Otto mesi sono lunghi. Lunghissimi. Abbastanza per dimenticare l’odore dell’erba bagnata, il suono del pallone che schiaffeggia la rete, o il boato di chi crede in te. Eppure, anche in mezzo a freddo, tosse e una schiena che reclama pietà, arriva un momento in cui devi solo esserci. Presente. In silenzio, ma con tutto il corpo, anche se ogni fibra urla.
E così è successo. Nicolò, che di "Manfredini" non porta solo il cognome, ma anche l'arte di trasformare la pressione in occasione, è tornato a prendersi la scena. Dopo otto mesi, ha guardato la porta – quella porta – e oggi è stata sua. Nessuna esitazione, solo intuito e fermezza. Perché, quando il gioco si fa duro, il corpo nonostante tutto risponde, piangendo o no.
I giornali parlano di voti alti, di parate decisive, di un finale di partita che, senza quelle mani sicure, avrebbe avuto tutt’altra storia. Parlano di quasi rigori parati nel silenzio di un recupero che pare infinito. Parlano di un Manfredini che blinda la porta come un muro invisibile. Ma ciò che non dicono è la verità più profonda: ogni gesto, ogni volo, ogni respinta è una promessa mantenuta. Verso chi crede in lui. Verso sé stesso.
Certo, qualcuno deve offrirgli una cena – almeno così dicono i cronisti! – ma la verità è che Nicolò non gioca per ringraziamenti. Gioca perché è ciò che da 18 anni da professionista ama fare, è ciò che lo definisce.
E allora, per oggi, caro Nicolò, puoi permetterti di chiudere gli occhi, respirare a pieni polmoni (se la tosse lo consente) e goderti questo momento. Te lo sei guadagnato. Non solo con la tecnica, ma con una maturità e con una forza che va oltre il fisico.
Perché, in fondo, il bello di essere un Manfredini non è solo parare. È rispondere. Sempre. Anche quando il corpo sembra dire meno, un po' meno.
E così è successo. Nicolò, che di "Manfredini" non porta solo il cognome, ma anche l'arte di trasformare la pressione in occasione, è tornato a prendersi la scena. Dopo otto mesi, ha guardato la porta – quella porta – e oggi è stata sua. Nessuna esitazione, solo intuito e fermezza. Perché, quando il gioco si fa duro, il corpo nonostante tutto risponde, piangendo o no.
I giornali parlano di voti alti, di parate decisive, di un finale di partita che, senza quelle mani sicure, avrebbe avuto tutt’altra storia. Parlano di quasi rigori parati nel silenzio di un recupero che pare infinito. Parlano di un Manfredini che blinda la porta come un muro invisibile. Ma ciò che non dicono è la verità più profonda: ogni gesto, ogni volo, ogni respinta è una promessa mantenuta. Verso chi crede in lui. Verso sé stesso.
Certo, qualcuno deve offrirgli una cena – almeno così dicono i cronisti! – ma la verità è che Nicolò non gioca per ringraziamenti. Gioca perché è ciò che da 18 anni da professionista ama fare, è ciò che lo definisce.
E allora, per oggi, caro Nicolò, puoi permetterti di chiudere gli occhi, respirare a pieni polmoni (se la tosse lo consente) e goderti questo momento. Te lo sei guadagnato. Non solo con la tecnica, ma con una maturità e con una forza che va oltre il fisico.
Perché, in fondo, il bello di essere un Manfredini non è solo parare. È rispondere. Sempre. Anche quando il corpo sembra dire meno, un po' meno.