad ignoralo allora, potente come quell’onda che si infrange sugli scogli, arriva “qualcosa” di molto più intenso che ci costringe a fermarci. Così bruscamente ci obbliga a prenderci cura di noi, ci obbliga a stare con noi, a fermarci per capire cosa c’è che non va.

Ma come facciamo ad ascoltarlo, a sentirlo prima che accada qualcosa di più grande?
​
Ascoltare la nostra voce interiore, o saggezza interiore, può avvenire solo se la nostra mente è in silenzio e sgombra. Come si fa a praticare il silenzio interiore?
​Mi sono sentita dire più volte che se uno ha “troppo da fare” non è possibile, e al giorno d’oggi, ahimè, tutti abbiamo quel “troppo da fare”.

Io sono convinta che è possibile imparare anche l’arte di ascoltarsi in questa vita che va di corsa, rallentando per un attimo, e concentrandosi nella parte più vera e profonda di noi da dove possono emergere, non solo intuizioni e idee che si basano su una conoscenza vera, antica e saggia ma anche dove si crea quello spazio per “sentire noi stessi”.
Poi c’è chi mi chiede “ma devo per forza meditare?” … il punto non è l’atto in sé del “meditare” ma l’importante è “ciò che accade” in quello spazio… e ciò che accade è “sentirsi” e se mi “sento” allora posso ascoltare …
Gli insegnamenti della filosofia Buddista ci riportano a “Il Buddha esortava i suoi discepoli a prendere come oggetto di meditazione il proprio corpo e la propria mente.”
Un oggetto frequentemente utilizzato, ad esempio, è la sensazione associata all'inspirazione e all'espirazione nel corso del naturale processo respiratorio.
Sedersi in silenzio prestando attenzione al respiro porta, col tempo, allo sviluppo di chiarezza e calma.
In questo stato mentale è possibile discernere più chiaramente tensioni, aspettative, e scioglierli con l'esercizio di una scoperta intensa e delicata al tempo stesso.
“Il Buddha ha anche insegnato però che è possibile sostenere la meditazione nel corso dell'attività quotidiana, e non solo quando si siede immobili in un certo luogo. Si può portare l'attenzione sul movimento del corpo, sulle sensazioni fisiche o sul flusso di pensieri e sentimenti che si avvicendano nella mente.” Questa attenzione dinamica si definisce come 'presenza’, o consapevolezza.
E allora potremmo fare un tentativo, rallentare, e concederci il dono prezioso di osservare, sentire, prenderci cura di noi ed imparare l’arte di ascoltare quel “mare”, quello spazio infinito e silenzioso che c’è dentro di noi …
Buon ascolto.

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'Il saluto e le sue diversità' di Lucia Vitolo

26/11/2018

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Ci sono tanti modi diversi per salutarsi nel mondo ma vorrei ampliare il significato di due parole in particolare, ciao e namastè, andando ad esplorare le diversità tra l’Oriente e L’Occidente.

Ciao deriva dal veneto 'ciavo quindi schiavo e a sua volta dal latino sclavus col medesimo significato con cui venivano indicate le persone di etnia slava che un tempo rappresentavano il maggior numero di schiavi del mediterraneo .

Il termine Namasté deriva dal sanscrito, l’antica lingua Indiana,ed  è composto da due vocaboli: “Nama”, che significa saluto o riverenza e “te”,che indica appunto noi.  Il suo significato letterale sarebbe: “ti saluto” o “ti venero”.

Già da queste due definizioni etimologiche potremmo ricavare informazioni sulle diversità legate alla cultura Orientale ed Occidentale. 

La prima prevede il vivere in armonia con gli altri e con la natura, e attribuisce scarso significato alla vita umana presa nel suo singolo, perchè ritenuta transitoria ed effimera. La seconda sposta il focus sul singolo individuo tanto da far sviluppare la competitività con l’altro così da essere definita come cultura individualista.

La cultura occidentale segue ideali come l’affermazione individuale e l’indipendenza, gli orientali al contrario praticano l’interdipendenza e l’armonia con il mondo concentrandosi sull’ambiente e su tutto quello che li circonda.
​
Anche il pensiero appare essere diverso, in Oriente prevalgono ragionamenti di tipo deduttivo, osservatore e spirituale, mentre in Occidente prevalgono quelli di tipo analitico, oggettivo, induttivo, materiale e concettuale.
 Un test condotto da Denise Park (Urbana University, Illinois, Usa)  nel maggio 2007, ha dimostrato come anche la percezione sia condizionata dalla cultura. Davanti a immagini che prevedono un’inversione figura–sfondo, gli asiatici colgono più rapidamente le variazioni sullo sfondo, mentre gli occidentali quelle in primo piano, dimostrando così maggiore sensibilità al contesto piuttosto che ai dettagli.
Quello che mi ha particolarmente colpito è scoprire come queste due diverse culture possano influenzare lo sviluppo del cervello, che come sappiamo si adatta e si modifica come dimostrato anche dagli studi di Angelo Gemignani, ricercatore del CNR.

Il quoziente d’intelligenza è quello che maggiormente stupisce. Se in Occidente la media è 100, tra gli asiatici la media è 106, con una punta di 113 ad Hong Kong. Una delle spiegazioni è data dal ruolo della lingua. In un esperimento di Neuroscienze si è dimostrato che nei cervelli Cinesi si illumina anche una ragione dell’emisfero destro che noi Occidentali utilizziamo per elaborare la musica. La ragione è semplice:  il cinese è una lingua più tonale  e lo stesso suono può avere significati completamente diversi a seconda delle tonalità con cui questo viene pronunciato. La lingua Cinese stimola, quindi, almeno in parte la superiorità dei cervelli Orientali. Anche la comunicazione ha il suo perché nel mostrare le differenze culturali. Noi occidentali parliamo tantissimo, diamo importanza al contenuto e preferiamo la prosa. In Oriente si parla meno, si è più attenti alla forma e si recitano, per esempio, mantra Tibetani che sposano il genere letterario vicino alla poesia. Il nostro linguaggio secondo Cristopher Bollas, psicoanalista contemporaneo è chiaro ed esplicito e segue i canoni della trasmissione di un messaggio tra emittente e ricevente: in Oriente si parla per analogie e metafore, cercando di unire il rapporto tra le persone piuttosto che fissare confini e dividere.
​
Joan Chiao, ricercatrice della Northwestern University (USA) nel 2009 dimostra che: “c’è una regione del cervello subito dietro la fronte, nella corteccia prefrontale mediale, che si illumina quando una persona descrive se stessa”. “Nei cinesi la stessa regione si illumina anche quando descrivono la loro madre, questo perché gli occidentali tendono a vedersi come autonomi, i cinesi come connessi ad un insieme più ampio”.

Ritornando alle definizioni etimologiche di Namasté l’aspetto più interessante di questa parola si rivela quando ci avviciniamo al suo significato filosofico. Ad sempio, Namasté può essere interpretata come “niente mi appartiene”.
E’ una parola che trasmette la necessità di mettere da parte l’egoismo, per collegarsi con il nostro “io” interiore e accettare l’altra persona.
A differenza il Ciao è diventata una cifra dell'italianità adatto ad un numero di circostanze più ampio.
Utilizziamo il ciao ad esempio per salutare piacevolmente un amico, oppure possiamo dirlo di fretta ed in tono non amichevole per concludere una conversazione e chiudere una situazione.

Così mi e vi chiedo non sarebbe meglio salutarsi con un Namasté? D’altronde salutare è fare spazio dentro di noi, entrare nella nostra stanza della relazione e fare spazio anche all’altro.
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'Per caricare la molla' di Riccardo Manfredini

19/11/2018

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In piedi davanti al pubblico, in silenzio, nell’immobilità, nella neutralità … Il momento più alto ed intenso che ha la capacità di generare o spegnere. Quelle pause che racchiudono ed esaltano il valore del contenuto o di ciò che verrà. Lo spazio e il tempo dentro cui tutto può accadere. Dove inizio e fine s’inseguono e si toccano nella loro circolarità. Il punto dove l’energia si raccoglie e sopra cui tutto si raddensa caricato per scattare come quei pupazzi a molla dentro la scatola.

La serenità di poter essere e poter stare davanti agli altri e di lasciar parlare il silenzio. Acquietare la vocina interiore che si chiede: “chissà cosa pensano?” “Cosa devo dire?” “Farò bene?” “Per quanto a lungo dovrò tenere?”. Solo sorridere e respirare. Sentirne il piacere e non avere tensione. Avere la consapevolezza che un minimo suono o gesto possa far gravitare l’attenzione di chi osserva. Raggiungere questo livello di presenza significa poter risaltare ogni variazione. Racchiude la totipotenza del possibile, il rumore più forte che un singolo possa esprimere tra la gente. Il dominio di sé per controllare la situazione. Un punto d’arrivo.

Controllo, controllo, controllo... è ciò che ingenuamente cercavo e di cui pensavo avere bisogno. Un atto di forza per gestirmi davanti agli altri. Solo che con la forza i risultati sono stati piuttosto sconfortanti: più confusione, più rigidità, più sudore, più tremori, più ansia...

Allora lo schema si mette in discussione e si cerca un’altra via:
sto imparando che per trovare il silenzio posso cantare, sto imparando che per respirare posso sperimentare l'apnea, che per avere consapevolezza devo rallentare, segmentare; sto imparando che per trovare il silenzio devo ascoltare, sto imparando che per trovare l'immobilità posso ballare, che per non avere paura posso osare, che per non temere il vuoto mi ci devo lanciare. Ho capito che per controllare devo perdere il controllo.

Ma a questo punto il controllo diventa così inutile ed effimero...

Le priorità si configurano in altro modo. La prospettiva si sposta. Andando verso l'opposto è possibile comprendere, trasformare e cambiare. Integrare gli opposti per crescere.
​
Anche se trovo diversi aspetti da smussare, questo è il mio percorso personale che continua ad evolvere… ma anche quello che cerco di suscitare in chi mi sta intorno.
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'Osare per credere' ... (dotazioni di bordo) di Sabrina Bertin

15/11/2018

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Nell'ultimo week end di incontro (Step-Consapevole) il prof. Gemignani ci ha condotto in viaggio attraverso i meccanismi del nostro cervello che è macchina affascinante, complessa e per molti versi ancora inesplorata. Fra i vari argomenti trattati, la sua plasticità  mi ha particolarmente attratta. La capacità cioè di essere plasmabile, di modificare le funzioni nervose in seguito all'esperienza che si ritiene possa essere alla base dei meccanismi dell'apprendimento e della memoria.
E' una caratteristica che trova riscontro nel quotidiano e che fa la differenza nelle scelte che facciamo, nel modo in cui impostiamo e decidiamo di vivere la nostra vita. La flessibilità, inoltre, la capacità cioè di vedere lo stesso problema da punti di vista completamente diversi, ci consente di esplorare nuovi campi/settori, di reinventare la nostra vita quando lo desideriamo, laddove lo riteniamo necessario, tenendoci al riparo dalla staticità, dalla cronicità e dallo stagnarsi degli eventi. Così noi possiamo virare quando la rotta impostata non è quella corretta, quando sopraggiungono impedimenti o quando il nostro viaggio non ci aggrada più.
Senza  entrare  in  tecnicismi  e  competenze  che  non  possiedo  (e prendendo ancora in prestito terminologie nautiche),  possiamo   dire  che  abbiamo  a  disposizione   una   “dotazione di bordo”  in  grado  di   abilitarci costantemente alla vita.
Io stessa ho avuto occasione di sperimentarlo, peraltro senza saperlo, in diverse occasioni. L'ultima in ordine in data è l'inizio di una nuova attività completamente al di fuori delle mie conoscenze e/o  abilità che mi ha dato (e continua a farlo) spunti formativi in nuovi ambiti, la possibilità  di  sviluppare nuove conoscenze e competenze, arricchendo così la mia persona e aprendo nuovi orizzonti non solo mentali.
La creatività inoltre, strettamente legata alla flessibilità, ci consente di spaziare in ogni dove, di esplorare campi inesplorati, di elevarci, di colorare la nostra vita rendendola frizzante, appagante, piena !
Conncludo, con un motto di incoraggiamento per quanti ancora titubano, in fondo per tutti noi:
OSIAMO !!! Senza timore e senza indugio !
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'Di strumenti e di utilizzi' di Valentina Faccini

15/11/2018

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Come il coltello può essere usato per cucinare o per uccidere, ogni invenzione umana può avere utilizzi e conseguenze positive o negative.
Non è da meno il make up che viene utilizzato ormai da secoli ed ha origini nelle civiltà più antiche. Da consumatrice abituale e appassionata posso dare il mio punto di vista in materia. Similmente alla moda che attraverso il modo di vestire è espressivo della persona nel mostrare ad esempio il nostro umore in base ai colori che istintivamente scegliamo di indossare, o l'immagine mentale che abbiamo di noi stessi in base a ciò che valorizziamo o nascondiamo, il trucco è uno strumento che permette di reinventare lineamenti e colori, evidenziando, coprendo e modificando.

Ci sono due aspetti positivi in questo: il primo è la possibilità di esplorare se stessi, reinventarsi un po' ogni giorno o darsi nuove identità (come nel cinema, alle feste o nel mondo drag) .
Il secondo è la possibilità di camuffare dettagli che ci fanno sentire insicuri ed esaltare ciò che di bello abbiamo. L'impatto nella vita di tutti i giorni non é trascurabile. Io stessa ho potuto constatare le conseguenze su percezioni personali e altrui, comportamenti e rapporti sociali. Non è infatti una novità che essere esteticamente attraenti aiuti ad avere successo sociale e più influenza sulle persone.

Esiste però un altro lato della medaglia. Esiste il rischio che l'abitudine a coprire i difetti ci porti ad accettarli sempre meno e a sentirci a disagio nel mostrarci al naturale. Questo soprattutto perché chi crea la pubblicità, per vendere meglio i prodotti di cosmetica, propone sempre più immagini irreali ed inarrivabili a cui la popolazione si confronta in modo ingenuo e passivo, introiettando frustrazione e senso di inadeguatezza.

Le modelle vengono ritoccate in post-produzione e spesso si dimentica che una fotografia pubblicitaria non è equivalente ad una scattata con il cellulare bensì è studiata nei minimi dettagli: sfondo, colori, caratterizzazione vincente del personaggio che illustra il prodotto, pose, parole.

Niente di tutto ciò è naturale e ci sorprenderemmo a vedere la differenza della stessa modella in un contesto reale. Questo però non fa del trucco in sé uno strumento sbagliato. Ad esempio ci sono donne sopravvissute ad aggressioni con l'acido che grazie al trucco possono sentirsi più a proprio agio correggendo i lineamenti scomposti. È importante saper usare il maquillage in modo costruttivo, come mezzo di cura di sé ed esplorativo della propria personalità in modo da ricavarne un momento di crescita.

Spesso si associa al trucco un alone negativo legato al concetto di falsità, esibizionismo e oggettivazione sessuale della donna. Sicuramente questi aspetti si possono riscontrare in casi estremi ma occorre saper fare distinzioni.

Il make up è un arte, richiede pratica, precisione ed è ben riuscito quando sembra non esserci affatto. Un trucco fatto male può appesantire un volto giovane o finire per essere effettivamente una maschera, può essere simbolo del desiderio di mostrarsi più adulte o più giovani o disponibili. Ma spesso è più corrispondente alla volontà di essere curate, piacevoli, originali, giocose.

Avere un rapporto sano con gli strumenti che abbiamo a disposizione è una nostra responsabilità che dipende dal nostro senso critico. Così come sta a noi non basarci esclusivamente sull'apparenza per valutare la realtà.

​L'abito non fa il monaco anche se a volte può essere utile per capire chi abbiamo di fronte.
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'Flessibilità e pensiero positivo' di Maurizia Pambianco

14/11/2018

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Ho trovato molto interessante l’ultimo intervento del professor Angelo Gemignani, medico psichiatra e ricercatore del CNR di Pisa, che definiva la creatività: ”figlia di una forte flessibilità cognitiva ed emotiva. In qualche modo anche prodotto di una forma meditativa” .

Perché quindi è importante la creatività? Cosa s’intende per flessibilità cognitiva ed emotiva?

Le neuroscienze evidenziano che la creatività ha la capacità di creare un maggior numero di connessioni tra aree celebrali e l’insight è il risultato di queste numerose connessioni. Che cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che la creatività accresce la consapevolezza dei propri sentimenti, delle proprie emozioni e dei movimenti del proprio comportamento.

Cosa s’intende per flessibilità cognitiva ed emotiva? E’ la capacità di vedere lo stesso problema da tanti punti di vista differenti e di provare quindi emozioni diverse. Eureka! Questo mi fa pensare ad uno degli aspetti del colloquio di coach e di counselor, stimolare la flessibilità. Infatti, questo stimolo permette di sciogliere la propria rigidità e di iniziare a coltivare la creatività. Immaginare più punti di vista correlate a differenti emozioni è come creare diverse narrazioni permettendoti poi di scegliere quale adottare, sapendo che sono tutte possibili.

Come dice Francesca Marchegiano, esperta nella narrazione, noi siamo “animali narranti” poiché abbiamo la capacità di raccontarci storie. A questo punto, come afferma Francesca “tanto vale raccontarci una storia che ci fa star bene” ,  poiché la realtà oggettiva può essere interpretata, narrata in molti modi tutti “veri”. Abbiamo imparato dalla fisica quantistica che tutto dipende dall’osservatore e in questo caso dal narratore che ci crede e diventa vero.

Scegliamo di pensare positivo, poiché è stato dimostrato dalle ricerche più recenti che esso contribuisce all’incremento della formazione di neuroni e quindi ad aumentare la nostra intelligenza.

Non ci resta che dire più flessibilità e più pensieri positivi!
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'Lo sport insegna' di Giulia Gava

13/11/2018

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Sappiamo tutti che fare sport non toglie tempo ed energie al nostro quotidiano.
La scienza, infatti, conferma che fare attività fisica ci permette di avere livelli minori di stress e maggiori energie in corpo.
Considerare lo sport unicamente come attività per mantenersi in forma e salute è però, dal mio punto di vista, riduttivo…. Fare sport è molto di più!

Lo sport insegna. E’ palestra e metafora di vita.
-O perlomeno, così è stato per me allenarmi e gareggiare in pista d’atletica...ma è un concetto che credo si possa estendere ad ogni  disciplina sportiva.-

Insegna in primis l’arte del sacrificio e la disciplina.
Praticando sport si impara a fare fatica per raggiungere un obiettivo, si impara ad essere resilienti, a stringere i denti, a continuare a lavorare sodo anche quando i risultati tardano ad arrivare e a ricominciare da zero per esempio dopo un infortunio.

Fare sport plasma e forma il carattere, ci rende più forti nel fisico e nella mente, ci insegna a rialzarci, a non darci per vinti e a credere in noi stessi e nei nostri mezzi anche quando la situazione è scoraggiante.
Fare sport  ci regala momenti di libertà e pace dei sensi dove corpo e volontà lavorano in simbiosi e ci fanno sentire vivi, ma allo stesso tempo ci insegna quanto è importante saper ritagliare tempo e spazio per recuperare le energie.

Lo sport è palestra di vita; non sempre si vince, non sempre tutto va a buon fine, ed è così che si impara a rialzarsi, a non perdere di vista l’obiettivo e a lavorare duramente per rendere i nostri progetti sempre più concreti.

Lo sport ci insegna ad essere pazienti, costanti e forti.
Come nello sport anche nella vita si cade, si perde, ma è importante ricordare che è anche solo avendoci provato dando il massimo di noi stessi che si cresce e si migliora.
Non importa quale sia lo sport in questione. Non ha importanza nemmeno essere un’eccellenza o meno in quella determinata disciplina; non importa quanto tempo ti sarà necessario per  correre 10km, non importa se cadrai nel tentativo di fare una verticale, non importa se sbaglierai un rigore…
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Conta solo quello che resta: Forza, Impegno e Costanza.
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'Healing Touch' di Lorenzo Manfredini

13/11/2018

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Per Healing Touch, si intende una forma di contatto fine, con se stessi e con un’altra persona.

Attraverso questa tecnica di massaggio, di stimolazione, di contatto, immersi nell'acqua termale, calda, accogliente, piacevole, si aumenta la percezione sia del corpo sentito dall'interno che avvertito sulla pelle.

Attraverso questo dialogo sensibile, con gli occhi che osservano, le mani che sfiorano, il corpo che è toccato, l’esperienza di comunione, di contatto, di cura, si ampliano fino a diventare sentimenti di partecipazione empatica, emozionale, fisica.

Il proprio corpo diventa oggetto e fruitore di una esperienza molteplice, energetica e profondamente psichica.

​In questa visione psicosomatica, il corpo danza tra l’osservazione, la percezione, l’azione.

Il tatto, il senso più importante del nostro corpo, che è coinvolto nei processi dell’addormentarsi, dello svegliarsi e nell’attivazione e contenimento delle nostre emozioni, diventa la coscienza dello spazio, della profondità, dello spessore e della forma del nostro essere.

E’ così, che il movimento, il contatto, la fusione con l’acqua e il corpo di un’altra creatura, diventano il simbolo di una coscienza amplificata che racchiude emozioni, immagini, molecole biochimiche, fino a comprendere l’importanza di gesti che a volte, compiuti istintivamente, specie nella professione del coaching e del counseling, ci possono arricchire e portare a gestire con delicata attenzione, ogni più intimo aspetto delle relazioni umane. 

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'La ricerca della felicità' di Giovanni Toso

6/11/2018

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Con Francesca Marchegiano abbiamo un po' giocato con le favole ed è stato molto interessante. Francesca ad un certo punto ha chiesto qual'era la frase o il mito che ha invaso la nostra infanzia/adolescenza e, tra le altre cose, qualcuno ha detto: << Il Principe Azzurro! >> Con un tono sarcastico che voleva dire enfaticamente che il Principe Azzurro non esiste. Non è vero!: il Principe Azzurro Esiste! Anzi: I Principi Azzurri esistono! Non mi avete ancora riconosciuto: evidentemente il mio travestimento ha funzionato a dovere. Sono vestito così perché sono in incognito. Perché anche i Principi Azzurri hanno i loro problemi e se seguite il mio racconto capirete quali sono. I Principi Azzurri esistono! E' la storia che è tutta sbagliata Charles Perrault che ha scritto “Cenerentola” e “La bella addormentata nel bosco” nel castello di Ussé ed io ci sono stato!( Volevo dargli un bel pugno sul naso, ma mi hanno detto che era già deceduto per conto suo, probabilmente par tutte le maledizioni arrivategli dai P.A.) Non l'ha mica raccontata giusta! Era fumato quello lì!
                   Intanto... provate a mettervi nei panni di un Principe Azzurro. Egli, per prima cosa, deve procurarsi un cavallo bianco. Ora, i cavalli bianchi si chiamano cavalli lipizzani e vengono allevati in un unico punto del pianeta che è una piccola valle che si chiama Lipizza e sta a pochi chilometri da Trieste. Per me quindi non sarebbe così difficile, dato che vivo non lontano da lì. Ma pensate ad un Principe Azzurro di Benevento o di Agrigento se non addirittura straniero! Adesso esiste Amazon ma fino a qualche anno fa per averne uno ci potevano volere anni!
                   Superato l'ostacolo cavallo, ora il bravo Principe Azzurro deve galoppare nel bosco: avete mai galoppato in un bosco? Sapete cosa significa? Vuol dire ricevere continuamente le sferzate delle fronde degli alberi in faccia e sulle braccia, significa riempirsi la faccia di graffi e poi i ragni e le loro ragnatele, le formiche, le cimici e tutti gli insetti che si nascondono nella penombra del bosco vi si attaccano sui vestiti e tra i capelli.
                   Un'alternativa dei nostri tempi potrebbe essere una fiammante spider ma, anche con quella, ad andare un po' su e giù in autostrada, ci si ritrova spruzzati dal particolato che esce dai tromboni di scarico dei camion: comunque un disastro.
                   Bene! Ora così conciato il bravo Principe Azzurro arriva nei pressi del castello della Principessa e deve affrontare le creature malvagie che la strega cattiva ha scatenato contro di lui per impedire il salvataggio dell'amata. Armato di indomita volontà o forse per disperazione, dopo una dura lotta, riesce a sconfiggere le forze del male.
                   A questo punto il nostro può concedersi un attimo di riposo e godersi l'ammirazione di chi (pochi o quasi nessuno) ha assistito alla lotta. E' un momento molto bello anche perché il cancello e le porte del castello si aprono automaticamente al suo arrivo e lui segue un percorso indicato dagli sguardi dei presenti (ammutoliti) che lo conducono alla stanza dove giace la Bella Addormentata.
                   A questo punto basta baciare la Principessa – direte voi- e invece no: prima il bravo Principe Azzurro deve cantare una canzone romantica. La sua voce suadente e la dolce melodia si insinueranno nella testa della Principessa che nel suo sonno profondissimo comincerà a sognare il suo innamorato. E quindi ora anche voi dovete avere la pazienza di ascoltarmi. Ne canterò solo un pezzetto.
                   <<I palpiti i palpiti sentir....   confondere i miei coi suoi sospir... cielo si può si può-ò morir... diii piùùù noon chiedo non chieeeedo >>
                   La principessa udendo quest'aria melodiosa già protende le labbra in attesa del bacio liberatorio e quindi il nostro Principe Azzurro deve chinarsi profondamente per baciarla (chissà perché queste Principesse sono sempre posate molto in basso uffa!) ed è un momento estremamente pericoloso per il Principe, in quella posizione vulnerabile: perché? Dite voi. Ma mettetevi nei panni di questa povera principessa che dopo un sonno profondissimo e lunghissimo apre gli occhi e si trova davanti il volto tumefatto e graffiato del Principe (e forse non si accorge che è un Principe) con le ragnatele nei capelli e tutti i moscerini formiche e quant'altro di schifoso appiccicato sui vestiti. Nel 83,6% dei casi costei apre gli occhi ed appena inquadrato il suo salvatore esclama: <<Aiuto! C'è un mostro che mi vuole violentare! Arrestatelo! Tagliategli la testa!>> e a questo punto il nostro Principe deve essere velocissimo a tagliare la corda per salvare la pelle. Qualche volta va un po' meglio (nel 16,3%) e la Principessa svegliandosi riconosce nel Principe il suo Amore e pensa: <<Oddio si sarà accorto che mi puzza l'alito, e poi mi scappa la pipì>> e si dilegua velocemente nei suoi appartamenti per rimettersi in ordine e non torna per almeno due ore. Mentre il Principe, che voleva dichiarare tutto il suo amore e raccontarle tutte le peripezie affrontate per raggiungerla, resta lì impalato come uno stoccafisso. Come? Cosa succede nello 0,1%? non si sveglia: c'è sempre un margine d'errore nel nostro mestiere!
                   Comunque, con un po' di pazienza, le cose vanno a posto (più o meno) e si convola a giuste nozze con grandi festeggiamenti. Ma qui sta il problema!.
                   Il nostro autorucolo finisce la storia con: e vissero per sempre felici e contenti PUNTO! E non c'è scritto altro, il racconto finisce così. Non spiega come si fa a vivere felici e contenti... per sempre poi...
                   Il nostro autorucolo non ha scritto nessun manuale di vita felice. Non ha scritto quante volte in un anno la principessa può farsi la ceretta, non ha scritto chi decide dove trascorrere le vacanze, e dove il P.A. deve andare a tagliarsi i capelli (e quanto lunghi deve portarli), e quante partite di calcio può vedere in un anno, e dove mandare a scuola i figli o quante volte si va a pranzo dai suoceri e mille amenità del genere.
                   Io sono stato sì contento della mia vita, ma felice... mica tanto ed è per questo che ora sono qui tra voi. Per imparare il segreto della felicità. E per affermare che: i Principi Azzurri esistono! Basta crederci fermamente!
                   Ed ora vi domando: c'è ancora qualcuna che non crede al P.A,?
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'STEP_Lab' di Riccardo Manfredini

5/11/2018

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Originariamente voleva essere un puro video promozionale dell’attività che sto lanciando. Poi però mentre guardavo le immagini mi sono sorpreso a sorridere. A sorridere di me, delle mie espressioni, dei giochi di voce, degli sguardi, dei miei movimenti tra il serio e il goffo, della passione. 

Sorrido pensando da dove ero partito, così ingessato, freddo, monotono. Sequestrato da aspettative, congetture, costrizioni. Per poi vedermi li in piedi, sereno, divertito, centrato. Con il senso di poter essere e poter osare. Un corpo liberato.

È bello poter stare al centro e ridere con gli altri.

Si, è un video che racconta di me ma che si porta dietro tutti i passi fatti, inciampi e soprattutto persone.

È un video per ringraziare. Ringraziare coloro che sono partiti con me, ai compagni che mi hanno supportato, agli insegnanti che mi hanno dato modo di sperimentare, alla mia famiglia che mi sta accanto e mi vede crescere, agli spettatori di questa piacevole serata, agli assenti e ai disinteressati (perché sappiate che prima o poi vi verrò a prendere).  

Con questa vicinanza e questa fiducia acquisita sono pronto per mettere in circolo energia ed esperienza, per creare nuove connessioni e offrire ad altri nuove opportunità. 
​

Partire da cose semplici come il silenzio, l’ascolto, il respiro, il gioco, il sorriso, il dono, per evolvere nei propri modi e nelle proprie forme per sorprendersi. 
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'Autunno, ponte tra i tempi e i ritmi' di Sabrina De Chirico

3/11/2018

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Dietro un’estate luminosa, colorata e frizzante, davanti un più tenue e calmo inverno.
Un ponte ad unire, l’Autunno, che ci conduce e, come un vecchio treno a vapore, aziona la leva del freno e inizia pian piano a rallentare.  
E così, dentro e fuori di noi, i colori si attenuano, l’energia si calma, il piede si alza dall’acceleratore, il tempo cala il ritmo.

Pare impossibile ma, seppur tutte le attività riprendano il loro corso e ci si ritrovi con mille impegni, dentro noi si creano spazi vuoti, liberi.  Spazi di riflessione, spazi di domande, spazi di osservazione. Fuori tutto corre, dentro l’attenzione inizia gradatamente a spostarsi un po’ verso il centro.

Ma… riusciamo a percepire questo cambiamento? Purtroppo la girandola della vita ci costringe a porre tutta la nostra attenzione sul come rimanerne attaccati, per non cadere. E così si gira, si gira, si fa un altro giro e poi un altro. Sempre aggrappati a questa ventola, qualche volta forse con il desiderio nascosto di abbandonarsi a quella forza centrifuga che ci spingerebbe via. Teniamo la presa, non molliamo. E continuiamo a girare.

Ma se riuscissimo per un attimo a spostare l’attenzione dalla presa esterna a quella dentro di noi, potremmo notare come l’autunno stia pian pianino riducendo la velocità del turbine. Per effetto naturale l’energia rallenta e si prepara a quel mare calmo e interiorizzante che sarà l’inverno.

E’ un momento particolare l’Autunno. Ha un fascino tutto suo, una grande opportunità poterlo vivere pienamente. E’ come godere dell’ultimo giro di una giostra negli ultimi istanti in cui rallenta. Quel frenare suscita un’emozione e una serie di sensazioni che solo in quell’unico momento si possono vivere.
​
Basta un po’ di attenzione e ascolto… Non solo per osservare le foglie cadere e i colori cambiare il paesaggio, ma anche per percepire il rumore sempre più silenzioso e il respiro lento del mondo che lentamente frena. E si guarda dentro. E noi con esso. 
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