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'Coaching: relazione di aiuto ... ' di Salvatore Piazzese

27/11/2013

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Intervenendo come Coach, in una relazione d’aiuto, iniziamo con l’ “ascoltare” la persona, cercando di comprendere il nostro “raggio d’azione”. Dopo aver raccolto i dati, facciamo una “cornice” ed individuiamo “lo sfondo”; cercando di fare il punto, dentro la sfera delle nostre competenze, del nostro “sapere”, facciamo tutte quelle operazioni che conosciamo: calcoli, tracciati, ragionamenti; individuando le “domande forti” su cui fare focusing.

Tutto ciò  serve per comprendere quale direzione prendere per raggiungere l’ obiettivo, quale parte “evidenziare”, per far agire, o re-agire, la persona che ha chiesto il nostro intervento; per aiutarlo a poter tirare fuori le sue risorse, le sue potenzialità, creando un problem solving strategico.

A questo punto, spostandomi su un “altro piano” d’ascolto, non posso sottrarmi dall'immergermi in una considerazione introspettiva, cosa risuona dentro me?;  cosa risalta ascoltando l’altro?; “mi appartiene”?.  Se sì, sarò in grado di aiutarlo restando in una sfera neutrale, senza fare intervenire il “mio emotivo”?;  altrimenti, dando delle risposte più riguardanti la mia problematica, che aiuto sarò in grado di dare  alla persona  ?.

Se non ho fatto “esperienza”, almeno in parte, se non riesco ad “collocarla” come un un’emozione  vissuta da me,  non riuscendo ad entrare in sintonica empatia con la persona che ha richiesto il mio aiuto, sarò portato a dare soltanto un mero aiuto didattico, “ di mestiere”.

La difficoltà è nel mettermi emotivamente nei panni dell’altro, rimanendo me stesso.


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