“Sapere, saper fare, saper essere” è stato uno dei primi insegnamenti che ho appreso da Verena Schmid tanti anni fa alla scuola di Arte Ostetrica di Firenze
Mi sono avvicinata al coaching con un fine personale, anche se con un certo scetticismo perché l’ho sempre percepito troppo freddo, meccanico, distaccato. Scoprire invece che può essere praticato non in modo asettico ma olistico mi ha piacevolmente sorpreso e me l’ha fatto sentire in una misura più vicina a me.
“Sapere, saper fare, saper essere” In questa frase sono racchiusi i vari aspetti delle competenze di un professionista: la parte nozionistico-teorica, la parte pratica, ma anche la parte emotiva, relazionale, di consapevolezza.
SAPERE: è l’insieme delle conoscenze, delle nozioni, rappresenta quindi la parte teorica acquisita attraverso la ricerca, lo studio nel campo specifico, gli aggiornamenti, gli approfondimenti, l’esperienza
SAPER FARE: è la capacità di mettere in pratica ciò che si è appreso con la teoria e di sviluppare strumenti concreti per realizzare le informazioni acquisite
SAPER ESSERE: esprime la coerenza di ciò che si dice e fa, è capacità di creare relazione, fiducia, credibilità
Scorrendo in ordine questi 3 aspetti si passa da un piano puramente mentale, ad uno concreto-corporeo per arrivare ad una dimensione più profonda che è quella del sentire per essere.
Per un coach sentire cosa si muove nella relazione permette di creare un ponte, uno spazio all’intero del quale il coachee può ascoltarsi, scoprire le proprie risorse, focalizzare gli obiettivi vedendoli non come semplici mete da raggiungere ma come tappa di un viaggio attraverso cui poter conoscere maggiormente se stesso/a.
Ma per poter sentire l’altro è necessario essere in contatto con il proprio mondo interiore, con i propri confini, per ascoltare senza giudicare, perché le proprie parole non siano solo parole ma arrivino al coachee con un senso profondo. Se il coach sa, sa fare, sa essere, potrà trasmetterli al coachee.
Ecco allora che il coaching non mi appare più come uno strumento che mira solo al fine senza preoccuparsi dei mezzi, ma può diventare al contempo uno strumento esplorativo e di crescita personale immerso in una dimensione umana dove coach e coachee non vestono solo ruoli, ma mettono in gioco ciò che sono nel profondo permettendo l’integrazione dei piani mentale, emotivo e spirituale.
Mi sono avvicinata al coaching con un fine personale, anche se con un certo scetticismo perché l’ho sempre percepito troppo freddo, meccanico, distaccato. Scoprire invece che può essere praticato non in modo asettico ma olistico mi ha piacevolmente sorpreso e me l’ha fatto sentire in una misura più vicina a me.
“Sapere, saper fare, saper essere” In questa frase sono racchiusi i vari aspetti delle competenze di un professionista: la parte nozionistico-teorica, la parte pratica, ma anche la parte emotiva, relazionale, di consapevolezza.
SAPERE: è l’insieme delle conoscenze, delle nozioni, rappresenta quindi la parte teorica acquisita attraverso la ricerca, lo studio nel campo specifico, gli aggiornamenti, gli approfondimenti, l’esperienza
SAPER FARE: è la capacità di mettere in pratica ciò che si è appreso con la teoria e di sviluppare strumenti concreti per realizzare le informazioni acquisite
SAPER ESSERE: esprime la coerenza di ciò che si dice e fa, è capacità di creare relazione, fiducia, credibilità
Scorrendo in ordine questi 3 aspetti si passa da un piano puramente mentale, ad uno concreto-corporeo per arrivare ad una dimensione più profonda che è quella del sentire per essere.
Per un coach sentire cosa si muove nella relazione permette di creare un ponte, uno spazio all’intero del quale il coachee può ascoltarsi, scoprire le proprie risorse, focalizzare gli obiettivi vedendoli non come semplici mete da raggiungere ma come tappa di un viaggio attraverso cui poter conoscere maggiormente se stesso/a.
Ma per poter sentire l’altro è necessario essere in contatto con il proprio mondo interiore, con i propri confini, per ascoltare senza giudicare, perché le proprie parole non siano solo parole ma arrivino al coachee con un senso profondo. Se il coach sa, sa fare, sa essere, potrà trasmetterli al coachee.
Ecco allora che il coaching non mi appare più come uno strumento che mira solo al fine senza preoccuparsi dei mezzi, ma può diventare al contempo uno strumento esplorativo e di crescita personale immerso in una dimensione umana dove coach e coachee non vestono solo ruoli, ma mettono in gioco ciò che sono nel profondo permettendo l’integrazione dei piani mentale, emotivo e spirituale.