Ho comunicato a mia sorella che mi ero iscritto ad un corso per diventare coach.
Bello, mi fa, cosa vuol dire?
Già, cosa vuol dire? Nella mia mente mi sembrava già acquisito, volevo fare il corso, mi piaceva l’idea ero certo di sapere cosa avrei studiato nel corso e cosa avrei fatto dopo… e invece, non so come spiegarmi.
È un po’ di tempo che sto lottando con questa difficoltà: penso chiaramente ai miei obiettivi e i percorsi per raggiungerli, vedo e capisco apparentemente senza difficoltà dove giungerò; ma se provo a esprimerli verbalmente, le mie parole non sanno spiegare così chiaramente.
“Ok” le dico, “il coach non è uno psicologo …, in quanto non si è laureato in psicologia e tantomeno deve rischiare di fare analisi; non è un counselor, perché, perché … non è un counselor. È un coach!”
Cerco di comunicarlo, ma è complicato. Eppure ero convinto di saperlo, quando mi sono iscritto al master. Più ci penso più diventa complesso; il coaching è un percorso di crescita e d’aiuto più articolato e completo di quanto mi ero disegnato in testa!
Mi dice con sguardo serafico che ha capito cosa non è e mi stimola a proseguire per spiegarle cos’è.
Ci riprovo: “Allora, lo psicologo lo sappiamo; il counselor è un consulente, un consigliere, uno che ti aiuta a capire e ti suggerisce o consiglia la strada migliore per raggiungere i tuoi obiettivi”. Ci penso qualche secondo in più e poi aggiungo: “credo!”.
“Mi parli di psicologi e counselor; dimmi del coaching piuttosto.”
Lo sguardo è sempre serafico, ma anche un poco indagatore mentre si tocca il padiglione auricolare sinistro; è molto brava nel linguaggio corporale (e anche a fare le domande giuste) e io la capisco benissimo; è mia sorella!
E infatti, eccolo qua! Ora ricordo; la lettura del suo linguaggio non verbale mi ha aperto la porta all’informazione corretta, mi ha accompagnato a quelle due parole, forse poco accademiche, che in questo momento mi servono ad afferrare in quale direzione devo e voglio andare per assimilare il concetto di coaching.
“Il coach” le dico con energia e sicurezza in me stesso “è un ascoltatore”, la osservo, mi osserva, “e un domandatore” aggiungo subito dopo. Mi accorgo della ingenuità apparente di questi termini e sorrido osservando ancora quel suo sguardo serafico trasformarsi in divertito.
Qual è la più importante azione necessaria per un efficace e utile dialogo?
È una domanda che mi sono trovato spesso a chiedere a gruppi di formazione che seguivo, fossero ragazzi, lavoratori in formazione sulla sicurezza sul lavoro o di team building. Purtroppo ascoltare non è quasi mai considerato prioritario, piuttosto farsi ascoltare, avere cose da dire, aver chiare le proprie idee, aver un progetto da sottoporre, assicurarsi di essere ascoltati, parlare piano e chiaramente, ecc. ecc.
Ascoltare a volte non viene nemmeno considerata un’azione. Per questo motivo esiste il termine “ascolto attivo” che di per sé è un termine ridondante.
Ascoltare è un’azione alla quale dare molta più attenzione di quanto normalmente si ritiene; io lo sto imparando ogni volta di più. Secondo la teoria acquisita dello psicologo Albert Mehrabian, la comunicazione passa solo al 7% dal dichiarato verbalmente, il 38% è il cosiddetto para-verbale, tono, volume, timbro, pause e il 55% è il non verbale, cioè il corpo: posizione, mimica, postura, movimenti. Se così è, la mia attenzione nell’ascolto non può essere fatto solo con l’udito e mentre ascolto una persona di fronte a me, comunico, almeno con quel 55% che è il mio corpo e i suoi movimenti.
Ecco se la persona comune sente il 7% di ciò che gli viene comunicato, una persona preparata e attenta può arrivare a dei livelli molto superiori, un coach deve salire di molte decine di unità e un bravo coach dovrà imparare ad ascoltare il più vicino possibile al 100%, osservando, ascoltando con gli occhi, ascoltando con le emozioni, ascoltando con l’energia.
Ascoltare, mi sembra di aver capito essere il 70% del lavoro di un bravo coach. Quando una persona si sente ascoltata in questo modo, di conseguenza si sente vista, accolta, capita. Non si sente giudicata. E questo può bastare ad un uomo, ad una donna, ad un ragazzo per cambiare il pensiero di sé.
Ma il coach non si ferma qui, il coach è un “domandatore”, e anche questa è un’azione che comporta grande attenzione.
Certo è che non si domanda per curiosità, pettegolezzo o indiscrezione. Si domanda per insegnare all’interlocutore ad ascoltarsi.
Succede che quando noi parliamo, potremmo non essere dei buoni ascoltatori di noi stessi; sentiamo il nostro 7% verbale e non abbiamo dato retta alla mano che copriva la bocca in un mezzo sbadiglio mentre nominavamo “il mio manager è una brava persona”; o magari consideriamo la pausa tra la parola amo e la parola mio fratello, una normale necessità respiratoria. L’uomo della strada non è abituato ad ascoltare e ad ascoltarsi ma, se sensibile alla necessità di crescere o solamente desideroso di raggiungere un obiettivo specifico, potrebbe accettare di mettere in discussione il proprio modo di parlare e di ascoltare.
Ecco il coach cosa fa, sorellina: “Il coach è una persona capace di ascoltare e che cercherà il modo, attraverso delle domande calibrate, di accompagnarti all’ascolto di te stesso, per trovare dentro di te quel percorso utile a lavorare anche con il manager che non ti piace o con quel fratello così diverso da te, se è quello che vuoi. Al coach non interessa la tua storia personale, non deve e non vuole analizzare o creare ganci psicologici; al coach non verrà in mente di risolverti un problema, non è un esperto del tuo settore lavorativo e della tipologia delle tue problematiche.
Il coach è l’aiuto più gentile, più reale e più vicino al tuo presente che tu possa desiderare”.
Bello, mi fa, cosa vuol dire?
Già, cosa vuol dire? Nella mia mente mi sembrava già acquisito, volevo fare il corso, mi piaceva l’idea ero certo di sapere cosa avrei studiato nel corso e cosa avrei fatto dopo… e invece, non so come spiegarmi.
È un po’ di tempo che sto lottando con questa difficoltà: penso chiaramente ai miei obiettivi e i percorsi per raggiungerli, vedo e capisco apparentemente senza difficoltà dove giungerò; ma se provo a esprimerli verbalmente, le mie parole non sanno spiegare così chiaramente.
“Ok” le dico, “il coach non è uno psicologo …, in quanto non si è laureato in psicologia e tantomeno deve rischiare di fare analisi; non è un counselor, perché, perché … non è un counselor. È un coach!”
Cerco di comunicarlo, ma è complicato. Eppure ero convinto di saperlo, quando mi sono iscritto al master. Più ci penso più diventa complesso; il coaching è un percorso di crescita e d’aiuto più articolato e completo di quanto mi ero disegnato in testa!
Mi dice con sguardo serafico che ha capito cosa non è e mi stimola a proseguire per spiegarle cos’è.
Ci riprovo: “Allora, lo psicologo lo sappiamo; il counselor è un consulente, un consigliere, uno che ti aiuta a capire e ti suggerisce o consiglia la strada migliore per raggiungere i tuoi obiettivi”. Ci penso qualche secondo in più e poi aggiungo: “credo!”.
“Mi parli di psicologi e counselor; dimmi del coaching piuttosto.”
Lo sguardo è sempre serafico, ma anche un poco indagatore mentre si tocca il padiglione auricolare sinistro; è molto brava nel linguaggio corporale (e anche a fare le domande giuste) e io la capisco benissimo; è mia sorella!
E infatti, eccolo qua! Ora ricordo; la lettura del suo linguaggio non verbale mi ha aperto la porta all’informazione corretta, mi ha accompagnato a quelle due parole, forse poco accademiche, che in questo momento mi servono ad afferrare in quale direzione devo e voglio andare per assimilare il concetto di coaching.
“Il coach” le dico con energia e sicurezza in me stesso “è un ascoltatore”, la osservo, mi osserva, “e un domandatore” aggiungo subito dopo. Mi accorgo della ingenuità apparente di questi termini e sorrido osservando ancora quel suo sguardo serafico trasformarsi in divertito.
Qual è la più importante azione necessaria per un efficace e utile dialogo?
È una domanda che mi sono trovato spesso a chiedere a gruppi di formazione che seguivo, fossero ragazzi, lavoratori in formazione sulla sicurezza sul lavoro o di team building. Purtroppo ascoltare non è quasi mai considerato prioritario, piuttosto farsi ascoltare, avere cose da dire, aver chiare le proprie idee, aver un progetto da sottoporre, assicurarsi di essere ascoltati, parlare piano e chiaramente, ecc. ecc.
Ascoltare a volte non viene nemmeno considerata un’azione. Per questo motivo esiste il termine “ascolto attivo” che di per sé è un termine ridondante.
Ascoltare è un’azione alla quale dare molta più attenzione di quanto normalmente si ritiene; io lo sto imparando ogni volta di più. Secondo la teoria acquisita dello psicologo Albert Mehrabian, la comunicazione passa solo al 7% dal dichiarato verbalmente, il 38% è il cosiddetto para-verbale, tono, volume, timbro, pause e il 55% è il non verbale, cioè il corpo: posizione, mimica, postura, movimenti. Se così è, la mia attenzione nell’ascolto non può essere fatto solo con l’udito e mentre ascolto una persona di fronte a me, comunico, almeno con quel 55% che è il mio corpo e i suoi movimenti.
Ecco se la persona comune sente il 7% di ciò che gli viene comunicato, una persona preparata e attenta può arrivare a dei livelli molto superiori, un coach deve salire di molte decine di unità e un bravo coach dovrà imparare ad ascoltare il più vicino possibile al 100%, osservando, ascoltando con gli occhi, ascoltando con le emozioni, ascoltando con l’energia.
Ascoltare, mi sembra di aver capito essere il 70% del lavoro di un bravo coach. Quando una persona si sente ascoltata in questo modo, di conseguenza si sente vista, accolta, capita. Non si sente giudicata. E questo può bastare ad un uomo, ad una donna, ad un ragazzo per cambiare il pensiero di sé.
Ma il coach non si ferma qui, il coach è un “domandatore”, e anche questa è un’azione che comporta grande attenzione.
Certo è che non si domanda per curiosità, pettegolezzo o indiscrezione. Si domanda per insegnare all’interlocutore ad ascoltarsi.
Succede che quando noi parliamo, potremmo non essere dei buoni ascoltatori di noi stessi; sentiamo il nostro 7% verbale e non abbiamo dato retta alla mano che copriva la bocca in un mezzo sbadiglio mentre nominavamo “il mio manager è una brava persona”; o magari consideriamo la pausa tra la parola amo e la parola mio fratello, una normale necessità respiratoria. L’uomo della strada non è abituato ad ascoltare e ad ascoltarsi ma, se sensibile alla necessità di crescere o solamente desideroso di raggiungere un obiettivo specifico, potrebbe accettare di mettere in discussione il proprio modo di parlare e di ascoltare.
Ecco il coach cosa fa, sorellina: “Il coach è una persona capace di ascoltare e che cercherà il modo, attraverso delle domande calibrate, di accompagnarti all’ascolto di te stesso, per trovare dentro di te quel percorso utile a lavorare anche con il manager che non ti piace o con quel fratello così diverso da te, se è quello che vuoi. Al coach non interessa la tua storia personale, non deve e non vuole analizzare o creare ganci psicologici; al coach non verrà in mente di risolverti un problema, non è un esperto del tuo settore lavorativo e della tipologia delle tue problematiche.
Il coach è l’aiuto più gentile, più reale e più vicino al tuo presente che tu possa desiderare”.