Prima che le mani del pianista sfiorino i tasti, c’è già una musica che ci attraversa. È fatta di parole, quelle del professor Carretti, che hanno la grazia di un ponte e la forza di un fiume. Ci introduce agli autori come si presentano vecchi amici: Haydn, Bach, Busoni. Non sono solo nomi, ma vite intrecciate, contaminazioni che aprono finestre su mondi che non conoscevamo.
“Ogni autore,” dice Carretti, “è un confine che non finisce mai.” E noi ascoltiamo, mentre disegna con le sue parole i timbri di un’orchestra invisibile che già scuote i nostri corpi.
È un po’ come quando parliamo con qualcuno e scopriamo che ogni scambio apre possibilità nuove, che ogni parola, anche imperfetta, può guidare un cambiamento. La comunicazione, come la musica, non è mai un atto neutro: è un ponte, una contaminazione, un lasciarsi toccare e trasformare.
Haydn, con la sua Sonata, ci porta nella classicità che si spinge oltre sé stessa. Le note svelano l’orchestra nascosta nel pianoforte: timpani che non esistono, archi che il pianista inventa con l’illusione di mani che sanno troppo. Sembra quasi che Haydn ci parli ancora, un compositore che non ha mai smesso di crescere.
È un po’ come parlare con qualcuno che, nel rispetto delle proprie radici, sa proiettarsi nel futuro. Una comunicazione rispettosa e pragmatica, che non impone ma esplora, come un counselor che ci accompagna senza mai guidare troppo.
E poi Bach, il peso della memoria che diventa gioco. Busoni lo reinventa, lo scolpisce dal marmo dell’organo per consegnarlo alla fragilità del pianoforte. Un suono che si spegne, che decade nel silenzio, eppure resiste, emerge, sprofonda. Come un respiro trattenuto troppo a lungo. C’è una bellezza decadente, una malinconia che non si esaurisce mai.
Come nelle conversazioni più profonde, in cui ci lasciamo condurre nei silenzi, negli spazi tra le parole, scoprendo che anche ciò che non viene detto può avere un peso immenso. Solaris, dice Caretti, è il film che più lo rappresenta: la memoria che annega, il tempo che si riflette in un’acqua torbida. Come il passato che portiamo dentro, che guida i nostri dialoghi e ci permette di crescere solo quando abbiamo il coraggio di immergerci in esso.
E infine Chopin, il poeta che non usa parole. I 24 preludi sono un labirinto senza pareti. Non conducono a niente, eppure ci portano ovunque. Ogni preludio è un gioco, ma il gioco è la vita stessa. Tashko, con le sue mani che sembrano leggere il tempo, ce li consegna uno per uno. Sono messaggi che ci arrivano da una distanza intangibile. Le sue mani, ora leggere come ali, ora pesanti come il vento prima di un temporale, ci trascinano in un dialogo con ciò che non sappiamo di noi stessi.
E non è così, anche nella comunicazione più autentica? Non è forse vero che le parole, come le note, ci raggiungono in modi che non possiamo prevedere, rivelandoci parti di noi stessi che ignoravamo? La comunicazione pragmatica, quella rispettosa e aperta, non impone risposte ma ci invita a giocare con domande che aprono spazi. Come fa un counselor esperto, che sa che ogni dialogo è un gioco tra il dire e l’ascoltare, tra il lasciare spazio e il proporre.
Il suo pianoforte non suona, parla. Racconta di luoghi lontani: una cattedrale ortodossa in una città balcanica, l’eco di tradizioni che si mescolano al nuovo, al possibile. Ogni nota si spegne, e in quello spegnersi lascia un’impronta, come un passo nella neve che si scioglierà al sole.
E poi noi, ascoltatori. Giochiamo all’ascolto della nostra vita. Carretti aveva ragione: non si tratta di capire, ma di sentire. Non importa se la comprensione è incompleta. Ciò che conta è che la musica passi attraverso di noi, ci scuota, ci renda capaci di vivere quel silenzio che rimane tra una nota e l’altra.
Il concerto è finito, ma ci lascia con una lezione profonda: che la comunicazione, come la musica, è una danza di lieviti, tra quello che siamo e quello che possiamo diventare. È rispetto, è gioco, è trasformazione. Ed è questa la bellezza che ci portiamo via, non solo dal palco della Chigiana, ma anche dalla vita stessa.
“Ogni autore,” dice Carretti, “è un confine che non finisce mai.” E noi ascoltiamo, mentre disegna con le sue parole i timbri di un’orchestra invisibile che già scuote i nostri corpi.
È un po’ come quando parliamo con qualcuno e scopriamo che ogni scambio apre possibilità nuove, che ogni parola, anche imperfetta, può guidare un cambiamento. La comunicazione, come la musica, non è mai un atto neutro: è un ponte, una contaminazione, un lasciarsi toccare e trasformare.
Haydn, con la sua Sonata, ci porta nella classicità che si spinge oltre sé stessa. Le note svelano l’orchestra nascosta nel pianoforte: timpani che non esistono, archi che il pianista inventa con l’illusione di mani che sanno troppo. Sembra quasi che Haydn ci parli ancora, un compositore che non ha mai smesso di crescere.
È un po’ come parlare con qualcuno che, nel rispetto delle proprie radici, sa proiettarsi nel futuro. Una comunicazione rispettosa e pragmatica, che non impone ma esplora, come un counselor che ci accompagna senza mai guidare troppo.
E poi Bach, il peso della memoria che diventa gioco. Busoni lo reinventa, lo scolpisce dal marmo dell’organo per consegnarlo alla fragilità del pianoforte. Un suono che si spegne, che decade nel silenzio, eppure resiste, emerge, sprofonda. Come un respiro trattenuto troppo a lungo. C’è una bellezza decadente, una malinconia che non si esaurisce mai.
Come nelle conversazioni più profonde, in cui ci lasciamo condurre nei silenzi, negli spazi tra le parole, scoprendo che anche ciò che non viene detto può avere un peso immenso. Solaris, dice Caretti, è il film che più lo rappresenta: la memoria che annega, il tempo che si riflette in un’acqua torbida. Come il passato che portiamo dentro, che guida i nostri dialoghi e ci permette di crescere solo quando abbiamo il coraggio di immergerci in esso.
E infine Chopin, il poeta che non usa parole. I 24 preludi sono un labirinto senza pareti. Non conducono a niente, eppure ci portano ovunque. Ogni preludio è un gioco, ma il gioco è la vita stessa. Tashko, con le sue mani che sembrano leggere il tempo, ce li consegna uno per uno. Sono messaggi che ci arrivano da una distanza intangibile. Le sue mani, ora leggere come ali, ora pesanti come il vento prima di un temporale, ci trascinano in un dialogo con ciò che non sappiamo di noi stessi.
E non è così, anche nella comunicazione più autentica? Non è forse vero che le parole, come le note, ci raggiungono in modi che non possiamo prevedere, rivelandoci parti di noi stessi che ignoravamo? La comunicazione pragmatica, quella rispettosa e aperta, non impone risposte ma ci invita a giocare con domande che aprono spazi. Come fa un counselor esperto, che sa che ogni dialogo è un gioco tra il dire e l’ascoltare, tra il lasciare spazio e il proporre.
Il suo pianoforte non suona, parla. Racconta di luoghi lontani: una cattedrale ortodossa in una città balcanica, l’eco di tradizioni che si mescolano al nuovo, al possibile. Ogni nota si spegne, e in quello spegnersi lascia un’impronta, come un passo nella neve che si scioglierà al sole.
E poi noi, ascoltatori. Giochiamo all’ascolto della nostra vita. Carretti aveva ragione: non si tratta di capire, ma di sentire. Non importa se la comprensione è incompleta. Ciò che conta è che la musica passi attraverso di noi, ci scuota, ci renda capaci di vivere quel silenzio che rimane tra una nota e l’altra.
Il concerto è finito, ma ci lascia con una lezione profonda: che la comunicazione, come la musica, è una danza di lieviti, tra quello che siamo e quello che possiamo diventare. È rispetto, è gioco, è trasformazione. Ed è questa la bellezza che ci portiamo via, non solo dal palco della Chigiana, ma anche dalla vita stessa.