
Qualche giorno fa ho scritto una breve nota sulle questioni di punteggiatura nelle relazioni.
Torno ora sull’argomento della comunicazione, prendendo a prestito qualche frammento di vita quotidiana.
Davanti alla tv: “Vilma, la birra è finita!” - “Vai a prendertela”
In auto: “Guarda che è verde!” - “Guidi tu o guido io?”
A cena: “Che cosa c’è in questa minestra?” - “Se non ti piace, puoi andare a mangiare al ristorante”
Richiesta: “Potresti solo aiutarmi a piegare le lenzuola?”
Questi esempi evidenziano ciò che il messaggio include, al di là delle parole (la cui scelta ha un peso), da parte del mittente, in termini di rappresentazione di sé e di come egli consideri il destinatario. La chiamiamo metacomunicazione implicita, attuata attraverso tutti i canali che utilizziamo per esprimerci, verbali e soprattutto non verbali.
Per parte sua, il destinatario reagisce sulla base delle ipotesi che costruisce, senza preoccuparsi di appurare se la percezione che ha avuto, l’interpretazione che ne fa e la sensazione che stimola la sua reazione, corrispondono in qualche modo agli intendimenti del mittente oppure dipendono da sé stesso (questione di punteggiatura…).
Il messaggio viene recepito a seconda del terreno cui approda: il destinatario lo decodifica sulla base delle proprie chiavi interpretative, aggiungendo materiale di propria fabbricazione, che si combina con il materiale fornito dal mittente, a volte dando luogo a reazioni esplosive.
Si entra così in una dinamica di conflitto, dove le comunicazioni non si riferiscono a fatti concreti, ad eventi specifici, dove le divergenze non riguardano aspetti definiti della vita quotidiana, ma abbracciano implicitamente l’intera personalità degli interlocutori.
Come possiamo modificare questa dinamica circolare di causa-effetto-causa-effetto-causa-…-...-…- ?
Il primo passo, fin troppo ovvio, dovrebbe essere quello di fare attenzione a ciò che si dice e a come lo si dice, a come si risponde e a ciò che si risponde, in modo da distinguere, nel mio stato d’animo, che cosa ha che vedere con me, e che cosa ha a che vedere con l’altro, assumendosi la responsabilità, come mittente, delle modalità di trasmissione, e come destinatario, delle modalità di ricezione.
Potremmo poi, ad esempio, sottoporre ai nostri interlocutori quello che immaginiamo loro pensino e sentano; in buona sostanza diamo un feedback, interpretando il nostro interlocutore e chiedendogli di correggere le nostre convinzioni sul suo modo di pensare e di sentirsi. Insomma dovremmo dire: “Vorrei esprimere quello che immagino siano i tuoi pensieri, facendo finta di essere te; poi vorrei che tu mi dicessi che cosa ne pensi, quanto di quello che io immagino corrisponde alla realtà e quanto è mia fantasia”.
Un altro possibile modo consiste nell’offrire al nostro interlocutore una visione del nostro mondo interiore, raccontandogli come ci fanno sentire e che cosa ci fanno pensare le cose che ci dice. Dovremmo parlare di noi stessi, evitando di interpretare le intenzioni dell’altro. Dovremmo utilizzare una modalità del tipo: “mi sento …” piuttosto che: “tu mi hai …” , “tu sei ...”, in modo da portare l’attenzione su di noi invece che esprimere giudizi sull’altro.
L’intendimento è esplicitare gli effetti della comunicazione, anziché analizzare e discutere il contenuto dei messaggi. Si tratta di metacomunicazione esplicita, cioè di una comunicazione “in chiaro” sulla comunicazione e sulla relazione, di una descrizione di come vogliamo trattare l’altro e del modo in cui abbiamo inteso esprimere un certo messaggio; di come ci sentiamo considerati e di come ci è pervenuto il messaggio. Si tratta di salire di livello, rispetto al contenuto del messaggio, di esplicitare ciò che sta accadendo dentro di me e tra di noi, di un dialogo su come sento me stesso, su come vedo te e su quale è la relazione che ci lega.
Non è però un’operazione usuale, e non è a rischio zero. È qualcosa di cui si può provare imbarazzo, disagio e timore. Potremmo essere fatti a pezzi, se il nostro interlocutore non è disponibile a guardare noi, sé stesso e la nostra relazione con un po’ di distacco, tanto da essere in grado di parlare delle sue/nostre sensazioni, emozioni e pensieri.
Se ci interessa la relazione, è un rischio che potrebbe valer la pena di correre, perché la probabile alternativa è il fraintendimento costante, la rigidità, la chiusura.
Torno ora sull’argomento della comunicazione, prendendo a prestito qualche frammento di vita quotidiana.
Davanti alla tv: “Vilma, la birra è finita!” - “Vai a prendertela”
In auto: “Guarda che è verde!” - “Guidi tu o guido io?”
A cena: “Che cosa c’è in questa minestra?” - “Se non ti piace, puoi andare a mangiare al ristorante”
Richiesta: “Potresti solo aiutarmi a piegare le lenzuola?”
Questi esempi evidenziano ciò che il messaggio include, al di là delle parole (la cui scelta ha un peso), da parte del mittente, in termini di rappresentazione di sé e di come egli consideri il destinatario. La chiamiamo metacomunicazione implicita, attuata attraverso tutti i canali che utilizziamo per esprimerci, verbali e soprattutto non verbali.
Per parte sua, il destinatario reagisce sulla base delle ipotesi che costruisce, senza preoccuparsi di appurare se la percezione che ha avuto, l’interpretazione che ne fa e la sensazione che stimola la sua reazione, corrispondono in qualche modo agli intendimenti del mittente oppure dipendono da sé stesso (questione di punteggiatura…).
Il messaggio viene recepito a seconda del terreno cui approda: il destinatario lo decodifica sulla base delle proprie chiavi interpretative, aggiungendo materiale di propria fabbricazione, che si combina con il materiale fornito dal mittente, a volte dando luogo a reazioni esplosive.
Si entra così in una dinamica di conflitto, dove le comunicazioni non si riferiscono a fatti concreti, ad eventi specifici, dove le divergenze non riguardano aspetti definiti della vita quotidiana, ma abbracciano implicitamente l’intera personalità degli interlocutori.
Come possiamo modificare questa dinamica circolare di causa-effetto-causa-effetto-causa-…-...-…- ?
Il primo passo, fin troppo ovvio, dovrebbe essere quello di fare attenzione a ciò che si dice e a come lo si dice, a come si risponde e a ciò che si risponde, in modo da distinguere, nel mio stato d’animo, che cosa ha che vedere con me, e che cosa ha a che vedere con l’altro, assumendosi la responsabilità, come mittente, delle modalità di trasmissione, e come destinatario, delle modalità di ricezione.
Potremmo poi, ad esempio, sottoporre ai nostri interlocutori quello che immaginiamo loro pensino e sentano; in buona sostanza diamo un feedback, interpretando il nostro interlocutore e chiedendogli di correggere le nostre convinzioni sul suo modo di pensare e di sentirsi. Insomma dovremmo dire: “Vorrei esprimere quello che immagino siano i tuoi pensieri, facendo finta di essere te; poi vorrei che tu mi dicessi che cosa ne pensi, quanto di quello che io immagino corrisponde alla realtà e quanto è mia fantasia”.
Un altro possibile modo consiste nell’offrire al nostro interlocutore una visione del nostro mondo interiore, raccontandogli come ci fanno sentire e che cosa ci fanno pensare le cose che ci dice. Dovremmo parlare di noi stessi, evitando di interpretare le intenzioni dell’altro. Dovremmo utilizzare una modalità del tipo: “mi sento …” piuttosto che: “tu mi hai …” , “tu sei ...”, in modo da portare l’attenzione su di noi invece che esprimere giudizi sull’altro.
L’intendimento è esplicitare gli effetti della comunicazione, anziché analizzare e discutere il contenuto dei messaggi. Si tratta di metacomunicazione esplicita, cioè di una comunicazione “in chiaro” sulla comunicazione e sulla relazione, di una descrizione di come vogliamo trattare l’altro e del modo in cui abbiamo inteso esprimere un certo messaggio; di come ci sentiamo considerati e di come ci è pervenuto il messaggio. Si tratta di salire di livello, rispetto al contenuto del messaggio, di esplicitare ciò che sta accadendo dentro di me e tra di noi, di un dialogo su come sento me stesso, su come vedo te e su quale è la relazione che ci lega.
Non è però un’operazione usuale, e non è a rischio zero. È qualcosa di cui si può provare imbarazzo, disagio e timore. Potremmo essere fatti a pezzi, se il nostro interlocutore non è disponibile a guardare noi, sé stesso e la nostra relazione con un po’ di distacco, tanto da essere in grado di parlare delle sue/nostre sensazioni, emozioni e pensieri.
Se ci interessa la relazione, è un rischio che potrebbe valer la pena di correre, perché la probabile alternativa è il fraintendimento costante, la rigidità, la chiusura.