Non è stata una gita.
È stato un Viaggio – con la V maiuscola – pieno di significati, di battiti e di pedalate.
Cento chilometri in due giorni.
Con il cuore in mano, e la bici – ben stretta – sotto il sedere.
Siena e le sue colline, Buonconvento e i suoi calanchi… più che paesaggi, sembravano metafore viventi del sistema cardiovascolare: salite che somigliavano a extrasistoli emotive, discese come tachicardie felici, e strade bianche che parevano coronarie appena stentate. Il cuore ha battuto, sì. Ma stavolta per la vita.
Il primo giorno ci ha accolti con un tuffo nelle acque termali, un momento sospeso tra corpo e anima. E l’ultimo, come nelle storie ben scritte, si è chiuso nella splendida cornice della Chiusafarina: un sipario di bellezza a suggellare un atto collettivo di resilienza.
I protagonisti?
Gli audaci.
I volenterosi.
I matti buoni – che, si sa, sono i più lucidi tra noi.
Partiti dalla Sicilia, dalla Liguria, dalla Lombardia, dall’Emilia Romagna, dalla Toscana: un gruppo di cuori ambulanti, famiglie al seguito, pedalando con una grazia da Giro dell’Eroica. Gente che, alla velocità media del gruppo, ha fatto esclamare agli esterni: “Ma sono pazzi!”
Sì. Pazzi di voglia di vivere.
Dietro le quinte, ma solo per una gamba birichina, Annalisa Monaco, guida stoica su quattro ruote e regista dell’anima, ha seguito il gruppo come una cinepresa in movimento – telefono alla mano, cuore in prima fila, e Marco a fianco come spalla poetica e logistica. Sembravano Registi su sterrato, diretti sul palcoscenico del cuore umano.
E poi c’è lui: il cuore.
Quello che inciampa. Quello che si rialza.
Quello che cambia ritmo, cambia strada, cambia tutto.
Tra una pedalata e una salita: “E tu come stai? Come l’hai scoperto? Come vivi adesso?”
Domande che si sussurrano rapide, prima che la bellezza prenda di nuovo il sopravvento.
E simboli, ne vogliamo parlare?
Sono state un atto delicato d’amore per la vita.
Un modo per dire, con fiato e sudore:
non moriremo sul divano della tristezza.
Non ci accontenteremo della paura.
Noi, che la malattia l’abbiamo conosciuta in faccia, pedaleremo più forte.
Perché ogni pedalata è un atto di fiducia:
Nel corpo.
Nel gruppo.
Nella natura.
E in chi, come il prof. Cecchi e il suo staff, ci guarda con quegli occhi da medico che hanno visto tutto, ma non hanno smesso di credere.
Grazie per le risate toscanacce, per i sorrisi a fine tappa, per gli abbracci muti e i respiri condivisi sotto la nebbia e sotto il sole.
Avete dimostrato che la malattia può diventare simbolo di cambiamento.
Che il corpo può essere rispettato, ascoltato, amato.
Che un gruppo può diventare famiglia.
E quindi… avanti così.
Con i muscoli che bruciano, il fiato corto, e l’anima che si espande.
Perché la bicicletta è movimento, la comunità è cura, e la bellezza è la vera terapia intensiva.
AICARM, grazie.
Perché ci fate battere il cuore—ma stavolta, per scelta.
È stato un Viaggio – con la V maiuscola – pieno di significati, di battiti e di pedalate.
Cento chilometri in due giorni.
Con il cuore in mano, e la bici – ben stretta – sotto il sedere.
Siena e le sue colline, Buonconvento e i suoi calanchi… più che paesaggi, sembravano metafore viventi del sistema cardiovascolare: salite che somigliavano a extrasistoli emotive, discese come tachicardie felici, e strade bianche che parevano coronarie appena stentate. Il cuore ha battuto, sì. Ma stavolta per la vita.
Il primo giorno ci ha accolti con un tuffo nelle acque termali, un momento sospeso tra corpo e anima. E l’ultimo, come nelle storie ben scritte, si è chiuso nella splendida cornice della Chiusafarina: un sipario di bellezza a suggellare un atto collettivo di resilienza.
I protagonisti?
Gli audaci.
I volenterosi.
I matti buoni – che, si sa, sono i più lucidi tra noi.
Partiti dalla Sicilia, dalla Liguria, dalla Lombardia, dall’Emilia Romagna, dalla Toscana: un gruppo di cuori ambulanti, famiglie al seguito, pedalando con una grazia da Giro dell’Eroica. Gente che, alla velocità media del gruppo, ha fatto esclamare agli esterni: “Ma sono pazzi!”
Sì. Pazzi di voglia di vivere.
Dietro le quinte, ma solo per una gamba birichina, Annalisa Monaco, guida stoica su quattro ruote e regista dell’anima, ha seguito il gruppo come una cinepresa in movimento – telefono alla mano, cuore in prima fila, e Marco a fianco come spalla poetica e logistica. Sembravano Registi su sterrato, diretti sul palcoscenico del cuore umano.
E poi c’è lui: il cuore.
Quello che inciampa. Quello che si rialza.
Quello che cambia ritmo, cambia strada, cambia tutto.
Tra una pedalata e una salita: “E tu come stai? Come l’hai scoperto? Come vivi adesso?”
Domande che si sussurrano rapide, prima che la bellezza prenda di nuovo il sopravvento.
E simboli, ne vogliamo parlare?
- Il soffio al cuore, come primo accenno di poesia interiore.
- Le palpitazioni, al ritmo di un tamburo esistenziale.
- La tachicardia, come reazione al primo amore… o al primo tornante con pendenza scivolosa.
- La cardiomiopatia, metafora dei nostri tempi: fragile, certo. Ma migliorabile, se trattata con rispetto e testardaggine.
- E il defibrillatore – amico brutale ma sincero – sempre pronto a urlarti: “Oh! Guarda che si vive solo una volta. Ripigliati!”
Sono state un atto delicato d’amore per la vita.
Un modo per dire, con fiato e sudore:
non moriremo sul divano della tristezza.
Non ci accontenteremo della paura.
Noi, che la malattia l’abbiamo conosciuta in faccia, pedaleremo più forte.
Perché ogni pedalata è un atto di fiducia:
Nel corpo.
Nel gruppo.
Nella natura.
E in chi, come il prof. Cecchi e il suo staff, ci guarda con quegli occhi da medico che hanno visto tutto, ma non hanno smesso di credere.
Grazie per le risate toscanacce, per i sorrisi a fine tappa, per gli abbracci muti e i respiri condivisi sotto la nebbia e sotto il sole.
Avete dimostrato che la malattia può diventare simbolo di cambiamento.
Che il corpo può essere rispettato, ascoltato, amato.
Che un gruppo può diventare famiglia.
E quindi… avanti così.
Con i muscoli che bruciano, il fiato corto, e l’anima che si espande.
Perché la bicicletta è movimento, la comunità è cura, e la bellezza è la vera terapia intensiva.
AICARM, grazie.
Perché ci fate battere il cuore—ma stavolta, per scelta.