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'Traiettorie evolutive' di Cosimo D'Ambrosio

22/10/2020

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Ho atteso quasi un mese prima di trovare l’ispirazione giusta per scrivere questo post.
Avevo bisogno di sedimentare le sensazioni provate nel corso del primo incontro e di aprirmi agli stimoli suscitati dalle letture e dagli approfondimenti suggeriti dai coaches.
Sento di aver iniziato un viaggio di cui mi è ancora ignota la destinazione, ma nutro un sentimento di profonda fiducia verso il “conducente” e provo stima e rispetto anche per i miei “compagni di viaggio”.
​
Sono convinto, dunque, che la direzione sia ormai tracciata, perché il percorso mi ispira e mi motiva. Trovo, inoltre, che le riflessioni teoriche e i contenuti emersi dalle esercitazioni pratiche siano in linea con i miei valori, e credo che sia per questo che mi sento così galvanizzato.

Ci sono momenti nella vita in cui, dopo lunghi periodi di black out, intuiamo che la mancanza di senso percepita in una ricerca senza apparente costrutto sia servita, in realtà, a preparare una nuova traiettoria evolutiva, ad offrirci una prospettiva diversa e più rispondente ai nostri bisogni di crescita personale.

Probabilmente, è per questa ragione che possiamo sperimentare un vissuto emotivo equiparabile ad una vera e propria “rinascita”, con un sensibile aumento del livello delle nostre energie.

Per quello che mi riguarda, oggi mi sento stimolato a raccogliere l’invito di Lorenzo Manfredini a fare “un passo avanti e due dentro”.

Sì, perché questo è esattamente ciò di cui sentivo la necessità, in un percorso di crescita professionale molto orientato sulla performance della prestazione, con poco spazio per la mentalizzazione e la consapevolezza di quei bisogni autentici che i clienti non riescono a verbalizzare al di là delle richieste di semplice “contenuto”.
Da questo punto di vista, credo che, almeno in questa prima fase, gli studi e gli insegnamenti di Daniele Trevisani sulla “memetica” possano offrirmi un efficace modello euristico per cominciare a fare qualche passo “dentro”.

Il percorso mi sembra ormai tracciato e gli strumenti di bordo mi aiuteranno ad evitare di “navigare a vista”.
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'Il corpo ai tempi del Covid' di Michela Dresseno

15/10/2020

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Pensando a questa pandemia.
Passato lo stordimento iniziale, la paura, la confusione, l'emergenza, ci siamo adattati a rimanere chiusi in casa per molte settimane ci siamo abituati ad indossare la mascherina, ci siamo abituati a sentire parole tipo “distanziamento sociale”, ci siamo abituati a non abbracciare i nostri genitori.
Probabilmente, fra qualche tempo questa epidemia passerà, ci immunizzeremo, sarà insomma un brutto periodo da ricordare.
Quello che però non potrà passare con tanta facilità, quello che si è inscritto indelebilmente è nella memoria del corpo.
Il corpo, depositario di tutti i nostri vissuti, esperienze ricordi, si esprime in un costante dialogo tonico, ogni postura che assumiamo parla di noi e di cosa sta succedendo intorno a noi.
Quello che mi colpisce, in questo momento storico, è la prontezza e la destrezza con cui il nostro corpo si è tarato, adattato, ha assimilato dei gesti, degli atti motori veri e propri in risposta ad un ambiente che prevede “il distanziamento sociale.
La natura di queste riflessioni è duplice, ovvero c'è un'osservazione immediata, spontanea, data anche dalla mia esperienza di quando per esempio sono al supermercato a fare la spesa, e nell'incrociare una persona tra gli scaffali, il corpo ha imparato, ancor prima che sia la mente a guidarlo, a mettere in scena un pittoresco ed efficacie “balletto” per evitare una vicinanza che sia troppo vicina!
Altro gesto, che ha una valenza sociale e comunicativa altissima, la famosa stretta di mano appena si conosce una persona: abolita!  Come ci viene in aiuto il corpo?
Con una strepitosa mimica del viso, con accenni di inchini, con enfasi nel dire “Piacere”.
L'altro aspetto delle mie riflessioni è relativo allo sguardo specifico che ho sul corpo e i suoi vissuti, nell'ambito della mia professione di Psicomotricista.
La prima domanda che mi sono posta, quando ho ripreso a giugno a rivedere i bambini, è stata: “Quale Psicomotricità senza il corpo, il contatto?” Premetto col dirvi che lo Psicomotricista usa moltissimo il proprio corpo in relazione con l'altro. E' un corpo che contiene, che amplifica, che prolunga il gesto del bambino, che rallenta in risposta di un ritmo troppo veloce, è un corpo che si aggiusta continuamente. Il corpo è un vero e proprio strumento di lavoro e la maggior parte del dialogo, ha una qualità di dialogo tonico, che è la forma più arcaica di comunicazione e che continuerà nelle relazioni per tutta la vita. Il tono è legato alla sfera emotiva, al vissuto e alla storia che ha avuto quella persona, quel corpo e lo si percepisce attraverso la vicinanza, il contatto, lo scambio.
Mi sto chiedendo, con molta preoccupazione, com'è essere un bambino piccolo in questo periodo:
penso ai bambini che frequentano l'asilo Nido, per esempio: contatti limitati con gli altri bimbi, niente contenimenti e “rifugi” corporei, mascherine che nascondono sorrisi e parole da “leggere” sulle labbra (importante modo per apprendere il linguaggio verbale tra l'altro).
Nutro, d'altro canto, una illimitata fiducia nei bimbi e nelle loro risorse e credo troveranno altre modalità di contatto, andranno “oltre” il corpo, e come sta capitando anche a noi adulti, il corpo troverà strategie per compensare la distanza.
Questa è la mia parte razionale, la tendenza attualizzante che mi fa sperare in un superamento senza grandi traumi per questi bimbi, ma se ascolto lo sfondo emotivo di questo mio scritto, sento amarezza e preoccupazione. Rivedo Benedetta, una bimba di 4 anni, che è ritornata dopo un lungo periodo che non ci vedevamo e che è scoppiata a piangere perché le era difficile essere lì senza la sua mamma, e quando istintivamente le ho porto la mano, tra le lacrime mi ha detto “ma non ci possiamo più toccare noi adesso!”
Memoria e vissuto che resteranno impresse per sempre ogni volta che penserò a questa pandemia.
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Un nuovo modo di vedere le emozioni e le performance. Emozioni Alfa ed emozioni Beta

26/9/2020

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Articolo a cura di Daniele Trevisani
www.studiotrevisani.it www.danieletrevisani.it
www.comunicazioneaziendale.it
​
​Test elaborato con modifiche dall’autore, tratto dal libro 
Self-power. Psicologia della motivazione e della performance, Franco Angeli editore. https://amzn.to/32ZDZJo
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Divertiti.
Ricorda, amico mio, di goderti il progetto così come il suo risultato,

perché la vita è troppo breve per riempirla di energia negativa.
Bruce Lee
 
La "soglia di efficacia personale" rende gli obiettivi facili o difficili
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L'intera questione delle emozioni alfa e emozioni beta ruota attorno a:
  • vivere intensamente il progetto, la via, il percorso - emozioni beta – come il valore di ogni falcata e di ogni atto di respirazione nella corsa, e
  • cosa proviamo per il risultato finale che vogliamo raggiungere o che ci assegnano - emozioni alfa, esempio, cosa proviamo verso l’idea di tagliare il traguardo o porci un tempo-obiettivo per correre una maratona
I mix emotivi che si generano nelle situazioni reali. Es, volere il risultato ma volerlo subito e detestare il percorso di costruzione che ti ci porta, oppure amare il viaggio sino a considerare irrilevante la meta, e tante altre condizioni intermedie.
Queste "faccende" sono talmente importanti per le performance, e piene di sfumature, che vanno affrontate obbligatoriamente, se vogliamo mai avere speranza di compiere performance davvero eccezionali ma anche avere un vissuto appagante nella vita di chi le compie.
Si, a volte diciamo che il viaggio è persino più appagante della meta. Ma per chi si occupa di performance, queste semplificazioni sono solo l'inizio. Vanno approfondite.
La tematica del raggiungimento di obiettivi è ampiamente trattata in campo strategico e aziendale.  Obiettivi. Obiettivi. Obiettivi. Tutto ruota attorno agli obiettivi, sino a perdere di vista chi è che li deve raggiungere - esseri umani e non macchine - e quali energie mentali servano, in che stato sono queste "macchine".
Immaginate di dare un obiettivo semplicissimo ad una persona depressa. Una persona realmente depressa troverà difficile persino alzarsi dal letto.
L'obiettivo diventa semplice o facile in funzione di dove si posiziona la soglia di efficacia personale.
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Figura 1 - Posizione di diversi obiettivi rispetto alla soglia di efficacia personale
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Ognuno di noi può esercitarsi nell'individuare:
  • Obiettivi di tipo A1: quello che sento di poter fare con assoluta tranquillità, qualcosa di "tranquillo", niente di sfidante per me.
  • Obiettivi di tipo A2: quello che sento di poter fare ma mi richiede un impegno e attenzione particolari. Rientra comunque tra "ciò che sento di poter fare".
  • Obiettivi di tipo B1: obiettivi "quasi alla portata", ciò che riuscirei a fare bene ma solo in parte, e sento che per poterlo fare bene devo ancora apprendere qualcosa, o mi serve ancora qualche ingrediente.
  • Obiettivi di tipo B2: obiettivi con larga probabilità di fallimento, temi su cui qualcosa conosco, qualcosa so fare, ma per raggiungerli sento che devo ancora apprendere molto, li sento ancora molto lontano e difficili.
  • Obiettivi di tipo C: non è fattibile ora, ma non è molto lontano da quello che sento di poter fare, se iniziassi ad esercitarmi. Per ora è fuori dalla mia portata ma non è detto lo sia per sempre.
  • Obiettivi di tipo D: troppo lontano, troppo difficile, impossibile per me, adesso e per sempre.
 L'asticella con cui misuriamo questi obiettivi diventa il Potere Personale.
Figuriamoci cosa accade quando diamo un obiettivo ad una persona demotivata. O, se lo riceviamo noi stessi e non ci crediamo. Cosa facciamo?
Possiamo cercare di aumentare il nostro Potere Personale, alzare l'asticella con cui misuriamo gli eventi, o abbandonarne persino l'idea. Cosa fare, in questo caso, diventa un modo di vivere la vita.
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Obiettivi ed emozioni
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Le emozioni determinano “a cosa” dedichiamo il nostro tempo migliore, le energie più belle, cosa facciamo più volentieri, e a quali azioni dedichiamo meno tempo possibile, sino al punto di negarle o posticiparle sino alla morte.
Il mondo del time management, la gestione del tempo, e più in generale delle risorse limitate - fa troppo conto su fogli di Excel e poco conto sul mondo delle emozioni che proviamo nel fare qualcosa, o nel dirigerci verso uno scopo.
Sembrano due terreni diversi, ma in realtà lo sfondo emotivo è il vero substrato dei risultati.
Noi dedichiamo il nostro tempo migliore e le nostre risorse migliori a ciò che ci nutre, a ciò che ci gratifica, e fuggiamo tutto il resto.
Una cultura della consapevolezza deve portare le persone ad essere più consce di quali obiettivi o stati vuole raggiungere, e di come utilizza il suo tempo. Una scarsa consapevolezza vede invece le persone in uno stato di divario, di scostamento, tra ciò che desideri e come utilizzi realmente il tuo tempo.
Percepisci una dissonanza, un allarme, ogni volta che senti di dedicare tempo a qualcosa che non senti essere la tua vera vita. O cerchi un perchè in quello che fai, e questo perchè non lo trovi o fai sempre più fatica a trovarlo.
La ricerca del perchè, la ricerca di un bisogno di "senso" è sacra. Si tratta solo di ascoltarla.  
In molte aziende ci si dedica alla pianificazione solo quando si è obbligati, mentre guidare un “muletto” o una ruspa gratificherebbe di più. Riempiamo le giornate - e a volte interi brani di vita -  a correre come formiche anziché concentrarci su cosa è importante. Sul cosa fare e sul perché.
Cerchiamo invece di impegnarci in una vocazione o interesse, e impariamo a sentire il fluire delle energie, la dove prima vedevamo solo azioni vuote. Tutto cambierà.

Emozioni Alfa ed emozioni Beta
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Un approccio che centri il fronte emotivo di come una persona vive gli obiettivi, deve procedere verso due specifiche aree di analisi
le emozioni viscerali che sento verso un certo effetto o end-state: sento davvero mio un certo obiettivo? Lo sento come qualcosa che mi tocca davvero? Provo passione per un certo obiettivo o lo vivo come uno dei tanti momenti che mi tocca fare, o un momento obbligato? Lo sento importante per i miei valori?  Quanto? Voglio davvero vedere quel risultato finale raggiunto? Mi attiva emotivamente l’immagine di un certo risultato? La situazione che voglio si produca è davvero importante per me? O è un risultato più o meno burocratico, che non mi cambia la vita, che non mi attiva veramente? Denominiamo qui le emozioni verso l’obiettivo emozioni alfa.
Le emozioni che provo per le azioni necessarie (operations), le attività quotidiane, o i singoli step di un percorso. Mi annoiano le operazioni intermedie e vorrei solo vedere il risultato finale raggiunto? Provo invece piacere dell’azione, gusto del fare e dell’agire? Le operations mi annoiano o mi energizzano, le vorrei saltare o “guai a chi me le toglie”? Denominiamo qui le emozioni che accompagnano l’azione emozioni beta.
 
Il senso che le emozioni Alfa, quelle verso il lo scopo finale, è ben espresso nella seguente metafora: 
 
‎"Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi;
non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro...
Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare
 lontano e sconfinato.
Appena si sarà risvegliata in loro questa sete
si metteranno subito al lavoro per costruire la nave".
(Antoine-Marie-Roger de Saint Exupéry)
 
Il leader o motivatore che  riesce a far visualizzare e apprezzare il risultato finale atteso, potrà generare motivazione autonoma.
Questa è una delle due strade.
Immaginiamo un vetraio di Murano, a Venezia, intendo nel produrre bicchieri artistici. Quanto è importante per lui arrivare a fine giornata ad avere prodotto X bicchieri (emozioni alfa)? Quanto sono importanti il gesto del produrre il bicchiere, del soffiare dentro alla cannuccia, del vedere il bicchiere prendere forma? Sono attività di per se gratificanti (emozioni beta)? 
O ancora, esaminiamo il lavoro di un pittore. È mosso dal piacere di usare la tela e i colori, dall’idea di trovare un luogo o soggetto che lo ispira, o ogni singola attività gli è di peso e vorrebbe vedere il quadro finito prima possibile?
Ogni artista vive in modo diverso sia l’effetto da produrre (il quadro) che il modo di produrlo (le operations).
Le sfumature in questo campo sono molteplici.
Anche un pilota di aereo intento in una missione di salvataggio vive due momenti emotivi: sia voler vedere raggiunto un certo risultato strategico finale a cui contribuisce con la sua missione (salvare la persona), oppure essere ammaliato dal piacere del volare, energizzato dalle operazioni di volo, dall’adrenalina dell’azione, al di la degli effetti che l’azione avrà (essere parte di un processo).
Possiamo avere persino casi in cui non interessi assolutamente il perché della missione (emozioni alfa azzerate) ma interessi unicamente il fatto di farla bene, il piacere che si prova durante,  la totale gratificazione che accompagna il gesto (emozioni beta massimizzate).
 
Io non mi sono mai sentita tanto viva come dopo una battaglia dalla quale sono uscita viva e indenne. [...]
È dopo aver vinto quella sfida che ti senti così vivo.
Vivo quanto non ti senti nemmeno nei momenti più ubriacanti di gioia o nei momenti più travolgenti d'amore.
Oriana Fallaci, da Accetto la morte ma la odio, 2006
 
Chi ha praticato boxe o arti di combattimento lo sa bene. Usciti dal ring e dopo una doccia sembra di avere un'altra occasione per vivere. Sembra che il mondo, prima ostile, sia diventato un posto migliore. Questa è una delle gratificazioni maggiori di chi fa sport estremi.
Ma entriamo nel mondo del lavoro, analizziamo le performance di un venditore: le emozioni alfa si attivano nel volere fortemente il risultato finale (vedere la vendita conclusa), le emozioni beta si attivano quando il venditore è emotivamente e positivamente coinvolto nella trattativa di vendita, nella strategia di preparazione, vede le trattative  in sé come attività comunicativa e persuasiva interessante, come relazione di aiuto, o come sforzo di condivisione, o come esercizio di tattica e strategia, come sfida con se stesso, o come palestra del proprio stato o condizione mentale (attivazione delle emozioni beta).
Lo stesso per uno scrittore: siamo attivati unicamente dall’idea di vedere il libro finito, o si prova piacere nello scrivere? Se nessuna delle due aree attiva la persona, non avremo mai uno scrittore compiuto. E  non avremo mai un buon libro.
Trattare di performance, di effetti da produrre, e di operazioni tattiche, tocca inevitabilmente il fronte delle emozioni soggettive.
Posso avere emozioni alfa plurime – più di una motivazione – verso la meta, ed emozioni beta plurime – più di una sensazione positiva collegata all’azione.
Per esempio, un formatore può avere emozioni alfa plurime se è interessato al compenso economico del suo lavoro, ma anche al vedere un corso terminato, e ad avere trasmesso bene i concetti che voleva lasciare. Allo stesso tempo può avere emozioni beta plurime: il piacere di avviare un contatto umano ad inizio attività, il piacere di vedere le persone all’opera durante, il gusto di un lavoro che scorre fluido e con un clima positivo.
Così come si arrabbierà quando qualcuno si comporta con maleducazione verso il formatore, verso altri studenti e verso la sacralità del momento formativo. E glielo dirà. Senza paura.
 
Agirò senza paura ogni volta in cui vorrò dire qualcosa in cui credo...
Daniele Trevisani ©

 
Quanto più le emozioni sia alfa che beta sono forti e numerose, tanto maggiore sarà l’attivazione verso lo scopo e la performance.
Chi non crede più a niente difficilmente riuscirà in qualcosa.
Quanto più invece sono assenti, deboli o invece negative le emozioni verso lo scopo o verso le attività da compiere, quanto più l’attività sarà considerata un peso o peggio una frustrazione, o verranno accettate passivamente riduzioni rispetto ai propri ideali, amputazioni e umiliazioni.
 
Ma vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa
e parlare diventa un obbligo.
Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico
al quale non ci si può sottrarre.
Oriana Fallaci
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'Quando è tempo di spiccare il volo' di Sara Giardino

1/7/2020

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“Troviamo comfort tra coloro che sono d’accordo con noi – crescita tra coloro che non lo sono” (Frank Clark)

Ci sono situazioni in cui con il passare del tempo ci adagiamo, sguazzando nella comodità del noto, anche quando non lo condividiamo totalmente, quando non ci rappresentano completamente, quando ci stanno un po’ strette… però le conosciamo, ci sono familiari, non ci spaventano, sappiamo che possiamo gestirle senza un particolare investimento di energia.
E così può capitare di ritrovarsi a condividere la vita con qualcuno per paura di restare soli, a fare un lavoro che non ci piace o non ci gratifica per non doversi rimettere in gioco.

In questo modo però rischiamo di accontentarci di una vita al di sotto delle nostre potenzialità, e per rassicurarci mettiamo a tacere quella vocina che ostinatamente tenta di farci aprire gli occhi, o forse le ali, quella vocina che continua a sussurrarci che dovremmo osare, sognare, valutare e poi spiccare il volo.

Quali sono le vere ragioni che ci tengono bloccati in queste situazioni eternamente insoddisfatti del presente, sempre un po’ demotivati ed annoiati e mai realmente carichi e pronti ad intraprendere una nuova via?

Perché continuiamo a crearci alibi, per giustificare agli altri situazioni che a ben vedere non accettiamo neanche noi stessi? Perché continuiamo a coltivare questa zona di confort che realmente non ci dà né soddisfazioni né gratificazioni…
​
Magari uscendovi potremmo iniziare uno splendido viaggio alla ricerca di noi stessi e di ciò che realmente vogliamo a prescindere da cosa gli altri si possano aspettare da noi.
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'Coaching e non solo: winetelling, idee nate per crescere' di Riccardo Fabbio

29/6/2020

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Un blog che racconta di esperienze nel mondo enologico
Durante il periodo Covid ho deciso di concretizzare quello che da tempo era un progetto nel cassetto, ovvero il poter racchiudere le mie esperienze legate al mondo del vino in un blog.
Una spinta mi è stata data anche nell'ultimo incontro del Master che abbiamo fatto, dove ho esposto l'intervento sulla differenza tra metodo classico e metodo charmat e l'interesse suscitato nei colleghi di master!
Oltre all'esperienza diretta dell'esercizio di public speaking in questi mesi sono stati fatti diversi incontri virtuali con Veronica dove io ho fatto da coach a lei e lei a me. In queste occasioni ho focalizzato sempre di più questa grande passione e di volta in volta abbiamo posto un mattoncino per concretizzare qualcosa inerente al mondo del vino e alla mia esperienza in questo.
Armandomi di pazienza ho iniziato a cercare una via percorribile nel costruire un sito web e trovando un template wordpress che mi piaceva ho iniziato a barcamenarmi in questa nuova esperienza, studiando come lavorarlo e contemporaneamente scrivendo contenuti.

Le tematiche trattate sono tutte inerenti al mondo enologico ed il sito si divide in 5 sezioni principali:
AZIENDE, dove sono descritte le aziende con cui collaboro nella promozione/distribuzione;
COLLABORAZIONI, con alcune aziende che si occupano della produzione di oggettistica correlata (bicchieri, cavatappi..);
EVENTI, che organizzo in locali, bar, ristoranti ed altre location;
le visite IN CANTINA;
ESPERIENZE di viaggio collegate al mondo enologico.
http://www.winetelling.it 
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'Convinzioni per vivere o vivere per le convinzioni?' di Lorenzo Savioli

29/6/2020

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“L’uomo ha assolutamente bisogno di idee e convinzioni generali che diano significato alla sua vita e che gli permettano di individuare il suo posto nell’universo”
Carl G. Jung
 
Il bisogno di “certezze” è un aspetto intrinseco della realtà umana; permette di gettare solide basi per interagire nel nostro mondo fisico e psicologico, supporta nello sviluppo di relazioni sane e costruttive.
 
Le convinzioni che abbiamo su come “vanno” le cose nel mondo rientrano nel più generale concetto di “sicurezza”, bisogno basilare da cui nasce lo sviluppo del nostro “Io”. Sapere “come andrà” un qualcosa ci fornisce il senso del controllo, ci fa sentire padroni della situazione e ci fa interagire al meglio con gli altri.
 
Sulla base delle nostre esperienze costruiamo e radichiamo in noi determinate convinzioni che col tempo ci guidano nella vita, nelle scelte e spesso determinano anche il nostro futuro.
Tanto più profonde tanto più diventano un aspetto essenziale del nostro essere.
 
La capacità di saper riconoscere le nostre convinzioni e periodicamente valutarne l’efficacia è la caratteristica di quelle persone “vincenti”, quelle a cui sembra andare tutto bene, che sanno muoversi in molteplici ambiti e trovare soluzioni produttive alle problematiche.
 
Il malessere nonché senso di inadeguatezza nasce quando invece rimaniamo vittima delle nostre stesse convinzioni e iniziamo a vivere per essere e non sulla base di esse.
 
La nostra stessa creazione diventa scolpita nella pietra e quasi viene percepita come una imposizione esterna, una legge universale a cui dover rendere conto o sulla base della quale essere in costante giudizio di noi stessi.
 
A volte, incapaci di agire, restiamo intrappolati in una sorta di fatalismo e\o vittimismo che rende la nostra vita in bianco e nero.
La dinamicità lascia spazio all’immobilità; l’energia fisica e psicologica viene trasformata in una sorta di buco nero che tutto risucchia e nulla lascia scappare lasciandoci impotenti.
 
Come uscirne?
La capacità di saper riconoscere le nostre convinzioni è la chiave per gestire al meglio e in modo autonomo questi aspetti strutturali del nostro essere.
 
Il supporto di un coach e/o uno psicologo è sicuramente utile al fine di affiancarci in questo percorso e permetterci di sondare il nostro subconscio in modo attivo e consapevole.
 
Infine concedersi l’opportunità di avvicinarsi, scavalcare, rompere il muro che a volte costruiamo per proteggerci da noi stessi e dagli altri diventa il primo passo e forse quello più importante per costruire consapevolmente quello che vogliamo essere, cogliendo e valorizzando la nostra unicità.
 
 
Copyright Lorenzo Savioli anteprima editoriale riservata
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'E se fosse il punto di vista a fare la differenza?' di Sara Giardino

24/6/2020

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Spesso dinnanzi ad un evento inaspettato e con risvolti negativi tutti ci poniamo la domanda “Ma perché è successo proprio a me? Perché sono così sfortunato!”.

Queste espressioni possono essere frutto del nostro disappunto, della nostra rabbia, della nostra rassegnazione o semplicemente dell’incapacità di affrontare il nuovo evento.

In questi frangenti la domanda che più comunemente ci poniamo è “cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?”

Talvolta però nel ricercare una risposta poniamo l’attenzione unicamente all’esterno di noi stessi, riversando così “la colpa” dell’accaduto sugli altri, anche quando forse una vera colpa non c’è. Così facendo ci costruiamo attorno il ruolo della vittima alla quale non resta alcuna alternativa all’autocompassione.

Questa scelta però ci mette nella posizione di vederci come gli unici esseri che soffrono, le uniche persone alle quali la vita ha riservato delle difficoltà, smettiamo di apprezzare gli aspetti e gli accadimenti positivi della nostra esistenza, che ovviamente continuano ad esserci.

E se provassimo a spostare il nostro sguardo?
Se quando ci poniamo la fatidica domanda “cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?” scegliessimo di guardarci dentro, con serenità e con affetto?
Potremmo trovare delle spiegazioni o alcune delle cause dell’accaduto nei nostri comportamenti, nelle nostre abitudini, nei nostri modi di fare.
Potremmo scoprire che a volte siamo noi a determinare, anche parzialmente più o meno volontariamente, alcuni eventi.
Potremmo anche scoprire che non sempre c’è un vero legame tra le nostre azioni e l’accaduto e che questo legame  potrebbe anche non esserci con la volontà altrui.

E così facendo potremmo scoprire che talvolta ciò che accade non è frutto di una colpa, ma non è neanche una punizione, è solo una cosa accaduta.
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'Le paure dalle radici antiche' di Maurizia Pambianco

22/6/2020

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Voglio raccontare questa storiella che riprende anche Jorge Bucay nel un suo libro “Lascia che ti racconti”, perché mi ha fatto riflettere moltissimo, non la conoscevo.

La storia s’intitola “L’elefante incatenato” e narra di un elefante che si esibiva in un circo.

“Durante il suo spettacolo l’elefante faceva sfoggio del suo enorme peso, la sua impressionante massa corporea e la sua forza. Dopo il suo numero e fino ad un momento prima di entrare in scena era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una zampa. Niente fa pensare alla sua forza. Il paletto non è altro che un pezzo di legno piantato nel terreno per poco più di due centimetri. L’elefante, che possiede la forza di sradicare un albero con tutte le radici, potrebbe facilmente liberarsi da questo paletto e scappare. Perché non lo fa? Che cosa lo trattiene? Forse il fatto di essere ammaestrato? E allora se è ammaestrato, perché mai deve essere tenuto incatenato? La risposta è: l’elefante del circo non si libera perché già da piccolo è stato abituato a essere legato a quel paletto e non conosce nessun’altra condizione. Ogni piccolo elefante infatti viene tenuto legato sin dalla nascita. All’inizio cerca di tirare la catena per liberarsi, ma nonostante tutti i suoi sforzi non ci riesce perché il paletto è ben ancorato a terra. Quotidianamente il piccolo elefante ci riprova fino a che un giorno, per lui decisivo per il futuro della sua vita, la sua anima si rassegna alla sua impotenza e accetta il suo destino. L’enorme e potente elefante non scappa perché crede di non poterlo fare. Tale è il ricordo della sua impotenza sperimentata da piccolo. La cosa peggiore è che questo ricordo non viene più messo in discussione. L’elefante non ha più avuto il coraggio di mettere alla prova la sua forza.”

Questa storia richiama tutte quelle paure che generano delle convinzioni che limitano il nostro agire e pensare. Mi sono venute in mente tutte quelle volte che ho rinunciato a farmi valere e a ribellarmi per un quieto vivere, forse non era quieto vivere ma era una paura con il sapore dell’infanzia, dei rimproveri o dei castighi da parte di qualcuno tanto grande e io tanto piccola.
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Oppure il trattenersi a mostrare la mia fragilità perché immediatamente mi risuonano le risate e le burle degli altri bambini o peggio dei miei genitori e viene in mente quella sensazione di calore e rossore al visino e le gambe pronte per scappare a nascondermi, sentendomi sbagliata.

A volte ci dimentichiamo di essere ormai adulti, capaci di affrontare le situazioni con più risorse di quella bambina o bambino, eppure ci rimangono quelle convinzioni nella testa “sei sbagliata/o” oppure “fai la brava o bravo, altrimenti …”, quanti paletti abbiamo raccolto dentro di noi che ci impediscono di essere liberi? L’adulto può iniziare ad individuare i propri paletti, sfilarli e liberarsi da quelle catene per recuperare il proprio potere personale, iniziando ad analizzare le proprie convinzioni e a contestualizzare le situazioni. Può essere una ricerca che dura tutta la vita e ritengo che ne valga la pena.

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'L’insondabile segreto della bellezza' di Maurizia Pambianco

4/6/2020

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Come suggerisce il titolo, il mio pensiero nel definire la bellezza è ancora nel percorso dell’esplorazione. Credo sia uno di quei concetti astratti che più cerchi di definirli e più ti sfuggono ed alla fine concludi con “è sicuramente molto di più”.

In molti hanno cercato di definirla.
Quando si pensa alla bellezza viene subito in mente l’Arte, ogni forma di arte ha il compito di esprimere la bellezza, di manifestarla. L’arte in realtà è uno strumento che utilizziamo per esprimere ciò che vediamo e sentiamo, è un’espressione del nostro mondo interiore che racconta ciò che vede e sente e lo porta da dentro a fuori. Nasce così la bellezza artistica, letteraria, musicale, matematica, filosofica, linguistica e altre ancora.

Mi nascono tante domande. In certe situazioni, a seconda di come mi pongo, trovo nella natura, nella vita, nelle persone e nelle relazioni una straordinaria bellezza e possono essere attimi o giornate e poi scompare, non lo rivedo più nel momento in cui cambio prospettiva o atteggiamento. Cosa succede?

Quante volte una persona l’ho considerata “non bella” e poi conoscendola ho iniziato ad intravedere la sua bellezza, cosa è successo dentro di me? Ha toccato le corde della mia anima? L’ho trovato armoniosa? E allora cosa significa armonia?
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A volte la bellezza la intravedi subito e a volte si svela a poco a poco, cosa significa? Che la comprendo? Che entro nella stessa risonanza?
I quadri di Pollock per me esprimono bellezza eppure come faccio a spiegare la bellezza dei suoi quadri? Tutte quelle linee apparentemente sconclusionate hanno significati inconsci e personali che fanno provare emozioni e appagamento.

La neuroestetica, fondata da Semir Zeki nel 1994, cerca di integrare la bellezza estetica con la bellezza biologica, e osserva che nel percepire la bellezza si ha un’attività neuronale dell’area field A1 del cervello deputata all’elaborazione delle emozioni ed è situata nella corteccia orbito frontale mediale. Più intensa è l’esperienza e più intensa è l’attività registrata in questa area. Questo non spiega cos’è la bellezza ma ci dice cosa suscita, emozioni.

Come osserva Ken Mogi, nel suo libro” Il piccolo libro dell’ikigai”, il popolo giapponese ha un concetto di bellezza molto legato all’ esperienza sensoriale. Nell’esecuzione di attività di produzione hi-tech o di artigianato pongono molta attenzione alla moltitudine di esperienze sensoriali necessarie per la messa a punto di un manufatto, a volte con operazioni estremamente minuziose. Nella visione giapponese ogni singola qualità sensoriale equivale a una divinità.
​
Esiste una bellezza soggettiva ed una bellezza universale, sicuramente essa va a contattare dei codici, dei simboli e dei tratti dentro di noi, soggettivi o universali che stimolano sensazioni ed emozioni positive che ci portano ad attribuire la bellezza al soggetto.
A me la bellezza ultimamente risveglia un senso di gratitudine e mi fa stare bene e viceversa, quando mi pongo in un atteggiamento di gratitudine vedo e sento bellezza intorno a me e dentro di me.
La bellezza non può essere spiegata, va vissuta.
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'Intelligenza artificiale e coaching' di Paolo Marinovich

3/6/2020

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Credo che sia utile approfondire il tema dell’intelligenza artificiale e delle sue implicazioni anche nel mondo del coaching e di altre discipline di supporto. Naturalmente, se si crede nell’aggiornamento socio-culturale come elemento qualificante della professione.
 
Nel dicembre 2019, il filosofo, giornalista e imprenditore britannico Calum Chace, autore di tre libri sulla materia, ha scritto che da qui al 2030 l'intelligenza artificiale simbolica – quella  che egli definisce la “buona vecchia intelligenza artificiale” – evolverà verso l'apprendimento automatico e le macchine inizieranno a mostrare segni di buon senso. Tuttavia, saremo ancora – dice – molto lontani dall'intelligenza generale artificiale, o AGI; ossia dal disporre di una macchina con tutte le capacità cognitive di un essere umano adulto.

​Potremmo pensare che l’AGI starà all’AI, la “buona vecchia intelligenza artificiale”, come il calcolo infinitesimale sta all’aritmetica elementare. Dovremmo allora preoccuparci di questo scenario? Se l’AGI fosse una macchina dotata delle stesse capacità cognitive di un essere umano, cioè assimilabile ai nostri simili, alle creature (apparentemente) più evolute con cui abbiamo a che fare già oggi, perché dovremmo preoccuparcene?
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Ciò che farà la differenza non sarà soltanto la velocità di elaborazione di miliardi di dati, ma l’assenza di emozioni e la presenza, invece, di un sistema di riferimento, per quanto complesso, pre-giudiziale. Immagino che le risposte di una macchina dotata di AGI rifletteranno valori e intenzioni di chi – persona o organizzazione – l’avrà costruita, ma non generata; programmata, ma non educata; collaudata, ma nella rigidità di algoritmi astratti e non nella libertà di scelte responsabili.

Eppure, si chiede Chace, sapremo – e come – quando sarà veramente “nata” la prima macchina dotata di AGI? Il motivo della domanda è che “qualunque cosa così intelligente da essere etichettata come super-intelligente, lo sarebbe sicuramente al punto da non rivelare la sua esistenza fino a quando non abbia preso le precauzioni necessarie per garantire la propria sopravvivenza”.

In altre parole, qualsiasi macchina super-intelligente, in grado di superare un test di Turing, sarebbe così intelligente da decidere di non superarlo! Vale a dire, banalizzando parecchio l’esempio, che una macchina AGI fingerebbe di fallire un riconoscimento CAPTCHA (quanti ne incontriamo e dobbiamo superare per accedere a certi siti web?) o altro test comparativo, anche quando avesse la certezza di saperlo superare; e questo suggerisce che l’AGI potrebbe essere in azione “dissimulata” già oggi.

Ovviamente io non so se sia così, ma l’argomentazione non mi pare fantascientifica e qualche possibile effetto lo vedo. In verità, alcune inquietudini e malesseri di clienti – senso di subordinazione ai sistemi, impossibilità di modificare scelte operate da macchine, percezione di scarso valore del proprio operato – se non frequenti, iniziano a essere di attualità. Qual è il modo più efficace di affrontarle nel coaching o nel counseling?
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'Non ti frequento più!' di Lorenzo Manfredini

31/5/2020

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Gli altri sono una risorsa per ciascuno di noi. Le loro chiacchiere, il loro affetto, il loro sorriso, il loro corpo, il loro abbraccio. E ci danniamo un sacco per creare buoni rapporti di famiglia, vicinato, amicizia, lavoro. Ma capitano anche periodi in cui non si ha voglia di parlare con nessuno, di vedere nessuno, di uscire con nessuno.

Talvolta è il nostro carattere timido a prendere il sopravvento, a volte siamo delusi da rapporti superficiali, talaltra siamo stanchi, con le batterie a zero, depressi. In ogni caso i motivi sono buoni per non comunicare. ‘Non ho voglia di aprirmi’, dice il timido, ‘non ho voglia di essere criticato’, dice il deluso. ‘Non ho voglia di lamentele e giudizi’, dicono la maggioranza.

Sappiamo che il pettegolezzo (a piccole dosi, ‘altruista’ per così dire) è un ottimo strumento anti-stress. Tutti lo pratichiamo con lo scopo di mitigare le azioni sbagliate degli altri e talvolta per sogghignare e farci quattro risate. A dosi massicce, però, diventa l’esercizio di un’invidia malevola sulla reputazione del malcapitato, a cui non mancherà l’occasione di ricevere la critica dei colleghi, il giudizio dell’amico, le maldicenze della gente.

Tutto questo a volte è troppo e così perdiamo la pazienza per il cinismo altrui, le critiche eccessive e le richieste di qualsiasi natura. Perdiamo la voglia di compiacere chi non ci aggrada, di amare chi non sa amare, di sorridere a chi non ci sorride.

Non ci accontentiamo più del provincialismo e dei pettegolezzi. Non sopportiamo più le persone rigide e inflessibili. Vogliamo lealtà, sicurezza, incoraggiamento.

Insomma, ci sono buone ragioni per dire ‘interessante quello che dici, ma dimmi qualcosa che mi interessi davvero!’

Dovunque andiamo nella vita lasciamo cose e parole: battute di spirito, chiacchiere, conforto. Ovunque lasciamo il nostro segno. Tutti questi segni sono ciò che noi siamo. Proviamo a lasciare buone impronte che valgano la pena di essere ricordate. E permettiamo a noi stessi di esprimere chi siamo con qualità emotiva.
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Oggi e anche domani, al bar, dal parrucchiere, al lavoro, in casa, cominciamo col pronunciare correttamente il nostro nome. E’ un buon inizio.

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'Gestione del cambiamento o cambiare gestione?' di Lorenzo Savioli

31/5/2020

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“Non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a fare nello stesso modo”
Albert Einstein
 
Il cambiamento è un processo intrinseco alla realtà stessa.
Non c’è crescita senza cambiamento.
 
Il punto non è tanto “cambiare” ma affrontare il cambiamento e utilizzarlo a proprio vantaggio dove possibile.
 
Sentiamo spesso parlare di cambiamento e a volte dietro questo processo ci nascondiamo, a volte lo usiamo anche come una scusa; buttiamo indistintamente nel “calderone del cambiamento” tutto quello che non riusciamo a gestire risolvere. Ci ripetiamo “devo/voglio cambiare” ma poi di fatto poco viene fatto in quella direzione.
 
Cambiare significa tutto e niente se non definiamo da dove partiamo, cosa vogliamo cambiare e dove vogliamo arrivare. Questo vale per la vita personale cosi come per il business.
È sicuramente un aspetto essenziale e importante ma non è l’unico a dover essere preso in considerazione.
 
Spesso parlando di cambiamento ci si focalizza sugli aspetti operativi e poco si quelli sistemici e strutturali.
 
Sapere dove vogliamo arrivare senza una strategia efficace che ci guida lungo il percorso solitamente è la principale causa di fallimento sulla base della quale poi ci rassegniamo al fatto che non possiamo cambiare, “cambiare è difficile”, “non cambierò mai”, “son fatto così” etc…
 
Diventa quindi utile nonché essenziale capire non tanto “cosa” cambiare ma “come” cambiare.
Il “come” racchiude in sé razione, struttura, strategia; è svincolato dall’oggetto e in questo modo può essere applicato trasversalmente per vari processi.
 
Dal cambiamento passiamo quindi alla gestione del cambiamento.
 
Gestire significa avere delle strategie più o meno efficaci per affrontare una data situazione.
Il punto diventa capire quali sono le nostre modalità operativo-emozionali-razionali per gestire il cambiamento e se queste modalità sono produttive o meno per noi.
 
Diventare consapevoli delle nostre strategie mentali ci permette di affrontare l’aspetto strutturale ed affrontarlo in modo sistematico; “non so cosa cambierò ma so come cambiare”.
 
Spesso restiamo “incastrati” nel cambiamento o ci appare “difficile” proprio perché di fatto non abbiamo strategie ottimali e diversificate per gestirlo.
Trattiamo le varie situazioni con la strategia “chiodo e martello” quando a volte ci serve un martello ma non un chiodo oppure non ci serve ne un martello e tantomeno un chiodo.
 
Cambiamento va di pari passo a miglioramento e questo sarà il post della prossima settimana.
Concludo introducendo il tema del miglioramento con una frase di Elon Musk, in onore dell’impresa recente che lo ha visto sotto la luce dei riflettori:
“Molti dicono di fare le cose in modo diverso, pochi di farle in modo migliore”
 
Copyright Lorenzo Savioli anteprima editoriale riservata
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'Master e Crescita Personale: settembre e le sue ali' di Lorenzo Manfredini

24/5/2020

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Il nostro master in mental training e coaching è soprattutto un’esperienza di sviluppo personale ed è a mio giudizio adatta a diversi scopi. Personale, in primis, professionale e relazionale, come logica conseguenza.

Vediamo gli aspetti legati alla crescita personale.

In essa, si vivono delle esperienze naturali, di comunicazione, di dialogo, di scoperta. Si impara cosa sono le attitudini e ci si interroga sullo scopo del proprio agire quotidiano. Si leggono manuali di base e di vita dove ci sono stimoli, non ‘risposte’, e un invito a crescere attraverso un aumentato processo di consapevolezza individuale.

Si mette a frutto il buon senso e si impara ad accettare le critiche che ci migliorano. Con esse si rafforzano la fiducia e l’autocontrollo, per apprendere qualcosa di nuovo ogni giorno. Passo dopo passo, entriamo nel bosco della nostra realtà e diventiamo le persone che desideriamo essere. Persone in grado di fare le scelte più adatte per nostra vita, sia che si tratti di persone, lavoro, cibo, letture o altro.

Impegnandoci in obiettivi realizzabili e raggiungibili, la motivazione e la spinta saranno le migliori alleate dei nostri sogni. E alla fine della corsa, forse, avremo capito il senso delle nostre scelte e del nostro vivere attuale.

Il compito più difficile sarà quello di essere noi stessi e di cambiare se occorre. Di migliorarci tutte le volte che cadiamo e ci rialziamo, di intraprendere azioni che hanno un valore, di sentire che qualcosa germoglia dentro di noi e ... di partire con il passo giusto fino al mare.
Cercando di essere aperti a ciò che siamo, diamo il nostro contributo ad un mondo migliore.

Pertanto, se decidiamo di crescere, facciamolo bene. Se non diventeremo dei professionisti sopraffini saremo persone sensibili, se non diventeremo genitori perfetti, saremo adulti responsabili, se non saremo dei seduttori, saremo buoni amanti, se non avremo il successo assoluto, avremo l’orgoglio di essere il meglio di ciò che siamo.
​
La crescita personale è un germogliare di semi con la fiducia che cresceranno tutti. Ma se anche non lo faranno avremo un’ottima mappa per fare pratica e sperimentare chi siamo.
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'La realtà della non-realtà' di Lorenzo Savioli

24/5/2020

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“Considerato quanto poco sappiamo,
la certezza che abbiamo delle nostre convinzioni è assurda;
ed è anche essenziale”
D. Kahneman
 
Credere in “qualcosa” fa parte dell’essenza stessa dell’Uomo.
 
È un bisogno, una esigenza ancestrale che ci permette di strutturare il modo di percepire e interagire con la realtà fisica e soprattutto psicologica che ci circonda.
Fin da piccoli sviluppiamo delle convinzioni che ci guidano lungo la nostra crescita, ci permettono di scegliere e a volte determinano anche il nostro destino e quello degli altri.
 
Nel momento in cui usciamo dalla nostra comfort zone queste certezze possono essere fortemente messe in discussione, criticate, derise o al contrario affermate, condivise e supportate
 
A volte si scatena una vera e propria “guerra” interiore ed esteriore con l’altro; il fatto di vedere messe in discussione le nostre basi, il nostro profondo credo ci fa alterare. Percepiamo un attacco alla nostro “io” più profondo, la parte nascosta di noi stessi che vogliamo proteggere e preservare.
 
Ci indispettiamo, ci alteriamo e arrabbiamo dato che vedere messe in discussione le nostre convinzioni e credenze sgretolerebbe in parte la “realtà” che ci siamo costruiti nel tempo e che percepiamo. Per le nostre credenze più radicate diventa un vero e proprio attacco al nostro “Essere” e pertanto la legittima difesa psicologica e a volte anche fisica diventa una necessità consequenziale e legittimata.
 
Da questo scontro non escono né vincitori né vinti; a volte riusciamo a far prevalere le nostre ragioni ma in fondo ma con un sapore amaro in bocca.
 
Capire e capirsi è un viaggio personale di continua crescita; spesso non c’è giusto o sbagliato ma cosa utile e cosa meno utile per noi stessi.
Preservare la nostra identità e quella degli altri al tempo stesso aiuta a creare unione e condivisione; una condivisione vera e profonda, senza secondi fini, che unisce parti differenti preservando la singolarità di ognuno.
 
Riconoscere la nostra unicità anche nell’altro supporta una comunicazione a doppia via che diventa scambio e crescita basata sul rispetto.
 
Si possono avere visioni differenti.
La svolta non è tanto annichilire una a scapito delle altre ma bensì riuscire a farle convivere pacificamente in noi stessi e negli altri.
 
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'La sterilità della certezza, la fertilità del dubbio' di Cosimo Tanini

17/5/2020

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Non dubitare di nulla è il mezzo più sicuro per non sapere mai niente”.
(Multatuli)

XI + I = X

Qual è il minor numero possibile di segmenti che si devono spostare per rendere l’equazione precedente  matematicamente corretta?
Molte persone rispondono “uno”e si sentono abbastanza soddisfatte di essere arrivate ad una soluzione con un numero così basso. E indubbiamente è vero: basta spostare la prima “I” dall’altro lato a destra della “X”, per far sì che l’equazione risulti corretta. Ma una risposta ancora più corretta è zero. Come? Basta solo ribaltare l’equazione, girandola di 180°, guardandola così da una prospettiva nuova e diversa.
 
XI + I = X           -->          X = I + IX
 
Quando ci confrontiamo con questo genere di problemi, probabilmente sospettiamo o addirittura sappiamo che vi si cela un trucco. Ma nonostante ciò, spesso ci fermiamo alla prima risposta. In questo caso a “uno”. E la differenza fra fermarsi a 1, o arrivare a 0, sta proprio nella capacità di dubitare ciò che si pensa non sia la risposta esatta.

Il cervello umano è meraviglioso ed è in continua evoluzione, ma al tempo stesso è molto pigro e soprattutto abitudinario; tende a processare le informazioni nel modo più conveniente, così che in molti casi la soluzione più semplice viene scelta, talvolta erroneamente, come la più plausibile.
​
Il dubbio (quello sano e non quello sterile fine a se stesso), invece, è il carburante per il cambiamento ed il miglioramento. Come per Cartesio e per la corrente dello scetticismo metodologico, la capacità di dubitare è alla base del miglioramento delle idee e del progresso della conoscenza in generale.
È dunque il motore del’innovazione.
Per cui, tornando all’equazione iniziale, acquisire la capacità e l’abitudine di dubitare di quella che sembra la risposta corretta e magari immediata,risulta fondamentale per trovare la soluzione giusta al problema. E questo passaggio all’apparenza semplice, ha implicazioni enormi a qualsiasi livello e in qualunque campo. Spesso infatti, dopo un’analisi iniziale, ci si adagia in una zona di confort costituita da pensieri e modi d’agire reiteratamente impiegati, perdendo così la possibilità di sviscerare nel profondo il problema e trovare la soluzione migliore. Pertanto, per dubitare in maniera efficiente, è necessario avere un’apertura mentale adeguata. Facciamo un esempio: immaginiamo di avere un’impresa al vertice del mercato. A quest’ultimo viene attribuita, soprattutto negli ultimi decenni, la principale caratteristica di essere in continuo mutamento. Il mercato si evolve costantemente. Cambia ogni secondo. E le imprese che desiderano rimanere al vertice, o tentare la scalata, devono per forza di cose adattarsi a questa mutabilità.

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'Colpa della Cultura o Cultura della Colpa?' di Lorenzo Savioli

17/5/2020

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“La nostra colpa maggiore sta nel preoccuparci delle colpe degli altri”
Kahlil Gibran
 
Il principio di causalità fa parte della nostra realtà psicologica e determinare “chi” o “che cosa” ci fa sentire in un determinato stato è un processo psicofisico intrinseco, automatico e spesso inconscio.
 
Al nostro “Io” non piace essere la causa del suo male per cui diventa naturale cercare la causa ultima in qualcosa di esterno e meglio ancora se “nell’altro”.
 
La “cultura della colpa” diventa quindi una sorta di esigenza psico-sociale di allentamento della tensione interiore.
 
Nella realtà odierna ci si focalizza sempre più spesso su quello che non va, su quello che è stato sbagliato e soprattutto su chi ha sbagliato, perdendo più tempo a cercare un colpevole piuttosto che a risolvere il problema.
 
Talvolta questa ricerca assume anche connotati psicologici deleteri e distruttivi, dove diventiamo giudici e imputati al tempo stesso, ricercando le colpe e sentendocele riversate addosso.
Diventa la guerra del chi vince, una lotta tra orangotango dove chi batte i pungi più forte sul petto prevale sull’altro e stabilisce il dominio fisico e psicologico.
 
Questo atteggiamento provoca una involuzione dell’individuo e della società; da una cultura potenziante che valorizza la persona, si passa ad una cultura depotenziante che sminuisce l’individuo. Il valore, la condivisione, la crescita lasciano spazio alle scuse, alle giustificazioni e infine alle colpe e ai colpevoli.
 
La vittoria in tutto ciò è ben poca cosa.
È una vittoria effimera e passeggera che porta disgregazione, distruzione, annichilimento; è una vittoria che altro non è affermazione di individualismo e cinismo; è una vittoria che genera risentimento, allontanamento, vendetta.
La cultura della colpa e del colpevole va innanzitutto ristrutturata, riequilibrata, reinquadrata in una ottica più grande e completa, volta al miglioramento continuo e alla crescita e valorizzazione del singolo individuo e del gruppo a favore della cultura stessa.
 
Spesso si sente dire “sbagliando si impara” ma poi nella realtà a chi piace sbagliare? A nessuno.
Sbagliare difficilmente fa piacere, riconoscere un errore e ammetterlo risulta difficile tanto che spesso tendiamo a coprire i nostri errori piuttosto che a parlarne apertamente.
 
Tuttavia, l’errore è parte integrante dell’essere umano e riconoscere questo aspetto significa riconoscere la nostra fragilità, il nostro bisogno di aiuto, la nostra naturale imperfezione.
 
Un clima aperto al dialogo, allo scambio e alla condivisione crea le basi per una crescita forte e robusta; una cultura che valorizza la persona in quanto essere umano, con i suoi pregi e difetti, permette una piena affermazione e realizzazione dell’individuo in quanto tale.
 
Alla fine trovare “il colpevole” ci fa stare bene fino al momento in cui non ci rendiamo conto che, guardandoci allo specchio, in fondo il colpevole che cercavamo siamo noi.
 
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'Società liquida' di Gianpiero Collu

17/5/2020

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Assistiamo all'inaspettato crollo delle banalità nutrite di confortanti previsioni.
Un vecchio sole apre fluidi scenari.
Non è da tutti, né per tutti.
Da Est a Ovest si sparge il l crollo attraverso invisibili contrasti.
Il varco apre guerre di opinionisti a buon mercato.
A volte pesantemente raffinate.
Opinioni globali che fanno sesso non protetto con numeri e statistiche.
Torto e ragione sin dalla Creazione dilaniano e dividono la Crosta terrestre.
Imperversano nella Società sempre più fluida.
In modalità popcorn concedono a qualcuno di andarsene.
Raramente si colgono motivi e perché.  
È un nemico invisibile.
Più si nasconde più è improbabile individuarlo e definirlo. 
Ancor più difficile rintracciarlo in una società sempre più liquida.
Assembramento che pensa tanto e parla poco.
Pensa poco e parla tanto.
Combatte impavido contro la roccaforte della normalità sempre più fluida e astratta.
Tutto quello che può mancare distanzia.
Gli abbracci diventano sguardi camuffati e incerti.
Le domande inciampano nelle frontiere sbarrate.
Un bambino molto meno timido del padre alza lentamente la mano:
Papà verso dove e perché?
Non lo freghi porgendogli un fresco succo di frutta home maid.
Il suo sguardo non è più infantile, appare molto lontano.
Non lo rincuori con la canzoncina del poggiolo: “Andrà tutto bene”.
Lui è l’essenza e l’emblema del vivere un soggiorno in territori fluidi.
Padre regala fuori onda un sorriso versa l’alto.
Sussurra togliendo ogni impietosa maschera:
Figlio mio: andrà come deve in una società fluida e martoriata.
A Suo tempo andrà.
A sorpresa di tutti un doppio arcobaleno si dispiega con potenza nel cielo infinito.
Il bambino inizia a correre lontano.
Molto lontano.
Presente e domani lo accolgono!
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'Eccellenza: sana abitudine o innata perfezione?' di Cosimo Tanini

17/5/2020

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L’eccellenza è un’arte ottenuta attraverso l’addestramento e l’abitudine. Noi non agiamo bene perché abbiamo virtù o eccellenza, ma abbiamo piuttosto queste due perché abbiamo agito correttamente. Noi siamo ciò che facciamo ripetutamente. 
Eccellenza, allora, non è un atto, ma un’abitudine. 
​
(Aristotele)

Lo sport insegna a vincere e a perdere.
Una delle più grandi lezioni che trasmette ai giovani, ma anche agli adulti è che non si può vincere sempre. E di pari passo insegna anche ad accettare la sconfitta. Il valore della persona poi, si manifesta anche nel modo in cui è capace di vincere, ma anche di perdere. Se al momento della sconfitta non si trovano scuse, alibi o colpevoli, ma ci si prepara a vincere la volta successiva (attivando anche un processo di autoanalisi consapevole), allora in quel caso, è stato fatto un grande passo lungo la strada che porta al’eccellenza. Perché l’eccellenza non è una persona, un singolo. L’eccellenza, come sosteneva Aristotele, è un processo graduale, che avviene step by step, con l’alternanza di momenti vincenti e necessariamente anche di sconfitte. E spesso è proprio il modo in cui vengono gestite quest’ultime che può determinare dei grandi passi avanti, o indietro, nel processo che porta all’eccellenza.

Chi pratica sport sa che deve ricercare continuamente l’eccellenza, perché non basta fare le cose bene, ma è necessario riuscire a farle meglio degli altri per riuscire a vincere. Se si fanno bene ma l’avversario riesce a farle anche un poco meglio, si perde la partita, la gara o il campionato, pur essendosi allenati in maniera corretta.

A tal proposito, bisogna fare attenzione a non confondere la perfezione con l’eccellenza. La prima infatti è qualcosa di irrealizzabile. È un’idea che tende a cristallizzare la prestazione in un modello impossibile da attuare. È impensabile che non si possa commettere nemmeno un errore e poiché per definizione, per quanto uno si sforzi, non si potrà mai raggiungere la perfezione, si genererà di conseguenza uno stato di continua insoddisfazione e frustrazione che influirà negativamente sulla performance.

L’eccellenza è, invece, la capacità di commettere meno errori possibili durante un processo a lungo termine, in cui l’individuo si evolve metabolizzando vittorie e sconfitte, focalizzando la propria attenzione ed impiegando le proprie energie per migliorare un particolare per volta (e non tutti insieme come invece vorrebbe la perfezione). “Lottare per la perfezione è il più grande freno che esista… È la tua scusa personale per non fare nulla. Invece, lotta per l’eccellenza, facendo del tuo meglio”. (Sir Laurence Olivier).

Si innesca così il circolo virtuoso dell’abitudine all’eccellenza, un processo che si costruisce poco per volta, giorno per giorno, conseguendo obiettivi graduali e commisurati alle proprie capacità del momento.

Per cui in 5 minuti, quale attività potresti fare adesso per migliorarti ed innescare l’abitudine della tua eccellenza?

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'La mia famiglia interiore' di Maurizia Pambianco

15/5/2020

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In questi giorni di lockdown in casa, non mi sono mai sentita sola e neanche in perfetto silenzio, nonostante fossi fisicamente da sola. Mi accorsi subito che avevo tante voci e tanti pensieri con sfumature e toni diversi che mi sussurravano cosa fare, cosa immaginare, se avere paura, se gioire, cosa inventare, di cosa rimproverarmi.

Ogni giorno mi sembrava di sedermi a tavola con un gruppo di persone che man mano aumentavano, persone dentro di me che mi facevano emozionare dalla gioia alla tristezza, dalla paura al coraggio e io, seduta capotavola, calmieravo queste voci.

Sono diventata pazza? Eppure è molto divertente ed interessante!
Ogni tanto venivo distolta dall’esterno con video-telefonate o messaggi che interrompevano la “riunione conviviale”.

Mi sono tranquillizzata dall’ansia di essere impazzita quando mi è stato consigliato il libro” Il dialogo delle voci” di Hall e Sidra Stone, (grazie Paolo!) che mi ha fatto comprendere che durante la vita creiamo delle parti di noi o schemi di energia che sono sub-personalità, come trattava anche Roberto Assaggioli (fondatore della psicosintesi). L’ intento di alcune è di farci adattare all’ambiente, altre sono reazioni istintive per poter sopravvivere.

Le parti più tenere sono la nostra parte bambina che nella sua ingenuità e autenticità, crescendo ha dovuto proteggersi. Come nel film “Insight out”, crescendo abbiamo dovuto rinunciare alla nostra isola “Stupidera” che ci rendeva giocosi e magici perché inadeguata e fragile.

Ed è nato dentro di noi anche il bambino impaurito, timoroso, spaurito ed estremamente vulnerabile che richiede protezione. A volte queste parti vengono addirittura rinnegate perché scomode.

Questi sono aspetti delicati che se li riteniamo deboli sono parti vitali che escono solo quando percepiamo l’ambiente non ostile. Quante volte nelle relazioni di cui ci fidiamo e apriamo il cuore, ci sentiamo e ci comportiamo come bambini gioiosi e sono proprio queste parti vulnerabili che riescono a creare quella magica intimità profonda.

Questi giorni li ho incontrati, li ho riconosciuti nei pensieri e nelle emozioni, strappandomi un delicato sorriso.
E’ stato interessante osservare e comprendere che dentro di me c’è proprio una famiglia a cui bisogna dare spazio e riconoscere quando il loro ascolto può essere veramente utile.

Altre voci o schemi di energia si sono costruite durante la nostra crescita, vivendo varie esperienze. Il nostro capo è il controllore / protettore che dirige le nostre azioni e i comportamenti, spesso a nostra insaputa. Una bella tripletta è il critico, il perfezionista e l’attivista, loro mi fanno veramente faticare, a volte sono proprio depauperatori della mia energia o sabotatori: “non va bene che tu sia così!”, “fai qualcosa!”, “vedi che non è ancora perfetto?”

L’attivista si fa sentire subito al mattino, come una sveglia” muoviti che hai un sacco di cose da fare!”, “non vorrai mica stare a letto e perdere tempo?”.

Mentre al telefono ho riconosciuto “la compiacente” che spesso fa coppia con la “brava ragazza” o “la brava figlia”, ha i suoi modi carini, gentili, accondiscendenti e pazienti, vuole piacere ed essere amata. La compiacente ascolta le telefonate delle amiche depresse o arrabbiate e spesso può influenzare il tuo umore, a volte vorresti interrompere la telefonata per sopravvivenza psicologica ma “la compiacente” interviene dicendo” sii comprensiva e accogliente”.

Beh, devo dire che aver preso atto, con distacco e lucidità, di tutte queste parti di me, dalle più ingombranti come il narcisista, o il “so tutto io”, alle più rigide e giudicanti fino alle più tenere e paurose è stato sorprendente. Ho notato che ogni tanto si aggiunge qualche nuovo componente alla famiglia a cui ho imparato a dare il benvenuto senza giudizio.

Cercare di rimanere sempre capotavola per vedere tutti e governare il dialogo è impegnativo. Mi sono accorta come qualche componente della famiglia, un po’ nascosto, assomiglia molto a qualche persona che conosco e che mi dà molto fastidio e qualche altro componente mi ricorda qualche amico che adoro e con cui provo affinità e simpatia.

Pensa te, che proiezioni!
Ora comprendo che quando incontro una persona sicuramente incontro anche la sua famiglia interiore e durante la relazione usciranno i vari componenti che dovranno relazionarsi con i miei. Che impegno!
Inoltre se riconosco e accolgo tutti i miei schemi di energia, anche quelli più rinnegati senza giudizio posso rispettare anche quelli degli altri.
​
Accogliere e rispettare i propri aspetti di sé senza identificarsi mi fa sentire come essere un maestro d’orchestra che sceglie quali strumenti far suonare e quando, e mi aiuta a volte ad evitare quei conflitti interiori che mi creano malumore e smarrimento. 

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'Disciplina e Visione: cosa ci aspetta!' di Lorenzo Manfredini

13/5/2020

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Una vita da conquistare.
La nostra personalità è il bene più prezioso che dobbiamo apprezzare e conquistare. È l’atto più specificamente umano di un adattamento che si compie attraverso la terra e il mare di decisioni personali sempre più libere e complesse.

La capacità di sostenere le tensioni si rivelano fondamentali quando si sviluppano al meglio le proprietà di ciascuno, attraverso la creatività. Libertà, decisioni e creatività sono le nostre migliori risposte alle tensioni di questo momento storico e alle loro estreme conseguenze. Affrontare conflitti, da sempre, significa convivere con i propri affanni, ma anche condurre una vita piena, profonda e appagante.

Oggi, abbiamo bisogno di considerare la nostra creatività come lo sviluppo di un istinto fondamentale, una forza motivazionale capace di fotografare l’accadere psichico.

Il bene più prezioso.
Oggi abbiamo fame (Istinto di autoconservazione), abbiamo bisogno di relazioni appaganti (conservazione della specie), di lavorare attivamente (bisogno di cambiare), di riflettere e trasformare uno stimolo in immagini e scopi, ma abbiamo soprattutto bisogno di esplorare la nostra creatività e trasformare ciò che ci accade in coscienza.

Riflettere e creare sono per la psiche le nostre risorse umane fondamentali. Da non rimuovere, anzi, da tonificare.
In questa luce, i conflitti assumono una prospettiva diversa. Sono l’occasione per sperimentare attraverso il nostro istinto creativo la possibilità di essere curiosi e sperimentare noi stessi e il mondo in modo diverso.

Spesso viviamo momenti di affanno, angoscia e depressione, perché abbiamo rimosso la nostra creatività e fatichiamo a riattivare ristrutturare e  ri-raccontare la nostra specificità umana e individuale.

E’ nella creatività che siamo persone
Si dice in ogni dove che è importante ritrovare le proprie risorse, capire i propri bisogni e portare valore all’esperienza degli altri. Ebbene, oggi abbiamo bisogno di creatività. Non quella dell’inventore, ma di colui che riassume, riproduce, esplora e ricrea condizioni e modi diversi di vivere per sé e per gli altri.

Di fronte alle difficoltà della vita abdichiamo quando proviamo paura. E la paura rappresenta quell'orizzonte contro il quale ci si ferma, si regredisce, si torna indietro, si soffre.

Se consideriamo invece la paura come una barriera immaginaria, un fantasma che non esiste, riusciremo a ridurla e a fare il passo che ci serve, in avanti.

Passività, orgoglio e invidia sono gli antagonisti alla nostra creatività di fare e di esistere.

Proprio in momenti come questo, e forse grazie a questo, dobbiamo riscoprire una creatività che viola le leggi della passività e risplende di una luce speciale, eroica e artistica allo stesso tempo. Non dobbiamo pertanto aspettarci il peggio, ma sforzarci di conseguire i migliori risultati possibili.

Stare fermi, non muoversi, non rischiare, sopportare, non lo dice l’universo, ma la nostra interpretazione della paura.

Proviamo, invece, a vivere una vita che merita tutta la nostra attenzione e presenza.
​Ne abbiamo facoltà!

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'La 'forza' della disperazione cela sempre la possibilità di una crescita' di Gian Luca Capuzzo

11/5/2020

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La vita è fatta di tante piccole parti, gli avvenimenti degli ultimi mesi lo sottolineano con forza, ci sono esperienze piacevoli, altre esaltanti, alcune sono spiacevoli, altre ancora devastanti…

Ma quale è il metro? Chi può decidere quando “Spiacevole” diventa “devastante” o ancora quando bene diventa meglio?  Le persone che abbiamo attorno, gli affetti più stretti e quelli più passeggeri cercano in qualche modo di darci la loro interpretazione con le migliori intenzioni, ma a noi non torna mai, è diverso, la nostra minestra ha un sapore diverso e questo è normale, le nostre esperienze sono il condimento della nostra vita e contribuiscono a darle un sapore unico e non replicabile.

Ma quando veramente l’esperienza di turno è stata devastante, quando a dispetto di quanto intorno a noi ci viene raccontato e la nostra storia è diversa, può capitare di cadere nel rimuginio dei pensieri negativi e se non si sta attenti il rischio è di dar forza alla disperazione che come un felino è li pronta all’agguato…
Quando siamo in queste situazioni diventa difficile vedere il confine sottile tra “come sto” e “come stanno le cose” e come sempre la domanda è da un milione di euro!

Dove dirigere lo sguardo per scorgere una luce?

Dove concentrarsi quanto l’unico punto che vediamo è “disperato”?
 
Quando tutto è confuso, quando nel magazzino della mente c’è stato un terremoto, bisogna per prima cosa rimettere ordine e fare un bell'inventario, dopo di che, con dei dati precisi alla mano, faremo la valutazione dei reali danni… se ce ne saranno...

In ogni modo risistemato il disordine e valutati gli eventuali danni, avremo certamente imparato qualche cosa in più sulle misure anti-sismiche, ed al prossimo terremoto forse il nostro magazzino rimarrà intatto o quanto meno sarà meno disastrato…

Non è mai facile vedere una crescita possibile da un evento negativo o drammatico, ma la nostra intelligenza, la pazienza e perché no, l’aiuto di un buon amico sono sempre lì a nostra disposizione…usiamoli! 
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'Emozioni: i colori del nostro Io' di Lorenzo Savioli

9/5/2020

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“A volte le parole non bastano.
E allora servono i colori.
E le forme.
E le note.
E le emozioni.”
A. Baricco

 
Ci sono emozioni che abbiamo provato, emozioni che proveremo ed emozioni che non proveremo mai.
 
Dare un nome, una forma, un suono, un colore, un movimento a quello che sentiamo accadere nel nostro corpo e nella nostra mente aiuta a fare chiarezza, concretezza, capire e soprattutto capirsi.
 
Proviamo “cose” a cui attribuiamo un nome, troppo spesso lo stesso nome, un po' per abitudine un po' perché gli altri ce le riversano addosso così.
Diventa utile quindi capire se quello che proviamo è veramente quello che pensiamo e ci diciamo di provare in modo da gestire al meglio il nostro stato interiore, gestirlo e non farsi gestire.
 
Le emozioni sono potentissime alleate del nostro “Io”, ci fanno passare all’azione o a volte nell’immobilità interiore e fisica.
Il vissuto emotivo trova essere in parole; parole ricche, forti e cariche di significato che smuovono il nostro mondo interiore.
 
Lasciar fluire le nostre emozioni è la base per poterle comprendere, scaricare energia psicofisica e raggiungere un equilibrio interiore.
Serve quindi fermarsi, ascoltarsi, percepire e capire in modo da essere consapevoli di quello che stiamo vivendo e viverlo pienamente.
 
“Cosa sento?”
 
Una domanda semplice che porta attenzione al vissuto interiore, al flusso energetico dei pensieri, al turbinio di immagini, suoni e parole mentali.
 
“Quello che sento è veramente ……. Paura, Rabbia, Coraggio, Felicità…etc?”
 
Spesso abbiamo un lessico emozionale povero, usiamo la stessa parola per descrivere una miriade di stati interiori ed esteriori e così facendo appiattiamo il nostro flusso emotivo, privandoci di vivere pienamente quello che ci sta accadendo.
 
A volte ristrutturare e cambiare il nome di quello che stiamo vivendo permette di viverlo in modo diverso.
Trovare sinonimi ed equivalenti aiuta ad arricchire la nostra tavolozza emotiva, ampliare i colori della nostra realtà e a volte anche cambiarli.
 
Trovare e nominare le mille sfaccettature di una emozione aiuta a vivere con consapevolezza e pienezza tutto quello che ci accade perché in fondo è parte di noi stessi; significa valorizzare ogni momento cogliendo la sua caducità e unicità; significa accettare ed accettarsi e questo è l’atto di amore più grande che possiamo fare nei confronti di noi stessi.

Copyright Lorenzo Savioli anteprima editoriale riservata
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'Amen' di Marina Toniolo

7/5/2020

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Mai provato a scrivere il proprio necrologio?
Per carità!!! Non ci voglio nemmeno pensare!
Ma perché?
E poi … cosa vorremmo ci fosse scritto?
In questo periodo di bilanci questo potrebbe essere un modo diverso ed inaspettatamente utile.
Possiamo permetterci di scrivere tutto quello che arriva onestamente e sinceramente.
Permetterci di dirci quanto siamo stati bravi.
Ma anche no.
Quante cose abbiamo detto e fatto.
Ma anche no.
Quali aspetti della vita mi hanno dato soddisfazione e quali ci hanno deluso.
Che cosa avremmo voluto o fatto di diverso.
Cosa e chi è stato importante.
Possiamo scrivere tutto.
Essere magnanimi e crudeli … compassionevoli e impietosi.
Tanto che ci frega?
Siamo morti!!!
Si parla tanto di cambiamento, in effetti, è proprio Il Nuovo che fa girare il mondo.
Ma l’idea del Nuovo affascina e spaventa, attrae ma fa paura.
Per cambiare serve coraggio e sentirsi coraggiosi fa star bene.
Di questi tempi abbiamo imparato ad apprezzare la libertà stando rinchiusi.
Ad apprezzare la vicinanza stando lontani.
Quindi perché non apprezzare La Vita avvicinando La Morte?
Dai, su, coraggio!
Il seme, per dare buoni frutti deve morire.
Ce lo dicevano al catechismo.
Morire per rinascere.
​
PS. La prima frase del mio necrologio: “Dopo 105 anni vissuti intensamente, serenamente nel sonno, Marina ci ha lasciati … “   (così ….per mettere le mani avanti ….)
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'La scelta del fare' di Lorenzo Manfredini

7/5/2020

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E' il momento di lasciare spazio all'intuito e fare scelte appropriate di fronte alle opportunità che la vita ci mette davanti. Qualsiasi esse siano.

Basta pause!
Ci siamo permessi una pausa da tutti i punti di vista, fisica, emotiva, mentale, relazionale, professionale. Ci siamo abbandonati sul divano, inebetiti davanti alla televisione, ipnotizzati sui social e preoccupati per il lavoro. Rimescolati dentro.

Adesso è il momento dell’accettazione, dell’osservare con attenzione, del guardarsi da dentro e da fuori. E’ il momento di lasciare andare anche i vecchi desideri, le vecchie modalità relazionali, un certo modo di lavorare, le vecchie abitudini. Forse anche l’intelligenza al servizio della nostra sicura omeostasi.

E’ il momento dell’ascolto, della spiritualità, del movimento, del ballo, della musica. E’ il momento di perdersi per ritrovarsi. Nuovi. Nuove scelte, nuove prospettive, nuove strade.

Se ci osserviamo e quello che vediamo non ci piace, proviamo a cambiarlo. E riflettiamo sulle cose che possiamo fare.

E’ il momento di cambiare stile di vita e di abitudini. E’ il momento di scegliere.

Questo momento della vita è una lezione? Che cosa stiamo imparando?
Non c’è momento più adatto di questo per chiederci: ‘Come posso agire in questo momento?’ ‘Cosa posso fare di diverso?’ ‘Cosa è coerente con il mio vero me?’

Ci siamo annebbiati di aspettative? Apprezziamo la vita per quello che è! Lasciamo fluire le cose e cerchiamo di essere presenti mentre accadono. C’è qualcosa di saggio e di forte mentre le cose accadono: possiamo sentirci al sicuro dentro noi stessi.

La scelta del fare, all'inizio, non ha bisogno di un piano dettagliato. Ha bisogno di energia, di respiro, di movimento. Ha bisogno che siamo disponibili a vedere cosa succede e a fidarci delle nostre guide interiori.

Abbiamo bisogno di fare dei passi avanti anche se talvolta rappresentano uno spreco di energie e assomigliano a un fallimento.
Possiamo imparare cose fondamentali dagli errori e cioè scoprire cosa non funziona e cosa, invece, funziona se ci fidiamo di noi stessi e della vita.

E’ il momento di dire basta! Perché ne abbiamo abbastanza di paura, passività e orgoglio.

Guardiamo in faccia la realtà e scegliamo quella che ci emoziona nel profondo.

Il passato è passato, il rullo ci ha stirati, e ora è il momento di fare nuovi passi, sempre più sentiti e autentici.

Basta scuse! Basta chiacchierio mentale! Basta cavolate!

E’ il momento di fidarci di noi stessi, del nostro intuito e anche del nostro inconscio.

Le scelte servono per cogliere delle opportunità. Così come le emozioni servono per anticipare i piani del nostro intelletto.
Non c’è momento migliore di questo per correggere le emozioni e scegliere di fare.

​Buone scelte a tutti
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'Il cambiamento veloce' di Lorenzo Manfredini

4/5/2020

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Cambiare velocemente
Ricordiamolo, il nostro cervello ci offre la possibilità di cambiare velocemente.
Di fronte a un pericolo, a una criticità, a un’emergenza, i processi arcaici del cervello guidano le migliori risposte. A volte abbiamo bisogno di entrare con consapevolezza nella comprensione di questi processi, ma nella maggior parte dei casi, i nostri comportamenti, sono guidati dalle emozioni e da stati mentali assolutamente inconsapevoli.

Sono le emozioni, la vera guida d’innesco delle nostre decisioni e dei nostri cambiamenti.
Percepire, agire e riflettere ci inducono a una verità scientifica: l’azione viene prima del pensiero e le emozioni ne guidano l’effetto. Per questo dobbiamo gestire il nostro sentire e il nostro agire per imparare a reagire agli stimoli nel modo più corretto.
Chiamiamo tutto questo ‘EGO’.

Ego normale
Abbiamo imparato fin da piccoli che lo spazio fisico e psicologico è un valore. Lo abbiamo protetto con buona ragione e lo abbiamo chiamato sano egoismo.

Ego ‘EGOICO’
L'irrigidimento delle nostre prerogative, o omeostasi, si traduce in resistenza al cambiamento. Accade in particolare nella dimensione intersoggettiva quando prevale la rigidità del carattere (ad es. nel narcisismo, nell'auto-referenzialità e nell'egoismo) rispetto alla dimensione relazionale della comprensione, dell’ascolto e dell’empatia.

In definitiva, nei cambiamenti, ciò che  diventa cruciale è scoprire come stimolare le reazioni più funzionali al nostro benessere, consapevoli che altrettante forze ne guideranno la resistenza.

Esperienze emozionali correttive.
Prima e dopo la gestione di ogni crisi dobbiamo riflettere e fare il punto sull'esperienza, ma non durante la crisi stessa. Nel pieno della crisi dobbiamo agire, con presa d’atto, con consapevolezza oggettiva, con fluidità.

Pensare in modo diverso.
Da dove nasce un modo diverso di pensare? Da una consapevolezza: il frutto del nostro pensiero, e cioè le decisioni che prendiamo ogni giorno, sono guidate prevalentemente dalle emozioni.

Correggere le emozioni
Per questo è necessario correggere le nostre emozioni cambiando prospettiva. O meglio correggere le nostre emozioni per cambiare prospettiva. Lo possiamo fare con il training mentale, andando a cogliere i sottili cambiamenti energetici del corpo. Oppure modificando il linguaggio o le immagini interiori.

Ad ogni modo, la strada c’è. Le esperienze possono travolgere il nostro Ego e farci sperimentare angoscia e disperazione, ma se impariamo il dialogo intimo con noi stessi è certo che quel dialogo suggestivo e che tocca le corde appropriate, rappresenterà la nostra miglior medicina. 
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    COVID SECONDA ONDATA
    ​di Lorenzo Manfredini

    In questo video ti parlo di un vaccino, che oltre a quello del covid, si dovrà trovare per la fragilità del nostro tempo, delle nostre istituzioni e delle nostre guide interiori.

    IL MODELLO STEP CONSAPEVOLE
    Ogni professionista che operi per il benessere e l’equilibrio della persona, è un animatore di salute, vitalità e felicità. In altre parole, è un profondo conoscitore dell'autoregolazione a livello fisico, emotivo, mentale e relazionale. Cosa vuol dire conoscitore? Che ha sperimentato in prima persona e che sa proporre a persone e gruppi attività che portano all’equilibrio personale, al benessere e alla salute.
    Cos'è dunque il modello step consapevole? Vediamo ...

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